Il bubbone è scoppiato con un post pubblicato da Augusto Penna, il lider maximo della serata Woo! – una delle serate ormai storiche di Napoli, serata di cui ci siamo più volte occupati in passato. Qualche mese fa le strade di Woo! e del Duel, venue napolatana di assoluto riferimento che per un po’ è stata la “casa” principale di Woo!, si sono separate. Cose che succedono. Si sa: le separazioni non sono mai un affare semplice, qualche strascico magari c’è, ma il più delle volte si tratta di cose che vanno risolte internamente (e che alla fine, di solito, si risolvono).
C’è qualcosa però che rende la situazione che si è creata ieri, con lo sfogo pubblico di Augusto sul suo profilo Facebook personale, un po’ diversa dallo standard. Allora, prima di tutto pubblichiamo qui sotto il post da cui è nato il tutto: leggetelo con attenzione, sì, poi però seguiteci in una serie di ragionamenti. Perché qui il punto non è tanto “Ha ragione Augusto“, “No, ha ragione il Duel“. No. Il punto è capire bene il senso di alcune dinamiche nel nostro settore che ormai vengono date per normali e acquisite mentre invece, chissà, magari così normali non sono – e sensate o convenienti nemmeno. Ecco il post di Penna intanto, da cui abbiamo tolto alcune parti (più funzionali alla polemica comprensibile ma, appunto, “loro” tra lui e il Duel):
Oggi vi racconto una storia, una storia di merda di questo nostro amato mondo del clubbing. Un mondo che persone senza alcuna cultura nè ideali se non quelle dei soldi e della guerra, stanno distruggendo. Giovedi sera vengo a sapere da un amico che The Blessed Madonna, once was The Black Madonna, per me Marea, è stata bookkata dal club per il quale ho lavorato svariati anni. Diciamo che cose che mi scioccano non ne esistono più ma ho provato uno strano turbamento. In primis perchè sento Marea con costanza, e poi perchè da alcuni giorni stavamo cercando una data insieme al vice manager italiano dell’artista. A questo punto scrivo alla Madonna Benedetta chiedendo cosa stesse succedendo e la sua risposta è abbastanza emblematica: “Cosa? che stai dicendo? Io ho accettato perché mi hanno detto che era la tua festa. Ho preso come sempre due giorni off in più per stare con te e Raffo De Luca , e’ l’unico motivo per cui ho accettato. Sono molto incazzata, non capisco“. E cosi via per tutto il pomeriggio. E da allora fino a pochi minuti fa è stato tutto un ping pong di email e messaggi e telefonate tra me, Marea, il mgmt inglese. Tutti, tranne il suo agente italiano, il genio, il pezzo da 90, il furbacchione come diciamo noi. Un signore che non solo non si è mai visto nè sentito in questi 4 gg di chaos ma che, cosa grave fa finta di nulla. Sta cercando di mentire spudoratamente con artista e mgmt principale, lo ha fatto dall’inizio, lasciando in un limbo del detto e non detto la possibilità di comprendere o meno delle cose. Io però fortunatamente ho la mia chat whatsapp in cui il 18 maggio lo avviso che non lavoro più con il mio vecchio club e gli dico che sono interessato come sempre a bookkare Marea altrove. Niente, nessuna risposta e oggi capisco perché. E poi il 12 ottobre una nota vocale in cui chiedo se qualcuno stesse avanzando richieste per artisti che storicamente hanno lavorato con me da parte di quel famigerato vecchio club. Nulla, nessuna risposta neanche a sto giro e ora è tutto chiaro. Da quando a maggio ho comunicato di non lavorare più con quel club mi hanno scritto tutti i management e gli artisti chiedendomi se in futuro avremmo continuato a lavorare insieme. Questo signore, questo brillantone, non solo non mi ha scritto ma non ha nemmeno risposto, con uno stile che ahimè non rappresenta per niente l’agenzia per cui lavora. […] Marea l’ho bookkata per primo in Italia e per secondo in Europa e siamo stati insieme a Napoli e in tutto il mondo, siamo come una famiglia per lei e per lei è lo stesso. Come ho detto oggi al suo manager inglese rimarrà sempre nel nostro cuore ma chiaramente si è spezzato un incantesimo e lo hanno spezzato un paio di persone che probabilmente con la musica e con il club non c’entrano nulla.
Bene. Letto tutto? Ora, prima di indignarvi e schierarvi c’è una cosa ovvia da sottolineare: manca la parola della controparte. Nella fattispecie, l’agente italiano “incriminato”. In qualsiasi questione non ci sia modo di sentire l’altra campana, è impossibile farsi un’opinione completa: questo lo diciamo per noi e per voi. Ed è fondamentale che ci sia, quest’altra campana. Vale anche in questo caso. Chiaro: prima di scrivere queste righe lo abbiamo sentito, l’agente polemicamente evocato e tirato in causa da Penna; ci abbiamo parlato, abbiamo valutato le sue ragioni e, soprattutto, abbiamo rispettato il fatto che non per forza esse dovessero essere messe su pubblica piazza, perché in effetti – come in ogni mestiere – ci sono degli aspetti che devono restare “interni”, se svelati all’esterno partirebbero infatti mille accuse e supposizioni che nascerebbero da una non perfetta conoscenza di certe dinamiche, di chi fa cosa e del perché lo fa.
Fatto lecito il diritto della controparte di non rispondere pubblicamente, il problema però resta. Quando Augusto Penna dice di essere in diretto contatto con l’artista, dice infatti l’assoluta verità; e quando dice che l’artista è sorpresa e scioccata dalla situazione, almeno è così con lui, dice altrettanto la verità. Ne abbiamo le prove. Che la situazione non sia “sana”, insomma, è innegabile.
E proprio qui secondo noi deve andare a parare il cuore del discorso, un discorso volando anche più alto rispetto alla bega specifica tra Woo! e Duel Club. Ovvero: cosa è diventato il nostro settore, a certi livelli? Dove ci ha portato il voler imitare le dinamiche della musica live, andando in bocca alle agenzie più grosse del settore?
Forse sarebbe il caso di tracciare, anzi, tornare a tracciare una linea. Un conto è un tour di un gruppo live, una situazione in cui si muovono più persone, in cui ci sono determinate necessità tecniche-logistiche; un conto è invece un singolo dj che si sposta per una data (al massimo con un tour manager al seguito, finto o reale che sia), senza scenografie, senza strumenti particolari, senza light designer, eccetera eccetera. Insomma: il deejaying “alla vecchia”, che è un po’ il DNA originario di tutta la faccenda (ed anche un vantaggio operativo a livello di logiche di mercato): c’è un club, c’è una festa, c’è un organizzatore della festa, l’organizzatore della festa per motivi ben specifici decide di chiamare un certo tipo di ospite, stop, ci siamo. Un rapporto molto più orizzontale rispetto alla “piramide” di un tour europeo di una band, per dire: tanto più che il dj fa ormai quasi sempre delle date point-to-point, suona in un posto e poi in un qualsiasi altro posto raggiungibile in tempi sensati da un aereo (e questo per l’Europa significa: ovunque), lì dove invece la band se si muove “su ruote” (macchina, furgone, tour bus…) deve invece incastrare degli orari e degli itinerari geograficamente sensati – e quest’ultima cosa, ve lo garantiamo, è un casino da gestire.
Domanda: il dj che vuole ancora dire di rappresentare la club culture, e che soprattutto su questa identità ha costruito la sua fama e il suo prestigio e il suo ascendente sulle persone (più ancora che sull’unicità o particolarità di quel che suona), ha davvero bisogno per lavorare di affidarsi ai grandi conglomerati del booking internazionale, alle giga-agenzie che rappresentano di tutto, dagli attori agli sportivi a eccetera eccetera? La risposta è: sì. La risposta completa però sarebbe: sì, se vuole massimizzare i profitti, se vuole che qualcuno tratti per lui e lo faccia col massimo del cinismo e dell’ottimizzazione del guadagno, mettendo in secondo se non in terzo piano la specificità del clubbing e della club culture.
La questione è che “clubbing” e “club culture” sono circuiti con una loro storia, con una loro origine, con delle loro caratteristiche uniche e quindi, in teoria, con delle proprie dinamiche assai particolari. Dinamiche che ad esempio hanno raccontato molto bene i ceffi di Tropicantesimo, proprio in una intervista in cui disconoscono a chiare lettere il termine “club culture” (per come è diventato oggi, per cosa rappresenta oggi).
Andando al punto: per come la vediamo noi, molti ma molti dj dovrebbero staccarsi dalle grandi agenzie internazionali e gestirsi le cose da sé, con l’aiuto di un team interno. Discorso questo che vale per i dj che dicono di fare parte di una “scena” ben specifica, che questa “scena” dicono di amarla e supportarla, e che proprio per questo amore apparentemente puro ed idealista sono ben visti dalla “scena” medesima. Un circolo virtuoso (ed anche redditizio). Naturalmente nessun problema se si fa invece una scelta opposta: uno può decidere di professionalizzare al massimo la sua attività, affidarsi alle strutture leader della sfera musical-imprenditoriale, fare sì da rendere sempre più ricca e remunerativa la sua carriera e il suo lavoro cercando scelte dalle dinamiche affaristiche e d’investimento prima ancora che artistiche. Non è una colpa. Ripetiamo: non è una colpa. La colpa però inizia ad esserci quando si vuole tenere il piede in due staffe: da un lato si vuole fare vedere di essere rimasti “puri” e legati ad un’ideale; dall’altro però su questo ideale ci si cammina sopra, quando si tratta di dare la precedenza a logiche puramente d’affari e non invece “d’appartenenza”.
I piccoli dj techno, house e dintorni già lavorano solo da sé, o affidandosi a piccole realtà artigianali, spesso portate avanti da amici. I grandi dj invece, anzi, già i medio-grandi, perché non serve salire fino ai gradi tonitruanti del quasi-mainstream, col diffondersi dei mezzi di comunicazione via internet e in generale con la maturità e diffusione dell’ecosistema clubbing potrebbero già essere autosufficienti: potrebbero cioè avere una struttura “interna”, una struttura su cui avere il controllo reale e che permetta di saltare vari passaggi e filtri oggi invece esistenti, con relative storture.
Questo “bubbone napoletano” tra Woo! e Duel con in mezzo Blessed Madonna è la rappresentazione plastica del problema: gli attori in causa sono i tre appena citati, ma di mezzo ci sono anche l’agenzia italiana – tirata in causa da Penna nel suo post – ma anche management ed agenzia internazionale dell’artista, oh sì. Domanda che facciamo a Marea Stamper, aka Blessed Madonna, ma che potremmo fare al 99% dei dj arrivati al suo livello (con cioè un certo tipo di fama, con un certo tipo di cachet, ma anche con un certo tipo di appeal “da club culture”): veramente hai bisogno oggi di un’agenzia internazionale che a sua volta ha bisogno di un’agenzia locale per decidere dove andare a suonare, senza in tutto questo poterti prendere l’ultima parola? Veramente hai bisogno di entrare in un gioco in cui non puoi decidere autonomamente dove suonare, ma magari dipendi in questo anche da dove va a suonare un Fatboy Slim (nome a caso, ma non troppo: al Duel prossimamente ci sarà anche lui), perché ci sono dei “giochi d’agenzia” da rispettare? Se tu artista veramente credi, andando a Napoli, che vuoi suonare solo in una serata di Augusto Penna e Raffo De Luca, possibile che tu non abbia il potere di imporlo e di realizzarlo?
La colpa però inizia ad esserci quando si vuole tenere il piede in due staffe: da un lato si vuole fare vedere di essere rimasti “puri” e legati ad un’ideale; dall’altro però su questo ideale ci si cammina sopra, quando si tratta di dare la precedenza a logiche puramente d’affari e non invece “d’appartenenza”
Le agenzie fanno il loro mestiere. I promoter anche. Anche perché: chi esclude che in passato pure a Penna sia capitato di prendere, per le serate di Woo!, artisti che in Italia o addirittura nella sua società erano venuti per la prima volta con le sue organizzazioni? Può essere benissimo successo: business is business. Allo stesso modo, le agenzie hanno tutto il diritto di decidere come muovere le loro strategie, come favorire questo partner invece di quell’altro: non siamo così pazzi o così ingenui da pensare che questo vada “vietato”, o sia così insopportabilmente riprovevole. Il punto è che il coltello dalla parte del manico alla fine della fiera ce l’hanno, o ce lo dovrebbero avere gli artisti: ma troppo spesso – e già da anni – iniziano a cadere con gusto nell’ipocrisia di fare gli amiconi con tutti e dichiararsi “puri” al cento per cento nei confronti della scena, anzi, di una scena basata sui rapporti umani prima di qualsiasi altra cosa, poi però al momento del dunque guarda un po’ non si assumono le responsabilità, e delegano tutto a realtà esterne, ben consapevoli che queste ultime lavorano in primis per massimizzare i profitti mettendo il “fattore umano” in secondo piano. Quando glielo fai notare, agli artisti, allargano le braccia. Metaforicamente (…qualcuno anche: fisicamente). Come a dire: e io che ci posso fare? Il mondo va così.
Se vuoi fare la superstar tipo Calvin Harris o il Diplo che diventa una stella del pop, fai benissimo ad affidarti ai grandi conglomerati mondiali del booking e del management. E sia chiaro, puoi desiderare di diventare Diplo o Calvin Harris anche se, all’inizio, sei un piccolo dj di provincia: è un sogno lecito e anzi, sotto certi punti di vista anche “bello”. Puoi anche partire in un modo, coi rave illegali e con la club culture, e finire in un altro, coi lustrini e le rodomontate: vedi alla voce David Guetta. Lecito anche questo. Lecitissimo. Se lo dichiari e lo ammetti, è lecitissimo. Quello che sempre meno ci va è invece chi cerca di tenere i piedi in due staffe: da un lato fa quello “puro”, quello che è nel gioco solo per un ideale, quello che porta avanti la storia del clubbing come qualcosa di specifico, particolare, di diverso dal pop e dal mainstream, di umano e “sostenbile”; dall’altro però non vede l’ora di approfittare – o almeno essere connivente – dei dividendi di una strategia tesa a massimizzare e moltiplicare i profitti, costi quel che costi.
Senza nasconderci dietro un dito: nell’ultimo decennio, nel mondo del clubbing è cresciuta tantissimo una “classe media” dei dj (celebrata da noi di Soundwall per primi) grazie a cui iniziano a guadagnare seriamente e a muovere economie importanti non solo le superstar spinte dalle major dell’intrattenimento ma anche e soprattutto quelli che arrivano dall’underground, e che l’underground non lo vogliono mollare del tutto, visto che si sentirebbero “offesi” ad essere paragonati a chi invece percorre le strade dell’EDM, della melodic techno più marcatamente commerciale, eccetera eccetera. Siamo sicuri che tutto questo sia giusto, oggi? Siamo sicuri che tutto questo sia sano? Siamo sicuri che tutto questo non sia ipocrita? Il problema è che sentirsi diversi da Swedish House Mafia o da Amelie Lens implica anche un prezzo da pagare: perché se ti senti diverso e ti proclami diverso (col sottinteso che sei “meglio“, che sei “meno sputtanato“), allora dovresti anche rinunciare ad adottare le loro strategie di rafforzamento e massimizzazione economica del successo attraverso canali e/o modi tradizionali. Dovresti insomma avere il coraggio di creare tu un circuito alternativo per la tua attività: un circuito più sostenibile, più etico, un circuito dove l’ultima parola deve andare all’artista e, ancora di più, deve andare a scelte “artistiche” (o, se preferite, “umane” – più che sostanzialmente affaristiche).
Questo non sta succedendo, o sta succedendo molto poco.
A Blessed Madonna basterebbe una mail di due righe a chi di dovere per dire “Ok, scusate il casino e scusate questo intervento: ma io voglio suonare a Napoli solo con persone di mia fiducia, quindi per favore sistemate la cosa e fatelo subito“. Se questo accadesse ogni casino verrebbe ad afflosciarsi (…al massimo resterebbero le polemiche fra Penna e il Duel sulle scelte artistiche più o meno impersonali, ma quello è un discorso a parte), e forse pure accadrà, visto che al momento la data non è ancora annunciata. Se questo non accade è per motivi anche comprensibili, sia chiaro; ma questi motivi sono la spia che il clubbing, la “comunità del clubbing“, si è auto-infilata in una situazione dove non è più “comunità” o meglio, lo è solo quando le fa comodo: quando deve cioè fare bella figura, quando deve vendersi come qualcosa di “diverso” (e quindi più “caldo” ed affascinante) presso il proprio potenziale pubblico di utenti. Per il resto però le dinamiche di base, stringi stringi, sono quelle di un qualsiasi conglomerato d’affari senza scrupoli e senza anima. Insomma: marketing di se stessi, vendersi cioè come qualcosa che non si è (o che non si è più). Oggi lo si fa, e si fa tanto.
Le stesse agenzie di booking locali più legate alla realtà della club culture devono capire bene come comportarsi, e che responsabilità vogliono prendersi: sono cioè solo dei passacarte che si limitano a fare “inoltra” alle mail ed alle offerte ai management e booking internazionali, aiutando eventualmente questi ultimi ad ottenere il maggior profitto ed il miglior margine, o vogliono prendersi il diritto discrezionale di lavorare per il proprio ecosistema d’appartenenza e di nascita, che resta appunto quello locale?
Poi uno può anche dire: “Basta con tutte ‘ste cagate idealiste infantili, basta con ‘ste stronzate, il lavoro è lavoro, guadagna di più chi si muove meglio, guadagna di più chi lavora più duramente e con le strategie efficaci, tutto il resto sono idiozie“. Di solito questo discorso lo fa chi è al vertice di una piramide, chi fa fatturati importanti, chi è partito da zero e per vari motivi – bravura, fortuna, un misto delle due – si è costruito un piccolo impero che permette guadagni robusti e uno stile di vita serenamente abbiente. Di solito insomma lo fa chi sta col vento in poppa, e trova stupido perdersi in disquisizioni ideali, “di principio”. Peccato però che proprio sugli ideali, sul senso e valore specifico della scena del clubbing, ha costruito questo suo piccolo impero: se non un po’ di gratitudine, almeno un po’ di memoria storica e di senso di responsabilità sarebbe meglio averli. Perché non si sa mai, la ruota gira.