“Sheltering Water”, il primo LP di Palazzi D’Oriente, è uscito per La Tempesta lo scorso aprile. Il suo, però, è tutto fuorché un nome nuovo: attivo con il suo progetto dal 2018, lo stesso anno ha dato vita con Fight Pausa alla band 72-HOUR POST FIGHT, collaborativo tra elettronica, post–rock e una mente più organica e strumentale, composta dagli altri membri Andrea Dissimile e Adalberto Valsecchi. Ha appena messo fuori “Morgengabe”, featuring con Massimo Pericolo che prosegue un percorso iniziato con la produzione per “Sabbie D’Oro”, hit del rapper di Gallarate del 2019 con Generic Animal. Più di ogni cosa, nel percorso di Palazzi D’Oriente, porta a pensare che la sua dimensione non sia mai bidimensionale: abbiamo parlato con lui di viaggi, natura inedita delle cose, realtà e futuro. Scoprendo che il linguaggio che lo definisce meglio è decisamente legato alla tridimensionalità dell’espressione artistica.
Palazzi D’Oriente si esibirà nella prima edizione di Planeta Sessions: Moon, esperienza immersiva dedicata alla luna, tra musica, arte e natura nella cornice di Planeta Buonivini, Noto. Insieme a lui, Donato, Marta De Pascalis, Lucy, lo screening “Empathy” dell’artista multidisciplinare Rebecca Salvadori e la video-installazione dell’artista Ali Demirel. Per maggiori dettagli, segui Planeta Sessions su Facebook o Instagram.
Per te è stato un anno pieno di cose nuove, ma fatto anche un po’ di montagne russe, immagino, come molti nella situazione che abbiamo vissuto. Partirei proprio dalla domanda più retorica, che oggi come oggi non si da mai troppo per scontata: come stai?
È stato un anno piuttosto lungo, un periodo in cui ho un po’ riconsiderato cosa voglia dire far musica ed essere musicista. Tantissimi piani, tantissimi progetti sono cambiati, o sono mutati in altro. Ma questo, un po’ a sorpresa, ha scaturito una nuova fase creativa, immediata, che all’inizio non mi aspettavo. E ha riguardato in piccole dosi tutto il mio mondo, da Palazzi D’Oriente a 72-HOUR POST FIGHT, più tutte le altre cose su cui metto le mani, scrivo o collaboro. Da quando abbiamo messo su “2004 Sgrang Friendship Unlimited Compilation“, nata nel periodo più buio del primo lockdown, abbiamo pensato che una volta finito tutto saremmo dovuti ripartire più carichi di prima.
Ad aprile è uscito il tuo album di debutto, che sembra connettersi quasi allo stesso processo, dalla natura prettamente musicale alla sua dimensione visuale ed estetica. Al centro, il concetto che le forme più inaspettate, ossessive e sovrumane sono quelle che provengono dalla realtà.
“Sheltering Water” era pronto a inizio 2020, poi le cose hanno fatto sì che slittasse di parecchio. Anche in questo caso, però, ci ho trovato dei vantaggi decisamente inaspettati, perché oltre a portare avanti materialmente alcuni dettagli in produzione ho avuto la possibilità di raccontare meglio i luoghi di cui parlavo. La ricerca iniziale virava più su field recordings e fotografia, era molto più strettamente il raccontato della mia, di storia. Di fatto, non avevo veramente studiato quella dei posti che descrivevo, sul Lago Maggiore, delle leggende tramandate delle persone che lo abitavano. Ho portato avanti una ricerca letteraria, nelle biblioteche di zona, perché volevo approfondire gli argomenti più folkloristici e descrittivi di ciò che stavo raccontando nel disco. In questo modo sono riuscito ad unire tutto alla mia prospettiva, ma con una profondità di idee che ho sentito assolutamente più concreta e che sì, in fondo parla molto di realtà. Sono posti che sembrano aver fermato il tempo intorno a loro, e questo è uno dei concetti più peculiari che ho voluto far emergere grazie a questa nuova immersione.
Cos’è cambiato rispetto all’idea che ti eri fatto del disco, quando pensavi di averlo finito? Ti ha dato in un certo senso una consapevolezza diversa rispetto quello che pensavi già di portare dentro, come logica e come linguaggio?
Sì, gli ha dato sicuramente molta più tridimensionalità. Il video di “Gatekeepers” diretto da Giulia Bersani e Amos Pellegrinelli era uscito a Febbraio, e aggiungeva molto all’idea dei luoghi che volevo restituire. Si è creata una prima forte esperienza del vissuto, dei posti che raccontavo, grazie anche alla direzione artistica del progetto, curata con Giorgio Cassano e Nic Paranoia. Volevo una connessione totale tra fotografia e parte visual, senza lasciare che qualcosa rimanesse statica su una sola dimensione. Sono molto contento del risultato, di queste commistioni generate, anche perché volevo fortemente fosse un disco rivolto a veri appassionati, qualcosa che non uscisse tanto per uscire, per delle date o per firmare un contratto. Credo che il messaggio stia passando, sia per la musica che per la parte video, per la fotografia o per l’idea sull’art direction della release fisica: tutto sta in qualche modo comunicando il mondo che volevo far emergere.
È un tragitto che fa della tridimensionalità, come dici tu, il suo habitat naturale. In fondo, come far rivivere in modi sempre diversi quel racconto.
Sì, decisamente, e questa cosa ha ripagato molto. Voglio dire, tenere un disco già pronto e parcheggiato per un anno nel tuo hard disk può dare parecchio fastidio, mentre invece è successo che il legame con quello che ho scritto si è rafforzato, vivendo nuovamente attraverso le nuove influenze estetiche.
(“Sheltering Water”; continua sotto)
Come ti sei immaginato, una volta finito questo lungo viaggio di ricerca, di trasferire tutto questo nella dimensione dal vivo?
C’era un po’ di preoccupazione, prima di tornare sul palco, cosa che invece si è trasformata in energia positiva. Il lavoro di quest’ultimo anno e mezzo ha preso vita nel modo in cui speravo, insomma, anche nella sua versione finale, quella in cui la fai ascoltare ad un pubblico che ti viene a sentire. Ricordo la scorsa estate, a VIVA! Festival, con quasi 1000 persone sedute. È stato un po’ un trauma perché ti manca davvero quel contatto puro, quando porti musica del genere dal vivo. Per la situazione che stiamo vivendo mi sento però davvero privilegiato: avere la possibilità di scrivere musica e portarla dal vivo in contesti di un certo tipo non è una cosa affatto scontata. Penso a colleghi che magari non hanno avuto possibilità di sfogare tutto quello che ci siamo portati dentro quest’anno, che ha avvelenato creatività e buon umore. Avere tra le dieci e le quindici date dalla riapertura dei live a fine estate, prendere un aereo e venire giù in Sicilia, adesso, mi sembra fantascienza.
Suonerai sabato 24 in occasione di Planeta Sessions: Moon, in un contesto naturale a cui, scontato da dire, mi sembra tu sia molto legato. Come vivi questo ponte di comunicazione eterno, tra ambienti immersi nel naturale e città affollate, quando ti esibisci in posti che hanno una suggestione così diversa?
Non sono mai stato in Sicilia e sono molto contento di poterlo fare per un’occasione del genere. Sono soprattutto curioso di intercettare racconti dei local, se ne avrò possibilità: mi piace sempre entrare in contatto con la gente dei posti in cui vado, percepire l’energia dei luoghi che visito. Trovo sia il vero motore di queste esperienze. So già della suggestione incredibile del barocco così come delle vedute eccezionali della val di Noto, e sono immagini che, così su due piedi mi fanno subito tornare in mente il viaggio in Sudafrica, che ha peraltro ispirato parecchio il disco.
Che effetto ha per il tuo modo di comunicare la musica un luogo che racconta insieme il vissuto dell’uomo e del territorio? Del resto, è un po’ quello che succede in “Sheltering Water”.
Beh, di fatto la mia musica e la mia ricerca si basano su questi input magici che può darti il viaggio, il vissuto, la scoperta. Poi un posto con la storia della Sicilia, forse l’unica parte dell’Italia che ha vissuto la dominazione di paesi stranieri, ha una storia così unica da raccontare che per me è decisamente tutta da scoprire. Mi immagino di essere immerso nel passato, di perdere positivamente concezione del tempo almeno per un po’.
Il tuo è un disco che comunque sembra giocare molto con la metafisica degli spazi, nel senso che starebbe benissimo in un club di Berlino così come, appunto, in Val di Noto, ottenendo la stessa, affascinante astrazione della natura che racconta. Esiste un posto in grado di suscitare la sensazione dei racconti dell’album meglio di altri?
Non c’è secondo me un posto giusto, non strutturalmente intendo. Posso dirti che, per la mia inclinazione nel fare e ascoltare questa musica, mi aspetto un posto buio, dove proiettare immagini e ascoltare con il giusto silenzio, prima e dopo un’esibizione. Un luogo intimo. Per l’esperienza che ho quando lo suono e per le influenze che si porta dietro, lo riconduco a una cosa molto meditativa, che ha bisogno di queste componenti. È una scelta fatta già in produzione, dato che è un album strumentale, che non interagisce direttamente con elementi umani, ma più che altro con le immagini e con la trama del viaggio. Il che può sembrare riconducibile a concetti di psichedelia, misticismo o cose affini, invece per me la realtà è la cosa più potente che esista, è la vera fantascienza.
Questo gioco di contrasti si è ripresentato anche nel recentissimo featuring con Massimo Pericolo, nella tua “Morgengabe”, ma sembra un contrasto che ancora una volta si annulla: venite da mondi musicalmente così diversi che messi insieme hanno una logica perfettamente loro.
Io e Vane siamo cresciuti nella stessa via, quindi parto già con un bias che questo contrasto non me lo fa proprio vedere, anzi. Certo, i mondi che raccontiamo sono diversi, per quanto le storie, pur con strumenti altrettanto diversi, si intrecciano parecchio, quando parli degli stessi luoghi. Gli ambienti di cui io parlo nel disco sono gli stessi che racconta lui nei suoi, fondamentalmente. È stato anche contaminante, nel senso buono, perché ci scambiavamo sempre ascolti e credo che molte delle sue influenze mi siano rimaste, come le mie per lui.
Di fatto, da “Sabbie D’Oro” sono passati due anni, e tutto il mondo intorno ai vostri progetti è andato spedito. Com’è stato lavorare di nuovo insieme?
La primissima versione risaliva al suo primo periodo post–casini, per un po’ non potevamo vederci. Quando abbiamo ripreso la demo abbiamo reso il pezzo molto intimo, con un testo che tra l’altro mi diverte sia poco comprensibile in alcune parti, per alcuni, quasi a forzare positivamente quella dimensione che cercavamo. Rispetto al suo percorso è chiaramente un’anomalia, ma per le potenzialità e la versatilità che sta esprimendo credo sia una cosa del tutto normale. È un incontro di due sensibilità che condividono in fondo lo stesso punto di partenza, è puro rap su una base decisamente non pensata per esserlo. Il resto lo fa lui, che è bravissimo ad esprimere in voce storie come questa.
Magari gli hai messo anche la pulce nell’orecchio per qualcosa di nuovo che proverà a portare nel suo mondo, in futuro.
Beh si spera, fare musica insieme del resto ci è sempre piaciuto molto, senza avere scadenze fisse ma facendo le cose quando c’è tempo e voglia per farle. Se nel futuro vorrà cambiare direzione o mi chiederà di tradurre una sua evoluzione in qualcosa su cui possa mettere il mio, sarò felice di continuare a farlo. Conoscendolo, però, immagino che già abbia le idee chiare, e che abbia in serbo sorprese sul suo percorso che non sono ancora del tutto emerse.
A proposito di futuro: nel 2021 cos’è per te l’ambizione nella musica? E quanto della libertà che esprime questo disco vedremo ancora nel percorso che stai immaginando?
È avere la possibilità di non precludersi alcuna strada, proprio come successo in “Sabbie D’Oro” e poi in “Morgengabe”. Ed è esattamente quello che sta per succedere: questo primo pezzo uscito con Vane è il primo di un estratto di un’extended version di “Sheltering Water”, in cui il concetto di libertà sarà esplorato ancora di più. Ho la possibilità di comunicare con tanti mondi, di sentirmi a mio agio con persone che fanno e intendono la musica in maniera molto diversa dalla mia. E non ci vedo niente di male nel farle trovare nello stesso posto, anzi, è una cosa che mi fa stare bene.
Rimanere coerenti con la propria visione, anche se la tua idea è quella di portarla definitivamente dentro a tante altre diverse, insieme.
Sì, guarda “Flux 101“, ad esempio: quello con Rebecca Salvadori è stato il mio primo featuring, ma non è stato realizzato con un musicista o un cantante. Perché mi piaceva l’idea di esplorare la sua arte e la sua regia per dare valore aggiunto al pezzo, mi interessava esplorare quell’idea delle cose. Alla base c’era la ricerca di immagini legate alla natura del pezzo che mi potessero emozionare, il che è abbastanza il contrario di cercare a tutti i costi il vocal più figo perché devi rendere da playlist un pezzo strumentale. Poi, se e quando lo faccio, dev’esserci un percorso e un’esperienza umana, come ti dicevo, la stessa che sto cercando di portare dentro l’extended di “Sheltering Water”.
Insomma, si torna sempre a quella tridimensionalità da cui siamo partiti.
Esatto, sì. Inoltre, per il progetto dell’extended, ho voluto che la forza fosse quella di coinvolgere solo artisti Italiani, che possano raccontare quel viaggio e quella contaminazione di cui ho bisogno di nutrirmi. Come dicevo per la curiosità che ho per andare in Sicilia, nel caso dei featuring sarà come raccontare in modo sempre diverso dei luoghi che il disco originariamente cita, quasi come una destrutturazione della stessa storia, dato che verranno reinterpretati da persone con background diversi. Ci saranno rework più classici, altri sono proprio dei ri-arrangiamenti. Sarà come far raccontare a sei parti diverse dell’Italia sei parti dell’album, in maniera inedita: credo che in Italia ci siano artisti di livello internazionale, progetti freschi e interessanti, non c’è davvero motivo di cercare altrove.
Questa dinamica ti rende capace di assorbire sempre nuove influenze, immagino, ma soprattutto di sfuggire alle collocazioni e i cliché di genere, su cui anche la musica elettronica talvolta può irrigidirsi.
Credo sia un’arma in più, perché difficilmente sei catalogabile in un contesto, mentre in questo modo il contesto te lo crei tu. Del resto è stata la stessa idea alla base di 72-HOUR POST FIGHT. L’altro lato della medaglia, poi, è anche saper dire di no, che è una cosa che con quel progetto ci è capitato e ci capita spesso. Per me è importante avere libertà di scegliere con chi veicolare le idee, ma la stessa deve rimanere tale anche se pensi che un determinato intreccio, una specifica collaborazione non porti realmente valori aggiunti. E lo dico molto sinceramente, proprio per portare avanti questo credo che si basa sulla qualità delle idee, non per suonare a qualche festival in più in base alla gente che ti convince a mettere il proprio nome sul disco.
Oltre a tutto questo, cosa succederà nella vita di Luca e in quella di Palazzi D’Oriente, in futuro?
Oltre al mio progetto, l’idea è di ripartire anche con 72-HOUR POST FIGHT, soprattutto tornare alla dimensione live, che ci è mancata molto e che sono contento si stia pian piano concretizzando di nuovo. Credo sia importante, vista l’assenza dal palco e visto quello che quest’anno ha rappresentato per la natura della band, ci sono stati parecchi problemi a fare le cose come volevamo, dal vivo. Anche lì la logica è stata quella di aspettare il momento giusto per farle bene, pensando magari di integrare qualcuno con cui collaboriamo, che possa portare novità alla nostra dimensione live. Lì poi può scattare la scintilla che in studio ci fa mettere le mani su qualcosa di nuovo insieme, altrimenti rimane comunque un esperimento interessante. Anche nei pezzi a cui stiamo lavorando abbiamo incluso persone che non erano presenti nel primo disco, credo che sia la direzione che più ci interessa: identità sonora aperta alla contaminazione, al messaggio che qualcun altro possa portare dentro il nostro contesto.
Foto di Giulia Bersani
Styling Clarissa Chareun