C’è stato un momento in cui l’hip hop era la fucina delle novità, delle stranezze, delle cose inedite, delle soluzioni dirompenti (o almeno sorprendenti). E lo era (quasi) sempre. Poi ovviamente questa portata rivoluzionaria è andata diluendosi, anche se assesta ancora qualche lampo. Paradossalmente, lo fa forse più nei progetti mainstream – piacciano o meno – che nell’underground. Ecco: esattamente questo è il motivo per cui ci ha colpito il progetto-Frankeeno. Già, “progetto”: Frankeeno, anno nominale di nascita 1973, è in realtà almeno dal punto di vista visivo un avatar, creato dal collettivo The Pleasure Paradox, con il supporto discografico della label Reyetto Tapes. Poi chiaro: ci deve essere di sicuro una persona a tenere le fila del progetto – stanziata forse a Palermo, come lascia intuire l’ultimo video, girato durante una residenza in città grazie anche al lavoro del collettivo rosanero Bangover Crew – ed è questa persona che ha deciso di farsi intervistare, soddisfacendo tutta una serie di nostre curiosità. Che non sono “Chi sei, come ti chiami”, ma attraversano più una serie di questioni artistiche e culturali che dovrebbero oggi riguardare (molto di più) la cultura hip hop, e che di sicuro sono l’architrave del progetto-Frankeeno. Leggete, leggete bene: è tutto molto interessante.
Forse è inutile chiedere come nasce questo progetto – avremmo solo delle risposte “fiction”, giusto? La sub-domanda potrebbe essere: quali sono i motivi per presentarsi con una identità fittizia?
In realtà no, riceveresti una risposta non fiction! Frankeeno nasce da una necessità: esprimere con un mix di linguaggi diversi una serie di concetti che ruotano attorno alle esperienze urbane ai margini, ai grandissimi mutamenti culturali che la nostra società deve e sta affrontando, e solo all’ultimo al mondo del rap in sé. Frankeeno non è irreale, esiste davvero in carne e ossa e rappresenta a suo modo una stirpe di reietti. Quindi è un’identità ben precisa. In un certo senso quindi la domanda potrebbe essere quali sono i motivi per non esporre un corpo ben preciso, un volto specifico umano. Le risposte sono molteplici. La prima è che oggi il mondo è basato sull’immagine personale, sui volti e il corpo. Pensa ad esempio alla rapidità di un TikTok dove corpi e volti sono centrali alla scala dello schermo di uno smartphone. Questo non mi interessa. Annullo il corpo e il volto, in alcuni casi camuffandolo digitalmente in altri analogicamente. Questo mi consente di “deliverare” in maniera precisa i contenuti, le idee, le estetiche. Tutto è più potente se distogli l’attenzione dal corpo. Altro passaggio interessante è che in questo modo Frankeeno è mutevole e può sempre acquisire forme diverse. Il corpo è una costrizione, una gabbia. Altro passaggio è che ognuno può vestire i panni di Frankeeno. Chiunque viva a modo suo un margine in cui è relegato può essere Frankeeno ed esprimere con il suo linguaggio preferito le sue turbe.
Da un lato l’hip hop, negli anni ’80 newyorkesi che sono quelli che l’hanno fatto “decollare”, è stato un crocevia non solo per musiche diverse ma anche per artisti di discipline diverse, fino a toccare addirittura le strade della Factory warholiana; dall’altro, ha per larghi tratti – a partire dall’Italia anni ’90 e primi 2000 – dato l’idea di essere un contesto un po’ “isolazionista”, che fatica a guardare verso altri generi musicali ed altre discipline. Frankeeno invece va da Leo Anibaldi a Matisse. Lo fa come provocazione, o lo fa per riportare l’hip hop ad essere crocevia di mondi e culture diverse?
Relegare a parer mio il progetto ad una esperienza musicale ascrivibile al solo hip hop è forse limitato. Ad esempio, i tre interludio in “Love’s Theme” sono spoken poetry, riprendono la tradizione oratoria sia del comizio che del mondo religioso, mescolandoli con una sorta di flusso di coscienza delirante. Non ci sono rime e anche il sottofondo musicale combina mondi molto diversi. Non c’è invece nelle mie produzioni l’attitudine classica dell’hip hop al campionamento di una fascia musicale ben precisa, ad esempio. Per rispondere all’ultima parte della tua domanda: non è di mio interesse specifico lavorare attorno al mondo dell’hip hop in sé, ma l’idea di un progetto artistico/musicale come crocevia tra mondi e culture diverse calza a pennello e credo mi rappresenti molto. Condivido quello che dici quando parli del momento storico ben preciso nella New York anni ‘80. È una sorta di energia che si è persa. Ma c’era però un fermento diverso rispetto ad oggi. Ad esempio, non c’era internet che ha cambiato un po’ i giochi. Pensa ad adesso: molto spesso si è fan di qualcuno non per la sua musica o la sua arte, ma per infiltrarsi nella sua vita quotidiana ad intervalli dettati dalle storie su Instagram. Allora lì manca qualcosa, ecco. Se negli anni ‘80 ad esempio i rappers capiscono come sfruttare il media televisivo, oggi credo che non si stia capendo bene come utilizzare alcuni mezzi del digitale per sperimentare artisticamente. Si potrebbero aprire davvero nuove frontiere. Altra grande differenza tra gli anni ‘80 di cui parli e questi primi 2000 sta nelle liriche e nei temi trattati: il rap non è più progressista, anzi, esprime a pieno i valori invece competitivi dei mercati finanziari, dell’affermazione personale sugli altri, dell’egocentrismo. Per questo credo che gli unici mondi esterni all’ambiente musicale che oggi dialogano con il rap sono il mercato del lusso e della moda. Per il resto, aperte piccolissime esperienze, si vede poco. Questo credo sia dovuto alla totale nullità dei contenuti.
(Uno short movie bizzarro, per presentarsi; continua sotto)
Qual è lo stato di salute dell’hip hop italiano oggi? Cosa manca, e cosa invece c’è fin troppo in abbondanza?
Musicalmente lo trovo davvero noioso. Non c’è sperimentazione a parer mio, o se esiste non la conosco. Ci sono tante copie. O si copia la cosa che va di moda al momento nel mainstream, o si copia la cosa che va di moda nell’underground. Vedi queste copie di “Griselda” o l’ondata di beats lo-fi con le cassettine. C’è stato un passaggio un po’ perverso secondo me nel momento in cui il rap è approdato sul serio in radio e su Mtv iniziando a fare numeri. Si sono come create queste due fazioni. Da un lato la cosa mega commerciale, e dell’altro i presunti santoni dell’hip hop puro. Mi ricordo questo mega chiacchiericcio Dj Gruff vs Club Dogo che esemplifica benissimo questi due mondi (…a me piacevano entrambi, ad esempio, in quel momento specifico). La difficoltà specifica italiana quindi secondo me è la scarsità di progetti genuini, che creino una “propria” cosa, un “proprio” mondo senza un copy & paste. Delle cose non pianificate per approdare non so dove, ma che diano i loro frutti in una continua sperimentazione senza confini e barriere. Forse la cosa più genuina che ho visto al momento è questa ondata terribile che mixa il rap ad una sorta di cantautorato italiano in stile Albano o Orietta Berti. Questa cosa dei rapper di Sanremo è terrificante; ma se ci pensi è autentica, è vera. Almeno non è una copia di qualcosa che vedi oltreoceano ed è un prodotto della nostra cultura, per quanto povera culturalmente. Scusate il gioco di parole.
Ma invece, a proposito di riferimenti cultrali che faceva Frankeeno negli anni ’90, che è il periodo da cui proviene una robusta parte dei riferimenti musicali messi in campo o comunque citati?
Mi divertivo. Vivevo proprio quell’ondata sguazzandoci dentro ma senza confini. Mi piacevano le feste zarre con la cassa dritta ma anche i sound system dei centri sociali con la loro varietà musicale. Mi piaceva il bar con i miei fratelli zanza di zona, ma anche la piazza con i breaker o la yard con i treni colorati. Ma anche le assemblee al circolo del partito o il salotto chic in centro della mia fidanzata upper class di quel tempo. Mi piacevano i rotocalchi, ma anche la teoria marxista. Ma anche i fumetti. Facevo ed ho fatto tante cose, molte anche bene, più o meno apprezzate in giro diciamo, o che si sono guadagnate il rispetto dovuto. Ma non sono mai stato né camaleontico né troppo estremo nell’impacchettarmi dentro una scatola precisa ed un’etichetta. Quando mi annoiavo e non volevo più fare qualcosa di preciso saltavo al prossimo passo, alla prossima avventura.
Frankeeno è un gioco, una intelligente provocazione o uno che vuole svoltare e fare i numeri?
Non è un gioco e non mi interessa la provocazione. Svoltare e fare i numeri non credo sia possibile considerando cosa ho in mente, come voglio immaginare il progetto è come lo stiamo costruendo insieme alla gente a cui voglio bene e che ci gravita attorno. Acquisisce una sorta di identità strana, quasi come un grande corpo, un progetto collettivo. Al momento mi interessa sondare territori diversi, non solo gli ambienti musicali. Sto lavorando su delle performance che mescolano la musica, la voce, l’installazione e l’arte performativa. Tutte queste cose vogliono mescolarsi insieme senza regole precise. Spero di potervi fare vedere molto presto! Nel frattempo “Love’s Theme” è per me un grande passo, dove musica, supporto video, immagini e parole sono un’unica grande cosa. È una grande narrazione secondo me. Nelle 6 tracce/video si ripercorre per me una grande massa di concetti e questioni che davvero oggi sono centrali. Dalla cultura del corpo alla lotta di classe. Dal machismo impresso nella cultura italiana alla perversione o la dipendenza da sostanze o dall’ego/ago. Spero si percepisca. Bisogna leggere tra le righe ed è volontario. Non mi interessa creare un contenuto facilmente leggibile in superficie o al primo sguardo. Va scavato ed esplorando in profondità, come un certo tipo di letteratura critica che devi rileggere più volte. Chi si ferma alla superficie di Frankeeno non so cosa veda. Certo, il rischio è di essere fraintesi, ma è parte del gioco in un certo senso.