Abbiamo parlato di Jazz:Re:Found non sappiamo quante volte. Ma altrettante ne riparleremo. Questo perché è un bel festival – la cosa è sotto gli occhi di tutti, a partire da chi negli anni lo ha frequentato – ma soprattutto ha un DNA molto particolare, una storia per certi versi davvero unica alle sue spalle. Negli anni abbiamo provato ad accennarlo più volte, ma stavolta abbiamo deciso di dare la parola direttamente al fondatore di questa esperienza più unica che rara: Denis Longhi. Con lui abbiamo ripercorso una storia praticamente ventennale, che è anche e soprattutto una “carta d’identità” di quanto possa essere ricco e quanto possa far crescere il clubbing, se affrontato in una certa maniera. Anche un festival “elegante” come Jazz:Re:Found nasce dagli after, dalle notti (albe, giorni) sotto cassa; ma anche un festival “elegante” come Jazz:Re:Found ha i suoi momenti difficili, i suoi traumi, i suoi scazzi, gli snodi che ti fanno perdere il sonno, le crisi di crescita. E’ una bellissima storia, quella che ci racconta Denis. Lo è per chi è un semplice appassionato, lo è per chi è addetto ai lavori. Riteniamo davvero che questa sia una delle interviste più preziose che pubblicheremo in questo 2021, che pure deve ancora finire: un anno complicato per ovvi motivi, ed altrettanto lo è stato il 2020, ma la passione, la conoscenza così come la professionalità e la consapevolezza non vanno in quarantena. Mai. Buona lettura. Lo è davvero.
La scintilla originaria di Jazz:Re:Found arriva da Vercelli, e se non sbaglio si era strutturata attorno ad una “serata tra amici” – diventata poi un piccolo fenomeno di provincia. E’ corretta questa ricostruzione? Quali sono i ricordi e gli aneddoti più interessanti del “mondo Jazz:Re:Found” prima che il festival vero e proprio nascesse?
Dunque, i primi esordi risalgono al ‘94/’95, sull’onda della “golden age” degli after hour (pensa a Colazione da Tiffany, Exogroove, Syncopate, Mazoom, Echoes, Kinky…). Abbiamo iniziato anche noi a produrre dei proto-eventi in diverse cascine e luoghi abbastanza grotteschi della bassa vercellese. Il collettivo si chiamava “Trend Hour Groove”: io ero Low J Six (Dj) e Andrea era il Duca Rikì (vocalist). Scimmiottavamo in modo genuino l’esperienza dei rave e degli after tipici di quel periodo, con un suono al crocevia tra la house di Yellorange e la techno più evocativa di Detroit. Pochi anni dopo, la scoperta di Pergola e Maffia ha rivoluzionato il nostro modo di percepire la musica: in poco tempo ci siamo spostati dal 4/4 alle avanguardie anglosassoni tipiche di quell’epoca, un breve passaggio nel mondo D’n’B per poi rimanere completamente intrappolati nella scena West London. Quella è stata la svolta che ha lanciato il primo vero spunto seminale nella direzione di Jazz:Re:Found. Dal 2002, io e Andrea abbiamo iniziato a frequentare con costanza la Sunday Night mensile al Plastic People di Londra chiamata Co-Op: fondamentalmente si trattava del collettivo Bugz In The Attic, insieme a 4Hero, Domu, Ig Culture e i vari pionieri della scena nata intorno a Goya Music, di cui faceva parte tra l’altro anche un italiano, Enrico Crivellaro (aka Volcov). Una militanza, la nostra, assidua e intensa, da cui è nata una forte connessione con il mondo Broken Beat/Bruk e un nuovo percorso alla scoperta di diverse forme della musica elettronica, forme molto contaminate dalle sonorità jazz, soul e latin. Il passaggio definitivo è stato poi l’approdare il lunedì (dopo la domenica a Co-op) alla serata di Gilles Peterson al Bar Rumba. Era il preambolo di Worldwide sotto molti punti di vista, e lì chiaramente abbiamo scoperto un moderno e sorprendente modo di proporre e divulgare musica. Bene: dopo tutte quelle suggestioni e input formidabili, era diventata urgente ed evidente per noi la necessità di trasportare in provincia, all’interno della nostra “community”, quel tipo di linguaggio, dando il nostro piccolo contributo a emancipare la scena locale del Nord-Ovest italiano, dove Club to Club iniziava ad essere decisamente il riferimento a cui ispirarsi. Nel 2003/2004, con il collettivo Noego nato pochi anni prima, è iniziata così a Vercelli la produzione di una nuova serie di “One Night” con diversi format, che hanno trovato la loro consacrazione con “Boogie Nights”, diventato l’evento imperdibile nei loft dell’ex Area Montefibre. Un periodo davvero incredibile e surreale, dove a colpi di Disco Boogie e Broken Beat dalla piccola provincia vercellese siamo finiti nelle segnalazioni di Glamour e Vanity Fair su scala nazionale. Nel 2011, celebrando il decennale di Noego, abbiamo realizzato un documentario home-made (a cui hai preso parte anche tu) che illustra bene questo cammino.
Quando ha iniziato a prendere forma l’idea di dare vita ad un vero e proprio festival? Quali sono stati i primi passi intrapresi per rendere questa idea una realtà?
La grande ispirazione arriva da Big Chill Festival. Nonostante frequentassimo già da inizio 2000 il Sónar (dove ti trovavo sempre davanti ai concerti del pomeriggio…), la vera scintilla è arrivata vivendo l’esperienza di Eastnor Castle nell’Herefordshire: Big Chill era tutto ciò che di più avanguardista, consapevole e sostenibile ci fosse, ai nostri occhi. Un vero capolavoro sotto tutti i punti di vista: direzione artistica, allestimenti, gestione del campeggio, politiche di ecosostenibilità, oltre al pubblico più cool del Regno Unito. È stata un’esperienza così forte e meravigliosa che è diventato naturale volerla ripetere, o comunque cercare di trasferirne il messaggio alla nostra fanbase. Come vedi, il pattern si ripete. Nel 2007, dopo avere consolidato una piccola posizione anche da promoter, oltre alle feste autoprodotte da Noego ospitando artisti come Mark de Clive-Lowe, Colonel Red, Christian Prommer, Bugz in The Attic abbiamo capito che c’era margine per osare: il nostro pubblico cresceva numericamente ma anche geograficamente, anche grazie all’endorsement di personaggi come Roberto Vernetti e Alessio Bertallot, che, essendo originari di Vercelli, all’epoca bazzicavano dalle nostre parti e frequentavano i nostri party invitando diversi amici e “celebrities” del momento. Un po’ di gente da Milano e Torino, qualcuno da Genova e Bologna: abbiamo compreso che forse era arrivato il momento di alzare l’asticella, e trasformare quelle One Night – così hype, ma allo stesso tempo autentiche e genuine – in qualcosa di più grande e visionario.
(La “prima fase”, quella ancora pre-festival; continua sotto)
Come descrivere oggi, con la saggezza e la consapevolezza del senno di poi, le prime edizioni di JRF? Quali le difficoltà pratiche più importanti – o più difficili – da superare?
Diciamo che il primo ciclo a Vercelli ha assunto la dimensione di “leggendario” ma allo stesso tempo, diciamolo, anche “drammatico”. Un’intera comunità (anche lato istituzionale) era salita a bordo di un progetto in costante e rapida espansione, ma allo stesso tempo le economie di quel processo imprenditoriale necessitavano (inevitabilmente) di nuovi investitori e soci di capitale. Nel 2008 la prima edizione è stata qualcosa di stupefacente, tanto che nel 2009 abbiamo deciso di puntare subito in altissimo, nella memorabile edizione con Lamb, Jazzanova, Josè James e Casino Royale. È stata la consacrazione: un livello di produzione davvero incredibile per l’epoca e per la nostra poca esperienza, risultati ottimi a livello di numeri, come qualità espressa e come attivazione del “brand Jazz:Re:Found”. A quel giro però è iniziato il loop infinito nel ciclo, spesso paradossale, dei contributi pubblici. Nessuno aveva esperienza in merito; e quando ti rendi conto che i 60/70.000 euro che hai ottenuto a sostegno dell’iniziativa con gran fatica scrivendo bandi e application dovranno essere non solo consuntivati minuziosamente ma anche e soprattutto verranno saldati circa 18/24 mesi dopo… beh, è stato il momento di rottura che ha cambiato prospettive ed equilibri. Chiaramente il movimento dal basso, costruito intorno al consenso e all’adesione associativa, si è dovuto trasformare in altro: in un’impresa culturale con una struttura, una visione progettuale, un business plan. Per anni abbiamo navigato a vista, sarò sincero, rincorrendo pareggi di bilancio in un equilibrio elastico che alternava slanci di entusiasmo a frustrazione e disillusione. La palestra vercellese è stata però la piattaforma ideale dove crescere, fallire, rinnovarsi, mettersi in gioco, avendo in qualche modo sempre una rete di salvataggio. Chiudere quell’esperienza con gli show di Four Tet e De La Soul è stato memorabile e in un certo senso giusto, dopo cinque anni di crescita costante.
In generale e pensando soprattutto alla prima parte di vita del festival, quali i set (live o dj che siano) che ricordi con più piacere?
Sicuramente, l’esordio a Torino: nel dramma del distacco da Vercelli, sperimentando una nuova realtà in mezzo ai due “fuochi” di C2C e Kappa/Movement, è stato dal punto di vista emozionale il momento più intenso. Ricordo con particolare piacere il dj set storico in cui abbiamo inanellato un percorso logico dall’hip hop passando alla disco arrivando fino alla house, con Dj Premier, Moodymann e Theo Parrish in sequenza, in uno spazio mai prima conosciuto dai torinesi come Q35. Ma non dimentico nemmeno il commovente concerto di Roy Ayers il giorno prima al Cap 10100, in quella edizione torinese. Di Vercelli, ricordo invece uno show surreale di Little Dragon alla prima edizione, in cui Yukimi Nagano in stato di grazia cantava davanti ad un pubblico che, sinceramente, non capiva cose stesse accadendo. Così di getto mi viene poi anche da citare l’opening del 2011 con Submotion Orchestra, perfetti sconosciuti che hanno incantato una platea numericamente incredibile, in quanto fu il primo esperimento di giornata gratuita a Vercelli. Continuando coi ricordi, nel 2010 fu particolarmente toccante lo show di The Cinematic Orchestra, non ancora nel radar mainstream ma già con un livello apicale. Nella storia più recente invece il dj set di Mr Scruff nel 2016, sempre al Cap 10100, è rimasto una pietra miliare e il live di Cory Henry al Supermarket nel 2017 una delle migliori sorprese. Dell’esordio a Cella Monte nel 2019, nel nuovo ciclo in Monferrato, sicuramente cito la chiusura all’Ecomuseo di Chassol: un momento di rara bellezza e poesia. Fuori dal festival, nella stagione Black & Forth fatta di tanti eventi in varie città, invece vanno sicuramente ricordati Azymuth, The Comet is Coming e Marc Rebillet in Santeria. Tre concerti davvero irripetibili!
Ad un certo punto il Jazz:Re:Found “vercellese” ha iniziato appunto a mutare pelle, tra edizioni diventate invernali ed indoor al posto del tradizionale appuntamento estivo; dopodiché c’è stato infatti il trasferimento a Torino. In origine questi cambi direzione sono stati più voluto o più imposti dalle circostanze?
Come dicevo precedentemente, Vercelli è stata la grande palestra, il luogo ideale dove confrontarci, provare e sfidare la nostra crescita professionale. Purtroppo una realtà di provincia di quel tipo non aveva però le caratteristiche per seguire proporzionalmente quel tipo di processo d’impresa (culturale), e i relativi obbiettivi a medio-lungo termine. La sostenibilità di JZ:RF passava sì dalla forza lavoro di una comunità solidale ed entusiasta, ma, come è facile immaginare, a vent’anni ti dai delle priorità, a trenta anni delle altre, a quaranta altre ancora. Chi a venticinque anni aveva iniziato quel percorso con grande entusiasmo si è trovato pochi anni dopo a confrontarsi con le sfide della propria vita: lavoro, famiglia, trasferimenti. Un rito collettivo che andava all’unisono ha perso evidentemente protagonisti o semplicemente attori fondamentali per portare avanti il progetto senza sentire stress o fatica. Mi spiego ancora meglio mettendo in campo i numeri: un budget di 35.000 euro della prima edizione si era trasformato in una valanga finanziaria da 250.000 euro nell’edizione 2012. Numeri da brivido, per chi era entrato con la leggerezza della festicciola tra amici 2.0… Così nel 2013 è stata prodotta un’edizione-ponte a settembre, nell’area Montefibre, a consolidare economie senza prendersi grossi rischi (con la mossa paracula di Ludovico Einaudi in Teatro e le sperimentazioni con Roni Size e Floating Points in Montefibre), per affacciarsi poi nel 2014 con una serie di test su Milano e Torino, per poi scegliere quest’ultima nell’aprire il nuovo ciclo 2015-2018. Sotto la Mole Jazz:Re:Found ha costruito e consolidato il proprio brand a livello nazionale e internazionale, in un contesto emancipato ed effervescente come la terra sabauda di quel periodo. Chiaro che l’unica possibilità sostenibile per evitare di schiantarsi era sganciarsi dal rischio-pioggia, rifugiandosi quindi in una programmazione indoor che inizialmente si è ispirata molto al concetto di Club To Club prima maniera, ovvero un festival-network che valorizza la città e le relative venues, in un percorso senza fine a scoprire artisti e performance con mood decisamente diversi. Il cambio di marcia (inserendo la retro in quinta…) dell’amministrazione torinese nel 2017 ci ha portato a rivedere il format “diffuso” e ad ottimizzare la programmazione al Supermarket, dove abbiamo trovato una figura sensibile e motivata ad ospitarci (grazie Barbara!) e una venue con forse qualche limite in termini di capienza per le nostre esigenze ma sicuramente ideale per sviluppare alla grande l’ultimo biennio sotto la Mole. Nel Dicembre 2018 abbiamo chiuso il nostro ciclo a Torino, con la volontà e la consapevolezza di volere restituire l’identità originale di JZ:RF alla nostra comunità: ovvero un’esperienza totale e avvolgente, inserita in un contesto territoriale che ne valorizzasse l’aspetto più empatico e sociale. E’ stato quasi naturale scegliere il Monferrato, terra già conquistata da anni in quel di Moleto nelle rappresentazioni più stravaganti di JZ:RF, dove la poesia del paesaggio collima con l’urgenza di realizzare qualcosa che vada “oltre” la musica. Un’immersione totale che un editorialista ha definito “panteista”, e non è male come definizione. Cella Monte è diventata la nostra casa, il Monferrato la nostra nuova nazione. Questa volta non crediamo sarà un nuovo ciclo, ma il posto definitivo su cui costruire il futuro di JZ:RF.
(Alla conquista del Monferrato; continua sotto)
Come nasce una line up di JRF? Quali sono gli step che di solito adotti? Negli anni, è in qualche modo cambiato il tuo modo di lavorare e di “costruire” un’edizione del festival?
Sì, direi che è cambiato molto il modo di pensare e immaginare la line up. Vuoi un po’ di esperienza, vuoi una visione più consapevole e meno autoreferenziale, l’impostazione di JZ:RF è oggi sicuramente diversa. Da un’emanazione morbosa delle mie passioni musicali afrocentriche si è passati ad una versione più laica e contemporanea. Non che prima mancassero proposte d’avanguardia o proiettate nell’ipercontemporaneo, ma il rito collettivo di qualche anno fa era molto concentrato sulla valorizzazione esclusiva della black music. Diciamo che la nuova wave UK Jazz dell’ultimo quinquennio ha modificato abbastanza il mercato e la discografia di riferimento, innescando molte contaminazioni e facendo sì che per fare del buon jazz o soul con quel suono che piace a noi non sia necessario interpellare per forza un musicista over 65 nato negli Stati Uniti d’America. Fondamentalmente la mia curatela si ispira molto alle suggestioni che arrivano dal mio mentore Gilles Peterson, che oltre al programma settimanale su BBC6 ha messo in piedi un capolavoro come Worldwide Fm, una webradio che 24/24 cura contenuti affini alla nostra sensibilità ed è fonte inesauribile di stimoli. Quindi diciamo che dal punto di vista mediatico mi nutro di Gilles x BBC6, Worldwide FM ed anche NTS che ha sempre rubriche e curatori inarrivabili. Non posso dimenticare però Musical Box di Raffale Costantino, che oltre a farmi da advisor su diverse scelte strategiche nella gestione del brand JZ:RF è un’altrettanta grande fonte di ispirazione con il suo programma radio, che reputo il più interessante e credibile in Italia. Poi chiaramente, nel mondo pre-Covid, credo che la grande forza (mia e di parte della crew) sia stata quella di continuare a frequentare tutti gli appuntamenti utili per fare scouting e anticipare alcune tendenze: tipo andare da dodici anni senza sosta agli Awards di Worldwide a Londra a gennaio, o cercare appunto i festival inglesi in rampa di lancio ma non ancora mainstream, evitando i concerti conosciuti e andando a rischiare nei palchi minori. Cerco di leggere molto e intervistare i vari collaboratori e fan di Jazz:Re:Found più giovani, tentando di intercettare le nuove sensibilità confrontandomi con la seconda generazione JZ:RF nel team di lavoro. Non credo comunque ci sia una “formula” o un “segreto“, semplicemente mi sembra sia interessante essere originali e coerenti, evitando di seguire tendenze o trend mediatici del momento che finiscano con lo snaturare la personalità della propria creatura. E’ giusto aprirsi al nuovo, gradualmente o a volte anche in maniera provocatoria, ma è sempre essenziale non farlo per assecondare il mercato, un brand o un progetto di marketing, una scelta che spesso va ad invadere irrimediabilmente la credibilità e l’autenticità del proprio festival.
Fino a che punto è possibile, utile e vantaggioso avere (anche) dei partner istituzionali? Come bisogna comportarsi con le varie amministrazioni provinciali, regionali, eccetera? Esistono dei bandi e dei finanziamenti che possono essere utilizzati da una realtà come JZ:RF?
Ecco, questo è il vero segreto di Jazz:Re:Found. Dal 2007, consapevoli di essere una nicchia che non rappresentava il “mass market” ma che invece valorizzava la generazione di nuovi pubblici e lo sviluppo delle azioni di audience development, abbiamo investito sulla progettazione culturale per sostenere un festival, che chiaramente di suo non poteva avere numeri e sviluppo commerciale come fonte primaria ed anzi unica di operatività. Il voler raccontare un nuovo modello di fruizione del jazz (quello per i giovani e non per i vecchi, quello da in piedi invece che da seduti, quello che arriva dai campionatori e dai sintetizzatori anziché i soli ottoni) è stato un percorso complicato e rischioso (“Eh ma questo non è jazz!“), ma ha sicuramente messo all’attenzione delle istituzioni una progettualità fondamentale per rinnovare linguaggi e pubblici in un settore che da anni fatica ad essere appealing e si è spesso arenato nel loop delle proprie certezze (Bollani, Rava, Rava, Bollani, Bollani, Rava…). Trovare un nuovo equilibrio tra la valorizzazione di alcuni contenuti più jazz tout court ed altri che portano il concetto di jazz ad essere più una metafora se non una provocazione, coinvolgendo dunque pubblici diversi che si trovano a vivere un’esperienza diversa e fuori dalla propria comfort zone, è la missione e l’obbiettivo di Jazz:Re:Found, obiettivo che incarna le politiche e le linee di indirizzo di diversi bandi istituzionali di fondazioni e pubbliche amministrazioni. Inoltre, fuori dalla mera programmazione e progettazione musicale, abbiamo avviato diversi altri progetti che viaggiano in parallelo ma insistono su linee e aree tematiche diverse come sostenibilità, ecoturismo, valorizzazione territoriale, marketing enogastronomico. Anche in questo caso gli interlocutori con cui ci interfacciamo per questo tipo di attività sono in maggioranza istituzionali rispetto a quelli commerciali, anche se negli ultimi anni inizia a esserci più attenzione anche a livello corporate, con una maggior sensibilità nei confronti di queste tematiche e una visione diversa sui “boutique festival”. Se fino a qualche fa venivano cioè privilegiati solo i grandi numeri, sembra esserci oggi una nuova consapevolezza nel discriminare qualità e quantità.
Esistono delle esperienze, in Italia ed all’estero, a cui ti senti particolarmente affine? Se sì, per quali motivi?
In Italia esiste una quantità sconfinata di festival interessanti! La peculiarità della provincia italiana fa sì che ci siano tante identità espressive diverse, legate a territori pieni di storie da raccontare e scenari pazzeschi. Con l’associazione Italian Music Festivals stiamo cercando di monitorare e individuare le varie realtà virtuose mettendole a sistema in un network, in cui scambiare best practices, condividere piani di comunicazione, oltre che consorziare sforzi progettuali e di produzione. Personalmente sono più affascinato dai piccoli festival con personalità e originalità curatoriale che dalle grandi manifestazioni, anche se va riconosciuto a livello nazionale che due personaggi come Sergio Ricciardone e Dino Lupelli, con le rispettive creature “monstre”, hanno ispirato tantissimi promoter e organizzatori, oltre ad avere alzato l’asticella nella music industry del nostro paese. Evidentemente la mia esterofilia in gusti musicali mi porta a sentirmi particolarmente vicino a format “made in UK” o comunque progetti che contemplano un’esperienza immersiva (camp e abbonamento, per intenderci) tipica dei festival del Regno Unito. Dopo la fine di Big Chill sicuramente è da menzionare We Out Here, che ne ha in un certo modo ereditato lo spirito e la visione, e Love Supreme che incarna il lato più “modern jazz” di JZ:RF. Sono poi molto affascinato da Lost Village e Houghton, e la nuova scena dei “boutique forest festival” nelle campagne inglesi. Sarò poi banale, ma ovviamente Worldwide Festival a Sète è assolutamente un esempio sia dal punto di vista della produzione che della direzione artistica, mentre su format diversi sicuramente dal punto di vista della fruizione c’è affinità con Dekmantel e (nonostante per approccio, contesto e dimensione artistica si sia molto distanti) anche Le Guess Who? .
Come è nata la scelta di Cella Monte, la nuova “casa” di JZ:RF? Quali sono state le questioni pratiche e logistiche più importanti da affrontare?
La mia dichiarazione d’amore eterno al Monferrato l’ho già fatta (sorride, NdI). E’ sicuramente il contesto ideale per aprire un nuovo ciclo: un borgo storico tra i più belli d’Italia, le vigne più romantiche del Monferrato e, a differenza delle Langhe, una biodiversità che gratifica l’occhio alla vista e lascia spazio a paesaggi genuini e rurali, anziché ad una gentrification agricola-intensiva. Chiaro, a differenza del cuneese è un territorio piuttosto vergine dal punto di vista dei grandi eventi. Amministrazione e istituzioni del territorio, cittadinanza e operatori, tutti si sono messi in gioco e hanno scommesso su Jazz:Re:Found, immaginandone il potenziale ma prendendosi il rischio di avere qualche migliaia di “sciamannati” che invadono il loro piccolo “bijoux” territoriale. Era questa un po’ la premessa: nessuno sapeva se Jazz:Re:Found fosse veramente quella rappresentazione ideale, di un festival “cool & conscious” che gli avevamo descritto e promesso, o invece fosse solo un alibi che ci davamo per ospitare un festone in collina che ti asfalta il tuo tranquillo e delicato equilibrio di campagna. La sfida è stata sicuramente superare questa sorta di prevenzione (giustificata!), dimostrando la vera essenza di JZ:RF: un festival sostenibile, a suo modo delicato nonostante le numeriche importanti, in cui anche quando la cassa inizia a spingere in 4/4 la sensazione è che stia crescendo la bellezza più che la fattanza. Attenzione particolare è stata data al ripristino e pulizia di tutte le aree ogni notte del festival, prima che la comunità locale si svegliasse all’alba: Sarà paradossale, ma in mezzo ad una produzione enorme e complicata sostenuta con professionalità e sacrificio, il piccolo dettaglio di un bicchiere o un pacchetto di sigarette riverso davanti alla porta della “Nonna Pina” del paese diventa fatale, nel giudizio finale da parte della community dei “decani” del luogo.
(Posti speciali, equilibri speciali; continua sotto)
Ad oggi, non solo JZ:RF è confermato, ma è confermato con un cartellone di altissimo livello. Come nasce questa scommessa? Quali sono stati i criteri di scelta dei vari act in cartellone per quest’anno?
Dopo diciotto mesi di inattività in presenza, nonostante la felice sorpresa della produzione Place To Be con Ministero degli Esteri e Ford durante il “limbo” Covid estivo del 2020, era essenziale dare un segnale. Se festival come Nameless o Kappa, che devono gestire numeriche impressionanti e il cui sviluppo dancefloor è il 99% della manifestazione, sono stati chiaramente compromessi dalla pandemia e dai decreti attuativi poco tutelanti il settore del pubblico spettacolo, credo invece che Jazz:Re:Found abbia una sorta di “dovere” nell’esserci, viste le sue caratteristiche ibride che mediano dancefloor e live music, rappresentando uno spaccato specifico della scena, con numeriche ridotte e sostenibili. Era essenziale però appunto, nell’”esserci”, fornire una visione e un’immagine reale di ciò che rappresentiamo e in certo senso valiamo – non solo per Jazz:Re:Found ma per il sistema-festival in generale. Costruire insomma un’edizione “riduzionista”, con un cartellone copia incolla della maggior parte delle rassegne estive, oltre a diventare poco originale sarebbe stata una piccola sconfitta per la nostra visione curatoriale, e per ciò che in questo momento rappresentiamo anche a nome di molti colleghi. È uno sforzo immane, economie di adeguamento ai protocolli quasi insostenibili, booking confermati e poi cancellati, la castrazione del ballo, sponsor (beverage in particolare) che spariscono viste le numeriche (im)possibili, istituzioni che ti sostengono sì ma con un’ansia colossale, vista la situazione con un’evoluzione imprevedibile. E poi, il classicone: il rischio meteo. Rischio che pre-Covid era già la paranoia ricorrente, ed ora tra surriscaldamento globale e cambiamenti climatici diventa un tema profondo su cui confrontarsi. A parte tutto questo, andiamo avanti; e lo facciamo cercando di rimanere coerenti con la visione trasversale di JZ:RF, rappresentando diversi mondi, che si ispirano e intrecciando tra i mondi del jazz destrutturato e il dancefloor più sofisticato (chiaramente dovendo rinunciare a tantissimi live d’Oltreoceano o Oltremanica, che rappresentano il 90% dell’immaginario di JZ:RF). Trattative molto avanzate come Roy Ayers o The Cinematic Orchestra sono naufragate dopo gli ultimi decreti internazionali allineati al Green Pass. Altre soluzioni più orientate al djing d’eccellenza (Laurent Garnier, Moodymann) sono state interrotte vista la precaria condizione del ballo (anche se si può ballare in diversi modi, a mio avviso). È una line up quindi che risente di diverse rinunce e contrordini, quella del 2021, ma è stata comunque costruita cercando di rappresentare un livello di prim’ordine, che non restituisse l’impoverimento qualitativo che avrebbe potuto generare il condizionamento della pandemia, ma rilanciasse anzi in direzione opposta.
Domanda finale: ti saresti mai aspettato che JZRF diventasse un festival dalla storia ormai più che decennale? Qual è stato il vero segreto per arrivare a questo longevità?
Il segreto ha diversi nomi, sarebbe impossibile elencarli tutti! Noego e Jazz:Re:Found, per un lungo periodo, più che progetti sono stati degli stili di vita: un percorso nato da amicizie vere, forti intense, per certi versi indissolubili. Un motore alimentato da empatia, condivisione di intenti e visione, ma soprattutto un innamoramento autentico per il nuovo e diverso, nella musica ma anche nella società e nella politica. Nel 2008, prima edizione, allo smontaggio del palco del lunedì, nonostante il grande successo non ero sicuro quel progetto sarebbe andato avanti: era una davvero una fatica immane, ed eravamo solo all’inizio. Nel 2009, quando Lou Rhodes mi ha abbracciato commossa sul palco, ringraziando tutti in lacrime, ho capito invece che quella sarebbe diventata la nostra storia, una storia da vivere e raccontare. Ogni anno mi chiedevo comunque se fosse giusto continuare, creare volumi economici inimmaginabili, per portarsi alla fine a casa una cesta di birre come margine di utile (quando va bene…), con la consapevolezza che “non perderci” fosse già un grande successo. Dal 2017 qualcosa è cambiato: le contaminazioni con Raffaele Costantino, la fiducia del Mibac oltre alla Regione Piemonte e le Fondazioni, un socio di capitale che ha visto in JZ:RF un’impresa culturale futuribile, la piattaforma del Monferrato all’orizzonte, tutto questo ha impresso un cambio di marcia. Il segreto, sarà retorico e stucchevole ma è così, è amare veramente questa musica: promuoverla e valorizzarla senza compromessi, senza la necessità di utilizzare specchietti per le allodole o sensazionalismi di hype o marketing.
(La line up definitiva del 2021, con l’aggiunta “particolare” dello show di Lundini)