Un mese fa ci eravamo ritrovati a fare una lunga (e naturalmente bellissima) chiacchierata con Garnier, con la scusa di parlare di “Off The Record” – il grosso di questa chiacchierata lo potete leggere qui. Ma fra quanto finito su Rolling Stone e quanto invece rimasto fuori dalla versione finale dell’intervista, avanzano dei passaggi molto significativi. Uno, in particolar modo. Aspettavamo il momento per tirarlo fuori; ed il momento giusto, immancabile, è arrivato. Aka, l’ennesima presa per il culo televisiva: dopo l’Arena che diventa “una grande discoteca”, dopo il Petruzzelli che fa altrettanto a Capodanno, ieri è arrivato – ubi maior minor cessat – addirittura Sanremo.
Il prodromo era già buono: mentre le discoteche sono chiuse e i concerti in piedi praticamente non si possono fare, e i palasport sono al 35% della capienza (e gli stadi al 50%), all’Ariston per la kermesse canora et voilà, ecco il 100% della capienza senza batter ciglio, come fosse una cosa normale. Insomma, era chiara fin dall’inizio l’aria che tirava. Ma ieri si è avuta la presa per il culo definitiva: con la scusa del gruppo dance italiano di maggior successo al mondo ospite del festival, ed i Meduza effettivamente questo sono, anche se un po’ ci siamo imbarazzati per loro a vedere che tipo di pubblico avevano di fronte in teatro, Amadeus non ha trovato nulla di strano nell’incitare i presenti ad alzarsi in piedi e a ballare. Tanto da farmi commentare, a mo’ di cazzeggio, sulla mia pagina Facebook personale:
Buttiamola sul ridere – in realtà fa ridere manco tanto – e passiamo oltre. Anche perché in realtà gli ultimi rumour governativi dicono che, Speranza permettendo, e Speranza francamente ha stufato con una linea rigorista che ad oggi non ha riscontro in Europa e nemmeno nel mondo, tolte Cina, Australia e poco altro, dicevamo, Speranza permettendo fra poco più di una settimana le discoteche finalmente riaprono, a meno che entro il 10 febbraio non ci siano dei peggioramenti improvvisi ed imprevisti nella curva pandemica. Onestamente, manco fra gli addetti ai lavori ci si aspettava tanta grazia. E, comprensibilmente, aleggia un misto di scetticismo ed incredulità.
Però ecco: l’oggetto di questo articolo sono gli addetti ai lavori e gli appassionati stretti. Non Sanremo, non il Governo, non Speranza (che di tutto loro ne abbiamo parlato in passato, e ne riparleremo certo in futuro). L’oggetto sono gli stracazzo di addetti ai lavori ed appassionati della scena dance italiana, che ora magari dovrebbero mettersi comodi e leggere con attenzione questo pezzo della conversazione avuta dal sottoscritto col signor Laurent Garnier, inizio dicembre 2021:
“Sì, possiamo dare la colpa a un sacco di persone, a questo, a quello, al Governo, a determinati ministri, ma bisognerebbe dare prima di tutto la colpa a se stessi, noialtri del clubbing. Guarda, io ti parlo della Francia, non so come sia la situazione in Italia (uguale caro Laurent, uguale… NdI), ma quello che ho visto nel mio paese è stato deprimente. Se non capiamo che dobbiamo unirci tutti, dove pensiamo di andare? Come possiamo anche solo pensare di contare qualcosa? Io ho parlato con un sacco di persone, ed ho ascoltato con molto rispetto tutta una serie di obiezioni anche non campate in aria sul fatto che, ad esempio, un locale che fa techno d’avanguardia e di ricerca non può essere accomunato a un posto che fa dance commerciale o latinoamericana. Ma io guardo a cosa ha fatto il settore della ristorazione, che guarda caso ha ottenuto molto più di noi: hanno presentato delle istanze tutti insieme e valide per tutti, si trattasse di ristoranti con due stelle Michelin o del kebabbaro sotto casa, con tutto ciò che ci sta in mezzo. A nessuno è venuto in mente di fare delle distinzioni. Il problema era comune, le istanze comuni. In fondo, si sono detti, facciamo tutti la stessa cosa: ci occupiamo di nutrire la gente. Ciascuno a modo suo, ma questo facciamo. E infatti, unendosi, qualcosa hanno ottenuto. Noi no. Noi tutti pronti a distinguerci fra di noi, a litigare fra di noi, a dire “No, tu non c’entri, vai via che mi fai schifo”, “No, tu non vali, non voglio aver nulla a che fare con te”. Noi, proprio noi facciamo questi discorsi! Noi del ballo! Noi che invece dovremmo essere aperti, inclusivi proprio di natura. Come è possibile ‘sta cosa? Non sono scemo: capisco anche io che c’è una differenza tra chi fa ricerca ed investe nell’arte e chi invece pensa solo al guadagno e ad intrattenere anche in modo grossolano, ma su queste differenze – e sul modo di riconoscerle e premiarle – possiamo lavorare in un secondo momento, quando tutti potremo finalmente riprendere a lavorare. Ora invece abbiamo perso un sacco di tempo per decidere – senza nemmeno deciderlo, alla fine – se un posto che fa hip hop è degno di essere considerato un club o no. Quando invece per me la questione dovrebbe essere molto semplice: sei un posto dove l’idea è quella di far ballare la gente? Bene: allora sei dei nostri, sei dei miei! Ma invece no, nulla, non abbiamo ragionato così, in Francia. E abbiamo perso quel poco di potere, credibilità ed influenza che avevamo conquistato negli anni, venendo completamente ignorati dalle istituzioni. Questo in Francia. In Italia, boh, spero vi sia andata meglio…”
Laurent: no. In Italia, sotto questo punto di vista, abbiamo fatto schifo. Semplicemente schifo. Per due anni a parte qualche sparuta eccezione e qualche parentesi imprevista abbiamo solo fatto gara a dividerci, a sparlare fra noi, a cercare nei compagni di viaggio vicini e lontani solo i difetti e non i possibili punti comuni. Abbiamo cercato in tutti i modi di delegittimare l’unico ente un minimo solido a difesa della categoria, quello che esiste da anni e che, unico fra tutti, si è dato una organizzazione più o meno stabile; e se è vero che questo ente spesso si delegittima da solo, con posizioni incerte, con associati che da un lato piangono dall’altro infrangono le leggi, portando avanti approcci che troppo spesso sanno di anni ’70, ’80 e primi ’90 senza un briciolo di aggiornamento culturale e gestionale, noi “intelligenti” non abbiamo fatto nulla per aiutarlo e per provare a riportarlo su una strada più moderna, contemporanea e presentabile. Uno dice: poco male, tanto era una mission impossible. Poi però se vai a vedere cosa hanno fatto gli “intelligenti” (ed anche i potenti: gente che i fatturati li fa davvero) unendosi fra loro, il risultato tangibile è zero. Senza nascondere nomi e sigle: domanda per CFC, valeva la pena schifare così tanto il SILB e rifiutarsi di collaborare con esso per restare isolati ed ottenere il nulla che, per ora, avete ottenuto?
Tutte le varie sigle e siglette, alcune un po’ più serie e consolidate, altre nate sull’onda dell’improvviso stato di crisi, invece di avere come obiettivo primario – ripetiamo: primario – il fatto di unire tutte le forze, hanno usato il grosso delle energie e si sono sentite utili alla causa giusto quando, oltre a fare i complimenti a se stesse, riuscivano ad intercettare qualche politico (magari conosciuto per caso, o perché vecchi amici di famiglia di un fratello o di un cugino), da usare come buca delle lettere per le proprie disperate istanze. E tutti questi politici – lo sappiamo perché l’abbiamo visto succedere più volte – hanno ripetuto mille volte “Se vi unite, se mi fate capire che questa è una richiesta che arriva in blocco da tutto un settore, forse si può fare qualcosa”. Inascoltati.
Perché sì, li ascoltavi quando ti dicevano questa cosa, magari dicevi “Sì, sì, verissimo, ora facciamo, ora ci pensiamo”, ma sei minuti dopo in nove casi su dieci riprendeva la sarabanda di prima: io sono meglio di te, tu fai schifo, tu sei inadatto, tu mi fai ribrezzo, tu manco appartieni alla mia stirpe, tu puzzi, tu sei scarso. E anche all’interno delle stesse organizzazioni – perché non è un problema di rivalità fra sigle, è proprio una forma mentis nazionale – c’era più di talvolta la gara a differenziarsi, a farsi vedersi singolarmente, fottendosene del gioco di squadra. Chat di addetti al settore dove le persone parlavano solo ed unicamente di quello che facevano loro, di quello che avevano dichiarato loro, del comunicato che avevano scritto loro, senza la minima parvenza di idea di condivisione e di collettivo. Uno schifo.
Una cosa deprimente. A fare da corollario a tutto questo, una continua dinamica da “due pesi, due misure”, di gente che vedeva la pagliuzza nell’occhio altrui ma si voltava stupita e sdegnata se gli si faceva notare che c’era una trave nel proprio (sì, tanti bar, baretti, discoteche di città vecchio stile commerciali che restavano aperti travestendosi da ristoranti, ma vogliamo di cosa è successo anche nelle sfere techno e house? Almeno il tanto esecrato Tito Pinton ha avuto la dignità di rivendicare un certo tipo di azioni, altri facevano uguale ma fischiettavano facendo finta di nulla e pensando silenziosamente “Tanto mal che vada sono cinque giorni dal lunedì al venerdì a 400 euro di multa, via”). Ipocrisia e double standard a fiotti. Ok che la linea-Speranza ha portato all’esasperazione tutti, e ormai la misura è colma tanto che se il 10 febbraio ci si inventa un’altra proroga di chiusura senza motivi reali parte proprio la disobbedienza civile, ma il grado di non-maturità e di non-coraggio nell’insistere fare, come da tradizioni, le cose aumm’ aumm’ non dovrebbe poi farci sorprendere se si è trattati non solo dalla politica ma anche dall’opinione pubblica media a pesci in faccia.
Ora: visto che è facile fare una invettiva dove si sparla di tutto e di tutti – fino a questo momento l’articolo che state leggendo questo è – perché in questo modo fai solo bella figura, sembri quello “più intelligente di tutti” e ti poni su un piedistallo, che è esattamente quello che fa il 90% di chi opera nel campo del ballo in Italia, da qui in avanti vogliamo “sporcarci le mani”. Ci schieriamo cioè chiaramente: con delle proposte che non sono perfette, che in qualche caso non sono nemmeno “giuste”, ma ci sembrano operativamente quelle più efficaci.
Abbiamo una cosa che ci aiuta: ballare resta una cosa bellissima. Lo capiscono perfino le mummie e gli imbucati seduti all’Ariston nei giorni del festival, figuriamoci. Basta poco per riaccendere la scintilla
Uno: concentrarsi sul SILB. E, in qualche caso, scalarlo. O almeno provare a rinnovarlo. Il SILB stesso deve capire che nel momento in cui non riesce ad includere nella sua operatività apicale gli imprenditori più importanti del clubbing italiano degli ultimi vent’anni (ovvero, la frontiera più avanzata dell’”universo ballo”), non va da nessuna parte. Se questo implica fare ammende imbarazzanti o inchinarsi di fronte a certe arroganze o disassare alcuni assetti interni ad oggi faticosamente raggiunti, lo si faccia: è vitale farlo, ammesso (e non concesso?) che si voglia davvero contare qualcosa e non essere solo una conventicola di potere minore, favori, congressi e congressini. L’alternativa? Morire piano piano, sempre più vecchi, sempre più superati, sempre più irrilevanti. I suddetti imprenditori più importanti però la smettano di farsi i cazzi loro e di sentirsi più importanti e più intelligenti di tutti i colleghi, come stanno continuando pervicacemente a fare: magari lo sono pure, ma dovrebbero aver capito che comunque da soli, anche con tutta l’intelligenza e tutti i fatturati fatti ai tempi delle vacche grasse, politicamente non vanno da nessuna parte, nessuna!, almeno come tutela complessiva di settore.
Due: parlando non più di promoter, impresari ed imprenditori a larga scala ma di pesci più piccoli, ovvero dj, dj/promoter, PR, agenti, la priorità è – parlarsi, organizzarsi, lì dove possibile unirsi, ma in generale comunque continuare a confrontarsi fissando delle regole del gioco che valgano per tutti, non come oggi dove – essenzialmente per convenienza – ognuno ha fatto un po’ come gli pareva. Basta pagamenti in nero, basta furberia, basta dumping e, al tempo stesso, basta aste del cazzo per cui dall’estero ormai i grandi management ci ridono dietro (un tempo non ci ridevano dietro solo perché eravamo quelli che spendevano di più, dei polli da spennare e da blandire: oggi che molti mercati ci hanno sorpassato, da Dubai al Messico a quello che volete voi, ci ridono dietro e stop, e infatti si vede).
Tre: smettere di lamentarsi e basta. Un momento di crisi – e questo eccome se lo è – è anche il momento migliore per rischiare (tanto non si più molto da perdere…), per innovare, fare piccole rivoluzioni, scardinare abitudini consolidate non più sostenibili. Lo si fa? Lo si sta facendo? Lo si è fatto in questi due anni? Lo si farà quando finalmente si ripartirà? Parere nostro: in parte sì, in parte è stato fatto. Ma c’è ancora un mare di potenziale inesplorato in quanto ad idee ed innovazione (nei nomi proposti, nelle musiche, nelle venue, nelle situazioni, anche nelle richieste che si possono fare alle istituzioni).
Ascoltate Garnier. Che non è proprio l’ultimo degli stronzi. Fate finalmente vostro il concetto dalla situazione di blatta in cui siamo si esce solo facendo gioco di squadra, pensando ed agendo in con una “intelligenza collettiva”, lasciando stare vecchi narcisismi ed egoismi che oggi, anno di grazia 2022, col clubbing molto meno rilevante rispetto a venti ma anche solo dieci anni fa, oggi non sono più sostenibili. Se non lo faremo, resteremo sempre una vecchia signora fuori tempo massimo: un tempo sprintosa, ricca ed ingioiellata, ed oggi invece con la pezze al culo, ma arroccata nel castello di famiglia. Una macchietta insomma. Una macchietta che all’Arena, al Petruzzelli, all’Ariston viene allegramente perculata, con l’insulto del “Tutti in piedi!” a favore di telecamere nel momento in cui, nella vita e nell’economica reale, il “Tutti in piedi!” è reato.
Se il 10 febbraio ci si inventa un’altra proroga di chiusura senza motivi reali parte proprio la disobbedienza civile, ma il grado di non-maturità e di non-coraggio nell’insistere fare, come da tradizioni, le cose aumm’ aumm’ non dovrebbe poi farci sorprendere se si è trattati non solo dalla politica ma anche dall’opinione pubblica media a pesci in faccia
Abbiamo una cosa che ci aiuta: ballare resta una cosa bellissima. Lo capiscono perfino le mummie e gli imbucati seduti all’Ariston nei giorni del festival, figuriamoci. Basta poco per riaccendere la scintilla, per far ripartire un settore, per rimettere finalmente idee e sogni (e non solo fatture e cash in nero) in circolazione. Basta poco per innovare, per alzare finalmente la testa dal trogolo ed iniziare a fare qualcosa per cui sentirsi, finalmente, di nuovo, vivi ed orgogliosi. Con quella bellissima sensazione in cui senti di non avere in realtà nulla da perdere, perché troppo bello è quello che stai facendo, è il “nuovo” che stai creando.
Da quanto tempo gli addetti ai lavori del clubbing, commerciale o underground che sia, non provano questa sensazione?