Sì, i dj, i producer, i promoter dei party e dei festival più importanti: gente sotto la luce dei riflettori, che alimenta un sistema che non sempre (e anzi, forse meno) sentiamo che ci rappresenta, anche quando si tratta comunque di persone e realtà che mietono numeri e sold out. Almeno a parole, c’è però sempre più al volontà di (ri)scoprire una dimensione più sostenibile e più di ricerca, che viene percepita come più “autentica”, al contrario del mercato guidato solo dalle grandi agenzie e dai soliti nomi. Abbiamo fatto allora una cosa: siamo andati a cercare quello che secondo noi è uno dei migliori direttori artistici d’Italia – lui apprezzerà la definizione fino ad un certo punto, come spiega sotto – per quanto riguarda l’intersezione fra jazz, elettronica, arti performative. Tra l’altro Enrico Bettinello, il nostro ottimo intervistato, ha appena preso in mano una eredità importante: quella del Centro Santa Chiara di Trento, che qualche anno fa dava un grandissimo (e salutare) scossone alla sua rassegna jazz chiamando a capo della direzione artistica Denis Longhi, deus ex machina del nostro amatissimo Jazz:Re:Found (anche quest’anno con un super programma), che ha fatto un lavoro importante. Questa eredità è ora in buone mani. Ma con Enrico siamo andati ben oltre Trento e la cronaca spicciola, per provare invece ad addentrarci in cosa è e cosa significa, in questi anni, il ruolo di “direttore artistico“. O, se preferite e se preferisce lui, “curatore“. Perché una cosa è certa: dalle line up preconfezionate, dai “soliti” nomi coi cachet gonfiati, dalle situazioni tutte uguali e standardizzate usciremo solo se emergerà una capacità di curatela molto, molto, molti diversa rispetto alla media attuale.
Come si diventa direttori artistici? Ti chiedo un parallelismo: metti insieme la peculiarità del tuo percorso personale, raccontandolo un po’, con alcuni principi e regole da seguire universalmente validi.
Trovo sempre un po’ riduttivo parlare di “direzione artistica” e preferisco ragionare di “curatela”, termine forse abusato negli ultimi anni, ma che porta comunque con sé il senso della cura, della riflessione teorica, dell’affettività e della responsabilità complessiva che questo ruolo richiede. Mi sono occupato per anni di comunicazione e di critica e ho potuto costruire uno sguardo privilegiato su cosa succedeva nella musica e sul come succedeva, per cui quando sono diventato direttore del Teatro Fondamenta Nuove di Venezia è stato per me interessantissimo declinare questo sguardo alla programmazione. Oggi mi ritengo molto fortunato a avere la prospettiva del curatore, quella del critico e quella dello studioso di performing arts: mi permette di provare a inquadrare i fenomeni da diverse angolazioni e di costruire i progetti in modo armonico, partendo dal contesto, dalla specificità esperienziale, dalla capacità di muovere lo spettatore dalla sua posizione per acquisirne una nuova. Quando ho iniziato (i primi concerti che ho organizzato sono di fine anni Novanta) per me, come è comprensibile, l’idea era “chiamo l’artista X o Y che sono fighissime/i”, ma già dopo pochi anni mi ha iniziato a incuriosire di più cosa succedeva tra il palco e la platea che non l’idea di mettermi sul bavero delle medaglie di nomi, che pure alla fine erano tanti e importanti. Negli ultimi anni sto lavorando molto anche come curatore di progetti che uniscono musicisti e coreografi, nonché di residenze creative e mi piace molto immaginare insieme agli artisti in questa direzione, più che “fissare” semplicemente un concerto.
La percezione, completamente sbagliata, è che il lavoro del direttore artistico sia semplicemente esprimere delle scelte artistiche. Vogliamo sfatare questo mito? Quali sono le vari dinamiche da tenere in considerazione? In che modo si costruisce un cartellone?
Credo sia un lavoro che si può interpretare in molti modi, ma che è indubbiamente sempre più complesso e non può ridursi solo all’espressione delle scelte artistiche, pena una monodimensionalità degli esiti. Un cartellone nasce dal desiderio, da quello di cui una comunità di ascoltatori può avere bisogno, dal caso a volte, da qualche botta di culo, dalla capacità di dare coerenza e equilibrio, dai rapporti (amo lavorare con persone che mi fanno stare bene) e dalla visione. Sempre più per me è rilevante poi l’unicità performativa: avendo molta esperienza nel mondo del jazz (ma il discorso vale per qualsiasi genere), ci si trova di fronte a decine di band e artisti che sono qualitativamente e musicalmente eccellenti, ma non tutte hanno quella peculiarità performativa che rende il loro concerto qualcosa che ho voglia di proporre anche a chi non è particolarmente in sintonia con quel linguaggio. Ecco, direi che questo è per me un criterio: quando penso che quella performance possa essere significativa anche per chi non è un/a fan, scatta la molla dell’interesse..
Parallelamente alla quasi scomparsa della vendita del formato fisico, le richieste dei musicisti e dei loro management per le esibizioni live sono aumentate, in qualche caso moltiplicate. E’ stata la domanda (degli artisti) a creare l’offerta (dei promoter / direttori artistici), o il contrario (ovvero la grande richiesta da parte di promoter / direttori artistici ha spinto gli artisti ad alzare le loro pretese)?
Man mano che la musica registrata trova rilevanza in formati e modi di fruizione che non sono ancora stati pienamente metabolizzati o compresi nella loro potenzialità da tutti gli artisti (anche comprensibilmente), l’esperienza dal vivo rimane un momento unico e irripetibile, un momento emozionale, sociale, interattivo e – anche – la principale fonte di guadagno. Il mercato poi si muove in modo non sempre coerente e bisogna darsi delle regole: per farti un esempio a SetUp – la due giorni di performance e musica site-specific che curo insieme allo staff di Palazzo Grassi per il Museo di Punta della Dogana e che ben conosci – ci siamo dati la regola di non superare certe cifre eccessive di cachet artistico, elemento che ci ha magari impedito di concludere con qualche nome che avremmo voluto coinvolgere, ma che non ci ha mai impedito di costruire programmi di grande qualità.
Un cartellone nasce dal desiderio, da quello di cui una comunità di ascoltatori può avere bisogno, dal caso a volte, da qualche botta di culo, dalla capacità di dare coerenza e equilibrio, dai rapporti (amo lavorare con persone che mi fanno stare bene) e dalla visione
Una esperienza fondamentale nel tuo curriculum vitae è stata la direzione del Teatro Fondamenta Nuove, a Venezia, come già si accennava prima. Quali sono stati i passaggi fondamentali di quell’esperienza? Cosa è rimasto? Quali i ricordi più belli, e quali invece gli errori col senno di poi che avresti potuto evitare?
Quella del Teatro Fondamenta Nuove è stata un’esperienza seminale, a Venezia ma direi in Italia, nella definizione di possibilità di programmare con parametri innovativi. Ho iniziato a lavorare lì nel 2003, come responsabile della comunicazione, per diventarne direttore nel 2008. Ho imparato tantissimo: le questioni più pratiche e prosaiche, ma anche a togliere le barriere definitorie, a far dialogare la musica con la danza e il teatro contemporaneo, a lavorare con le residenze, a costruire una comunità di spettatori con cui dialogare e immaginare possibilità. Praticamente chiunque nell’ambito delle musiche creative, elettronica, improvvisata, indie, è passato dal Teatro Fondamenta Nuove in quegli anni: dalle tre serate dei Current 93 insieme a Bonnie Prince Billy, Six Organs Of Admittance e altri ospiti pazzeschi a Uri Caine, dai Matmos a Fennesz con la prima di “Venice”, da Colin Stetson a Thurston Moore, Peter Brötzmann o Mary Halvorson (che fece il suo primo concerto italiano da noi, nel trio di Trevor Dunn), solo per dirne alcuni, ma anche un giovane Lorenzo Senni che faceva le musiche per una performance dei Pathosformel o Björk ospite di una festa del Padiglione Islandese… quando avrò un po’ di tempo proverò a ricostruire quella straordinaria vicenda. Se mi chiedi cosa è rimasto posso dirti che il luogo ora è chiuso ed è una ferita per tutta la città, anche se dalle parole della comunità di spettatori e di artisti che lo frequentavano credo che i segni siano ancora presenti. Tra i ricordi più belli mi piace citare il concerto indimenticabile dei Dirty Three o quello dei Konono n.1, ma anche avere ospitato dei maestri come Mauricio Kagel, Frederic Rzewski o Phill Niblock, una nottata berlinese con Gudrun Gut e Thomas Fehlmann, la prima italiana di Colin Stetson. Forse il più emozionante di tutti resta il solo di contrabbasso di Peter Kowald che organizzammo ancora nel 2001 nell’aula magna dell’Università di Architettura, una delle esperienze sonore e umane più pazzesche di sempre, ma se me lo chiedi tra 5 minuti te ne dico altri… Di errori particolarmente eclatanti non credo ne abbiamo fatti: non tanto per immodestia, quanto per il fatto che c’era un’energia e un dialogo con il pubblico davvero irripetibile. Dipendevamo da finanziamenti pubblici e forse abbiamo sperato troppo a lungo che l’amministrazione capisse il valore di quello che facevamo (tra l’altro sempre con una presenza di pubblico altissima), ma non credo avremmo potuto convincerla nemmeno snaturandoci, cosa che non avrebbe avuto senso e purtroppo quell’esperienza si è chiusa.
Nel momento in cui si arriva in una nuova realtà, come nel tuo caso Trento e l’Auditorium Santa Chiara, come bisogna porsi? Quali sono i primi passaggi da fare?
Ascolto e visione. Ho la fortuna di lavorare ora a Trento dopo che curatori come Denis Longhi, Alberto Campo o Marco Segabinazzi hanno svolto un eccellente lavoro, per cui credo che ascoltare quello che il territorio ha recepito di quella proposta e quello che desidera, specialmente dopo un anno e mezzo di pandemia, sia il modo più corretto per capire come lavorare con una comunità. Poi ovviamente c’è la visione: i possibili scenari post-pandemici sono il luogo in cui rinsaldare un patto tra chi la musica la fa e chi della musica dal vivo fa esperienza, un patto tutt’altro che scontato e che passa dal mettere in connessione il locale con il globale. Come prima cosa ho lavorato a alcuni appuntamenti della rassegna estiva, da Giovanni Guidi a Cristina Donà, passando per Shingai, Julian Lage e Don Antonio & The Graces, appuntamenti che raccontano come la qualità e il coinvolgimento possano andare insieme. Purtroppo i Sons Of Kemet che erano previsti in agosto hanno dovuto annullare la data, ma la recupereremo e proprio in queste settimane sto immaginando i progetti per i prossimi mesi.
Quali sono le altre cose a cui stai lavorando o hai lavorato di recente?
Il progetto che curo da qualche anno per Pro Helvetia qui a Venezia si è evoluto e ora si chiama New Echo-System e da semplice rassegna di concerti di musiciste e musicisti svizzeri è ora improntato più alla residenza, produzione, ricerca anche interdisciplinare, oltre che ovviamente alle performance. Abbiamo iniziato con Therminal C, che è una fantastica specialista del theremin, che ha lavorato insieme a una giovane video artista, Matilde Sambo, ma nei prossimi mesi metteremo insieme anche Andrina Bollinger e Alessandra Bossa e svilupperemo un progetto che unisce l’etichetta sperimentale e elettronica svizzera -OUS con il collettivo Verv, oltre a ospitare il fantastico live di LIUN & The Science Fiction Band al Teatrino di Palazzo Grassi e quello degli Hely. Per NovaraJazz ho curato recentemente insieme a Martyna Markowska un progetto che unisce il duo italiano O-Janà con i polacchi Llovage, è venuta fuori una cosa davvero fighissima. E poi ho i miei impegni all’Università, la scrittura, il podcast Nowtilus che curo e conduco con Alice Ongaro Sartori per Ocean Space e l’attività all’interno di Europe Jazz Network, dove sono membro del board dei direttori. Insomma non mi annoio…
Fino a che punto bisogna rispettare la specificità di genere e fino a che punto invece bisogna contaminare, crossoverare? Vale per il jazz, come domanda, ma vale probabilmente per moltissimi altri generi musicali…
Quando sono diventato direttore del Teatro Fondamenta Nuove ho subito tolto i paletti delle etichette e dei contenitori: volevo che chi ascoltava i Mouse on Mars andasse a vedere una performance dei Santasangre e viceversa. A Trento l’idea è quella di non avere più i vincoli delle singole rassegne e trovo che sia un modo decisamente in linea non solo con i tempi, ma anche con un’idea di rispetto dello spettatore, che viene rimesso costantemente al centro dell’attenzione, nella sua capacità di restituire sguardi e ascolti al di là delle definizioni. Quando chiedo ai miei studenti e studentesse cosa ascoltano, le risposte sono invariabilmente svincolate da qualsiasi logica di genere e mi sembra fantastico. Poi è chiaro che le connessioni non possono essere un arbitrio o una mancanza di responsabilità di visione, anzi richiedono un’attenzione maggiore, ma credo che il muoversi tra i linguaggi sia un’opportunità sia per gli artisti che per il pubblico.
Sei un osservatore molto attento della scena elettronica (e un ottimo conoscitore della sua scena musicale), ma comunque sei un “esterno”: come la vedi, da fuori? In che fase è? Quali sono gli aspetti in cui secondo te potrebbe migliorare? E te lo chiedo sia nel campo dell’elettronica più “colta” (anche se comunque da festival), che in quello più prettamente clubbing.
Non essendo più giovanissimo, ho imparato a svincolarmi un po’ dall’incalzare dell’hype e a lasciare che le cose sedimentino un po’ prima di lasciarmi andare a eccessivi entusiasmi. In fondo credo che, come le altre musiche, anche l’elettronica non sia in nessuna “fase” particolare: ci sono artiste e artisti che fanno cose fantastiche che raccontano e anche anticipano i tempi in cui viviamo, altri che verranno ridimensionati dal passare dei mesi, altrettante che restano un po’ fuori dai riflettori, ma che stanno producendo innovazione. Come curatore e come studioso del performativo poi, devo dire che sono sempre molto attento a come qualcosa “funziona” dal vivo, prima ancora che su “disco” (qualsiasi cosa tu voglia intendere per questo) e credo che talvolta la performatività dell’esperienza sia data un po’ per scontata, mentre potrebbero aprirsi scenari molto interessanti a lavorare su paradigmi differenti. C’è poi una fascia di possibile pubblico non più giovanissimo che non ha voglia né possibilità di iniziare e finire la serata a orari impossibili e che avrebbe un gran desiderio di ballare così come orecchie per sonorità nuove. Quando ero al Teatro Fondamenta Nuove e i limiti di orario imponevano di fare anche live e djset in orari “umani” (a mezzanotte a nanna!) in tantissime persone ci ringraziavano di poter ballare e andare a lavorare il giorno dopo. Magari non è un target enorme, ma io non lo sottovaluterei.
Quali sono secondo te gli esempi di direzione artistica da citare ad esempio come eccellenze assolute? E perché?
Mi piace molto il lavoro che fanno al Centro d’Arte di Padova, un soggetto che ha decenni di esperienza e che riesce sempre a dare conto dei linguaggi sperimentali più innovativi. Per il rapporto con il territorio e l’esperienza mi piace quello che fanno i ragazzi di Terraforma, mentre all’estero credo che Le Guess Who? in Olanda abbia trovato la formula vincente per raccontare quanto emozionante e anche identitario possa essere pensare fuori dagli schemi.
Di base, se un’artista si “ripaga da sè” trovo che non sia corretto usare soldi pubblici per programmarla o programmarlo, ma dipende molto dai casi, e il criterio deve essere sempre quello della strategicità e dello sviluppo
Fino a che punto le istituzioni pubbliche devono sovvenzionare le scena musicale? E ci sono generi o scene che meritano più sostegno al posto di altri, o dovrebbero esserci pari opportunità per tutti?
Si tratta un discorso complesso, che non vorrei banalizzare. Come ti dicevo prima quello che è successo per quasi quindici anni al Teatro Fondamenta Nuove di Venezia non sarebbe mai potuto succedere senza l’appoggio dei finanziamenti pubblici; poi però vedo anche situazioni in cui con i soldi di un ente locale si organizza qualcosa che altrove funziona senza problema solo a biglietto, e un po’ di sconforto mi prende. Di base, se un’artista si “ripaga da sè” trovo che non sia corretto usare soldi pubblici per programmarla o programmarlo, ma dipende molto dai casi, e il criterio deve essere sempre quello della strategicità e dello sviluppo. Non c’è dubbio che il progressivo spostamento del sistema verso una minor rilevanza dei fondi pubblici abbia partorito cartelloni sempre con gli stessi nomi, di fatto frenando quel poco di coraggio – anche un po’ disordinato se vuoi – che si aveva qualche anno fa, ma forse la cosa più interessante è provare a spostare il discorso dalla sola programmazione di concerti. In quest’ottica vedo sempre più gli aspetti di produzione, di residenza e di ricerca come quelli da sostenere. Perché non possiamo pretendere che ci sia un mercato maturo e fluido se non ci sono i presupposti – per gli artisti, per il pubblico, per gli operatori – di questa fluidità. Ma, ti ripeto, è davvero complesso…
Qual è il modo migliore per dialogare con le istituzioni locali – se mai ne esiste uno?
Devo confessarti che dopo la fine dell’esperienza del Teatro Fondamenta Nuove ho prevalentemente lavorato con il privato o con situazioni internazionali e mi sono trovato molto bene (con Palazzo Grassi, con Pro Helvetia, eccetera): si dialoga sul progetto, si costruisce un percorso e si risponde di quello. Però trovo il dialogo con le istituzioni locali fondamentale e mi piace che parta dall’ascolto e dalla possibilità di mettere insieme le progettualità. A volte funziona, altre meno.
Foto di Radoslaw Kazmierczak