Qualcuno l’avrà notato: dopo una media costante di almeno un articolo (o intervista, o premiere, o altro) al giorno, nell’ultima settimana Soundwall è stato molto, molto tranquillo. Oggi il “silenzio” è stato rotto da una segnalazione bella – l’anteprima della release Ribbon disponibile da domani, roba buona, andate a sentire – ma una cosa è certa: nel futuro immediato e prossimo, Soundwall tira il fiato.
Chi vi scrive queste righe è colui che nell’ultimo paio d’anni ed oltre ha portato avanti il sito più di tutti (perché comunque non sono mancati ottimi e preziosissimi contributi esterni, per fortuna). Anni importanti. Anni difficili, anche. Ma soprattutto: anni belli perché difficili. Ci spieghiamo: quando Soundwall è nato, ormai più di dieci anni fa, il clubbing era “il” fenomeno del momento. I numeri erano altissimi, la popolarità di techno e house – grazie anche alla sbornia minimal, al fascino di Berlino, agli input di Ibiza, alla capacità di marketing anglosassone – era ai massimi livelli. Non a caso sono anche gli anni in cui Resident Advisor ad esempio si è consolidato come non mai, diventando un conglomerato media capace di dare lavoro a svariate persone, ed altri siti oggi magari più in difficoltà (o proprio non più esistenti) erano ai loro massimi come impatto e come autorevolezza. Era festa per tutti. Era crescita per tutti.
Anche Soundwall se n’è giovato. Da sito eredità dello storico (ma circoscritto al mondo romano) Pillole Elettroniche, a sito capace di superare più volte il milione di page views annue ma anche di attrarre firme di eccezionale qualità e, soprattutto, capace di fare opinione. Nel clubbing prima di tutto, chiaro, ma non solo lì. Ecco: ad un certo punto il clubbing ha smesso di essere “il” fenomeno del momento, soprattutto per chi ha vent’anni. Sono arrivati altri generi musicali, è arrivato Netflix, sono arrivate tante altre cose che hanno portato non alla crisi di Soundwall – che non c’è stata particolarmente, ora ci arriviamo – ma alla crisi dell’intero settore. Sì, i festival; sì, il grande propellente economico balearico; ma il dato di fatto che l’ossatura vera del clubbing, ovvero – lo dice la parola stessa – il club, il fatto di andare a ballare regolarmente nel fine settimana e non solo nel fine settimana, ha subito una flessione fortissima.
Anche nella città che meglio se l’è cavata in questo decennio, la Milano assoluta capitale italiana del clubbing per ricchezza e qualità complessive dell’offerta, è diventato molto difficile per non dire impossibile ballare in giorni che non siano il weekend. E se è così a Milano, dove c’è stato un fiorire di nuove serate, nuovi suoni e nuovi promoter, figuriamoci altrove. Insomma, senza nascondere la polvere sotto il tappeto: c’è un calo di interesse attorno alla techno, alla house, alla club culture, ai suoi derivati, ai suoi annessi e connessi, e non ci sarà modellina o tamarrello techno-fashion ad invertire questa situazione. Quando Soundwall è nato la curva del suddetto interesse era in salita, e tutto era più facile, tutto funzionava, tutto cresceva (a partire da noi e dai nostri competitor); da un po’ di tempo però questa curva è in discesa. Questo non impedisce che ancora oggi nascano realtà nuove super o restino sulla piazza alcune vecchie bellissime e cazzutissime, sia chiaro; ma la curva è in discesa. Non basta la neonata fascinazione per i festival – esteri, ma anche di casa nostra – a rimettere la bilancia in pari. Non è sufficiente. La bilancia pende comunque verso il calo. Il decollo dei cachet dei super-dj e delle strutture ad essi connesse è solo la foglia di fico che nasconde l’impoverimento della classe media, e medio-piccola, della creatività e professionalità in chiave clubbing.
Non bastasse tutto questo, è arrivata poi la pandemia. Un dramma personale per molti, purtroppo. Dramma spesso davvero pesante. Ma anche un’occasione per riflettere tanto e (eventualmente…) ripartire meglio per tutti. Ecco: sotto questo punto di vista, senza falsa modestia, Soundwall è stato davvero un punto di riferimento assoluto. Ci siamo spesi. Abbiamo scritto. Abbiamo lanciato idee, abbiamo voluto essere inclusivi, abbiamo al tempo stesso messo dei paletti, abbiamo comunque voluto essere dei cronisti. Meglio o peggio di altri? Non sta a noi dirlo. Ma di sicuro l’abbiamo fatto. E con riscontri di numeri e di complimenti, onestamente, lusinghieri. La crisi d’interesse, noi come specifico, l’abbiamo sentita fino ad un certo punto.
Un’altra cosa che abbiamo fatto negli ultimi anni è stato privilegiare gli artisti locali (basta fare un’analisi critica di quanto pubblicato), a partire dal varo dello spazio Giant Steps ma non solo, con un lavoro di scouting assolutamente eccezionale possibile solo grazie all’enorme conoscenza della scena da parte non di chi vi scrive, non tanto mia, ma da parte di tutto il network di redattori e collaboratori, che ad un certo punto superava le decine di persone. Anche quando il network in questione si è ristretto (c’è chi deve pensare di più al lavoro, chi ha cambiato un po’ interessi, chi si è semplicemente e lecitamente stancato) comunque l’attenzione alle “scene locali” si è rafforzata. Un’attenzione che comporta più fatica e meno clic rispetto al fare mille articoli puramente agiografici e “rassicuranti” solo su Peggy Gou, Loco Dice, Nina Kraviz, Joseph Capriati ed altri grandi consolidati (o di farli su meno grandi e meno consolidati sì, ma “spinti” da qualche agenzia amica o da qualche inserzione), ma tanta più soddisfazione. La stessa soddisfazione che abbiamo provato scrivendo articoli di oggettiva qualità su artisti e situazioni leggermente “perimetrali” rispetto al nocciolo del clubbing. Chi si è cimentato lo ha sempre fatto con piglio, visione, maturità, o almeno questo era il focus: lo diciamo non per lodarci da soli – chi si loda s’imbroda – ma per provare a spiegare anche anche il clubbing e la club culture sono musica, non sono una cosa a sé stante, e se parli di qualcosa che non sia strettamente techno o house non per forza devi farlo a cazzo, con ingenuità, perché “che ne vuoi sapere tu di musica di un certo tipo, a te piace il bum bum, l’unz unz“. Tutt’altro.
In realtà troppo spesso, oggi, vediamo parlare a cazzo e con ingenuità proprio delle medesime techno e house (e dintorni), e proprio da parecchi appassionati ed addetti al settore “nostro”. Se ne parla poco peraltro del settore “nostro” in generale: ci sono sempre meno testate specifiche, e il livello medio di scrittura – naturalmente con varie ed ottime eccezioni – è da “copia & incolla del testo dell’ufficio stampa, mica serve altro“, diciamolo. Col risultato che sono gli uffici stampa e gli artisti stessi che ormai troppo spesso pretendono di veder pubblicati sui siti di settore non degli articoli, non delle recensioni, non delle analisi critiche, no; vogliono solo ed unicamente qualcosa che a loro piaccia, che soddisfi il loro ego e le loro strategie, che possa essere da loro controllato e cesellato. Anche nella scena “nostra” ormai proliferano esempi pessimi di “Mi mandi prima le domande?“, “Mi dici quali saranno gli argomenti trattati?“, “A questi punti non rispondiamo“, “A te non concedo nulla perché mesi fa hai parlato male di una cosa mia“, “Pretendiamo di leggere prima che vada on line“: un malcostume che speravamo restasse confinato alla buzzurraggine trap/rap o all’arroganza del pop quando si sente vincente, ma che invece è calato prepotente anche sulla scena “nostra”. Bella merda. Negli ultimi anni dall’hip hop e dal pop abbiamo troppo spesso copiato il peggio, invece di “leggerne” il meglio e farcene ispirare; o, nei casi più virtuosi, abbiamo fatto entrambe le cose, via. Ma resta il fatto che pensare che l’informazione sia un valletto, un maggiordomo, e non invece una componente autonoma, è pessimo. E di questa stortura si è colpevoli in tanti. Senza capire che è proprio così che si disinveste sul futuro, che si creano i germi di quella che diventa in un secondo momento scetticismo, indifferenza e disaffezione.
Qualche errore l’avremo fatto anche noi; ma, a dirla tutta, sentiamo di non avere tanto da rimproverarci. Sono anni che non sono gli uffici stampa a dettare le nostre agende, che non ci sono investimenti pubblicitari ad “indirizzare” la nostra opinione e la nostra attenzione, che non ci sono strane commistioni tra chi scrive e chi promuove, che perdiamo del tempo a migliorare la forma degli articoli e ad evitare luoghi comuni. Ne andiamo fieri. E’ anche per questo che Soundwall, oggi, potrà anche stare sulle palle a qualcuno, nella scena, ma è autorevole per molti.
E’ una bellissima soddisfazione.
…ora però cosa succede? Soundwall chiude? L’avventura di Soundwall finisce qui? No. Abbiamo ancora cose da scrivere, abbiamo interviste già fatte da pubblicare e report già scritti da diffondere: arriveranno. E può benissimo essere che si riprenderà abbastanza a pieno regime, tra un po’, o addirittura tra molto poco. Ma nell’immediato, si tira il fiato. Niente più aggiornamenti giornalieri. Niente più anteprime e premiere e interviste legate a release – scusate, uffici stampa – e al tempo stesso le recensioni, già poche prima per mancanza di tempo (e diciamolo: per mancanza di interesse di voi lettori sulle recensioni “secondarie”, mentre quelle sui dischi-del-momento sono lettissime), ora staranno quasi a zero.
Si tira il fiato nel momento in cui abbiamo l’orgoglio di aver portato avanti quelle che ci parevano battaglie giuste, e di averlo fatto esattamente quando erano in pochi a farle; tiriamo il fiato in momenti in cui il clubbing più “vincente” non era quello di cui amavamo occuparci maggiormente, ma nemmeno facevamo gli snob che disprezzavano chi è diverso dai nostri gusti personali più stretti; tiriamo il fiato in una congiuntura in cui sarebbe stato facile sparare a palle incatenate su tutto e tutti – “fanno tutti schifo, sono tutti corrotti, sono tutti falliti, un tempo sì che era diverso” – e invece abbiamo sempre cercato un approccio critico sì ma costruttivo (ed appassionato), polemico talvolta ma sempre alla fin fine inclusivo e attento alla contemporaneità. Questo pensiamo di poterlo dire.
Potrete sopravvivere senza un articolo nuovo al giorno su Soundwall? Ovviamente sì. Ma per favore, cercate di capire che non si può e non si deve sopravvivere ad un approccio alla club culture che sia superficiale, dozzinale, “teleguidato” da agenzie e management.
Lo diciamo in primis alle agenzie ed ai management. Anzi, lo diciamo ancora più in primis agli artisti: sono le loro scelte e la loro influenza che possono cambiare davvero delle brutte dinamiche oggi in atto, sì!, le loro!, troppi fanno gli struzzi e contano gli incassi quando invece avrebbero il potere di fare opinione e cambiare le cose. Cercate, cari lettori ed appassionati, di inseguire sempre approfondimenti e visioni articolate, così come di affrontare opinioni che non per forza combaciano con le vostre ma che in qualche modo trovate interessanti e ben sviluppate. Cercate di sostenere chi merita di essere sostenuto. Anche perché ricordatelo: non lo state facendo per fare un favore a qualcuno, ma per fare un favore a qualcosa che è anche la vostra passione. Quindi, per primi a voi stessi.
Noi, comunque, ci si vede da queste parti. Senza la regolarità di prima, per un po’. Ma ci si vede da queste parti.
In alto i cuori, in alto le emozioni. La club culture – o chiamatela come volete – è una cosa bellissima. Con millemila cose ancora che meritano di essere raccontate, che meritano di essere vissute.