Partiamo da una premessa (che sembrerà dire l’ovvio, ma credo risulti molto utile a rinfrescarci la memoria sul contesto in cui viviamo da ormai diciotto, lunghissimi mesi): per quante certezze la pandemia ci abbia tolto e ci stia continuando a togliere, immaginare oggi di insistere su una linea che premi la simbiosi tra spettacolo dal vivo, contesto naturale e persone, quando e dove è possibile, non è per tutti. I quattro giorni di Cella Monte, dove Jazz:Re:Found ha trovato casa da due edizioni, hanno agito come oasi di possibilità perché questo accadesse. E per di più, che sembrasse del tutto normale: isolati da un contesto cittadino – che di norma, in altri tempi, di eventi come un festival si nutre in maniera quasi imperturbabile, distaccato – tutto è sembrato come fare un tuffo indietro nel tempo, lontano dalla minaccia al normale.
JZ:RF è di fatto già una delle realtà più poliedriche della scena Italiana da anni, con una storia da sempre aperta alle sollecitazioni e alle sfide della contemporaneità. Ma va reiterato il fatto che questo 2021 era, inevitabilmente, una prova del nove per chiunque. Nato da una serie di proto-eventi in cascine e luoghi immersi nella natura della bassa vercellese, ha costruito e consolidato il suo marchio a livello nazionale (e poi anche internazionale) sotto la Mole torinese, negli anni 2000. Ripassino necessario, anche qui, per dire una cosa importante: scegliere la poesia del paesaggio del Monferrato e l’urgenza di creare qualcosa che andasse “oltre” la musica, tra i vigneti e le sterminate colline di un borgo diventato palco itinerante, è stata in questa edizione la definitiva marcia in più. Specie in un momento in cui pensare di stravolgere la fisionomia di un evento con un cospicuo seguito significa, il più delle volte, ridimensionare, sottrarsi alle difficoltà, tergiversare, aspettare.
Al contrario, è come se tutto fosse al suo posto: ci troviamo catapultati in un villaggio incastonato tra paesaggi vinicoli e la Pietra da Cantoni, tra il sottotesto dell’umanità consapevole come pilastro della vetrina e la consapevolezza della stessa, a rubare la scena: ci si sente tutti, a piccole dosi, parte di un ecosistema dove il tempo si può fermare, lasciando spazio a luci, riflettori, file per un drink. Musica, cultura e territorio si sono passati il testimone anche in lineup: un DNA che ha unito la più classica direzione avantjazz a nomi del nuovo pop che settano altri confini, DJ set dalla versatilità unica, il guizzo di giovani talenti emergenti, assi imprescindibili di una narrazione tra l’elettronica e le nuove derive jazz. Tutto ciò, unito alla maschera avant–parodica dello special guest a sorpresa dell’ultima ora, Valerio Lundini. È stato, per tutti i motivi sopra, un Jazz:Re:Found caratterizzato da forti vibrazioni e accelerazioni sonore, personalità multiformi ed emozioni molto diverse tra loro, stage dopo stage, vicolo dopo vicolo.
Gli highlights fisici sono l’Ecomuseo della Pietra da Cantoni, un Main Stage immerso in centro città, la collina di San Quirico. E ciascuno di questi luoghi ha come respirato di vita propria, facendosi cornice di una certa dimensione sonora e immersiva volta dopo volta.
Il primo è il posto che al tramonto ha regalato momenti magici: North of Loreto e Ze in the Clouds, per dirne due, con performance molto diverse che tuttavia hanno mantenuto la stessa potente energia nel cuore della terza giornata. Il primo, con un DJ set a baciare il sole che scompare tra le colline, ricco di un’intensità pura e insieme un’impeccabile e raffinata sensibilità club. Il secondo con uno showcase avantjazz infuso di nuovi sentieri soulful: la band, durante la performance, includeva eccezionalmente anche LNDFK, tornata dopo la serata inaugurale di Giovedì, in cui aveva sfoderato un’altra ottima performance sul Main Stage. Poi ancora Marta Del Grandi, cantautrice dall’estro ancestrale e dal notevole eclettismo vocale, a far rivivere miti greci, leggende marine e cultura del viaggio, tra Kathmandu e la Cina: è stato un intenso e delicato teaser di “Until We Fossilize”, il suo nuovo album, in uscita a Novembre. Nella giornata finale, il collettivo Bada Bada prima, in un tripudio di tastiere, sintetizzatori e trombe, sono preludio all’accelerazione che JAB continua subito dopo: eclettismo e jazz in forme pure e future, i colori di un’anima soul e viaggiante fusi in uno spettro di texture dal basso e leggero. Doveva essere la scommessa del festival, diremo che è ben riuscita.
Domatori dello spazio sulla collina di San Quirico sono stati senza dubbio Nu Genea e LeFtO, entrambe anime giramondo che dietro una console uniscono passato, presente e futuro, in una cose molto simile alla definizione di vibe positiva, sul vocabolario. Il belga di casa Brownswood con le più sparute influenze neo-hip hop, house pulsante e una sana dose di dancefloor di ricerca, il duo partenopeo con l’impeccabile formazione set + key, a suon di tuffi a Marechià, ammiccate a Sexy Pummarola e centrifughe di funk. Elettronica oscillante e viaggi africani, in un set che ha unito club crudo e spiritualità, distorsioni esotiche, world music ed evoluzioni da dancefloor, Khalab è stato pressoché perfetto. Whodamanny, in scena poco dopo, ha portato un’energia che sa di derive funk, Napoli e i colori che raccontano gli obiettivi del collettivo Periodica Records. A chiudere le danze sullo scorcio in collina è stata Domenica la vibe esotica di Coco María: uno dei set più colorati e intensi di soluzioni ritmiche: un temperamento che ha mescolato funk, soul, influenze sudamericane e onde da mari lontani.
(Ecco quanto erano presi bene i Nu Genea; continua sotto)
L’accelerazione jazz di questo festival è anche performance d’autore, astri nascenti di una (nuova) musica senza confini, movimento. Sono infatti Venerus e Joan Thiele a prendersi la scena sul Main Stage di Sabato: prima l’esibizione delle ammalianti vibrazioni pop esotiche della cantautrice Italo-Colombiana, poi l’astro nascente del cantautorato senza un pianeta specifico, ma pieno di virtuosismi e comete di istrionismo. Le promesse di Joan Thiele sono ancora lì a ricordarci il valore di un senso musicale senza tempo, in Venerus riscopriamo un artista appartenente a destinazioni, come del resto canta lui, un po’ magiche. Da segnalare anche Studio Murena, sestetto milanese che mescola sapientemente jazz e conscious rap, reo di aver generato energia urban–metropolitana che funziona in un contesto del tutto distante, tra il verde della collina e gli stage a cielo aperto, continuando un serrato puzzle emozionale che gli si addice ormai come carattere primario.
La giornata di chiusura vede un altro volto di casa nostra in prima linea: Daykoda apre il Main Stage in piena notte, scaldando il pubblico con un live pieno di vibrazioni elettroniche, jazz fluorescente e toniche virate futuristiche: promosso a pieni voti, specie dal futuro. Un highlight atteso dall’inizio (e dall’annuncio) del festival era sicuramente Apparat, che ha chiuso il palco principale con una performance dolce ma serrata, un vero e proprio dialogo sonoro con la band che esalta le carezze sognanti degli archi, una tempesta esplosiva di elettronica, post-rock e voci intrecciate come un vestito per l’abbraccio della notte. Se avete abbastanza familiarità con la musica e le performance di Sacha Ring, è stata una di quelle esibizioni che vi lascia sbigottiti anche se lo avete già ascoltato decine di volte dal vivo. Ehm, sì, come nel mio caso.
(Apparat live; continua sotto)
È stato un festival che ha reso immersività e contaminazione tra musica e territorio la sua casa, in maniera decisa: Jazz:Re:Found 2021, in barba a qualunque sia – veramente– la possibile definizione di jazz in senso stretto, in questo secolo, si è affermato per la semplicità di voler fare star bene con la musica. Di fatto, è stato specchio della vera urgenza jazz a tutto tondo, in un modo di definire le cose che forse non abbiamo ancora trovato: un movimento sereno e pacifico, che racconta come si combinano musica ed esperienze.
Foto di Letizia Cigliutti