E’ praticamente un dream team, quello che oggi giovedì 3 marzo la sempre benemeritissima Radio Raheem (una delle migliori web radio europee, mica solo italiane: siamone orgogliosi!) ha radunato in un posto di grande prestigio come la Triennale a Milano. Alle 19 infatti una triade formata da Fabio De Luca, Federico Sardo e Valerio Mattioli si confronta sull’ultimo lavoro di quest’ultimo, un’appassionante, profondissima e in qualche passo geniale analisi sulla “traccia” lasciata dall’IDM nelle vostre vite, nelle nostre estetiche e nelle nostre pratiche, appoggiandosi in primis su – ecco di nuovo il numero tre – un terzetto “definitivo” come quello rappresentato da Aphex Twin, Boards Of Canada, Autechre. Per celebrare questo incontro, e per analizzare in modo dovuto questo libro densissimo, abbiamo voluto preparare qualcosa di speciale: “convocare” un altro nome storico del giornalismo musicale italiano, Stefano “Bizarre” Quario (a lungo firme-cardine su Blow Up, ora lo potete leggere spesso su Giornale della Musica e Rolling Stone), che ha “fotografato” al meglio questo “Exmachina. Storia musicale della nostra estinzione”. Un libro che, esattamente come “Superonda” sempre di Mattioli, è una presenza fondamentale nella libreria di chiunque sia appassionato di musica in modo non superficiale.
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L’ultima rivoluzione
Facciamo un salto indietro nel tempo; ma neanche così lungo, non è proprio una cosa da boomer. Arriviamo all’inizio degli anni ’90, nel 1992 per la precisione, ma magari anche qualche mese dopo, visto che per le questioni musicali in Italia le cose succedono sempre con un po’ di sfasamento rispetto al mondo anglosassone. Diciamo che grosso modo possiamo collocare nella prima metà degli anni ’90 quella che è probabilmente stata l’ultima e più significativa rivoluzione musicale del pop dei nostri tempi: la musica elettronica.
Non stiamo parlando di elettronica in senso lato, ma di un genere ben specifico che ebbe un’esplosione pazzesca in quel momento, innestato da una compilation che usciva appunto nel 1992 su una label di nome Warp, e che si chiamava “Artificial Intelligence”. Facciamo un po’ di contesto: nel 1989 in Inghilterra c’era stata la Summer of Love, la house music era improvvisamente diventata di gran moda e per alcuni anni il fenomeno più marcante della cultura giovanile sarebbe stato il rave. Ma quest’ultimo epifenomeno era rimasto confinato come dirompente corollario della ribellione degli adolescenti, dei ventenni al massimo, e la sua colonna sonora, ideale per il ballo, non era minimamente adatta all’ascolto casalingo. Serviva una nuova formula per facilitare l’ingresso dell’elettronica nelle case degli ascoltatori, e successe qualche anno più tardi.
Allo stesso modo in cui in politica gli estremisti indicano la strada ma non diventano quasi mai una forza di governo, il rave ebbe la sua trasformazione “socialdemocratica” mutando in una forma musicale che non era più rivolta al dancefloor, ma anzi era facilmente fruibile tra le mura domestiche e poteva piacere anche a chi cominciava a sentirsi troppo vecchio per tirare l’alba ballando senza tregua. I bpm si erano abbassati, sfiorando talvolta la staticità della ambient, la melodia era diventata più riconoscibile, e tuttavia restavano i suoni alieni e sintetici della techno a dare l’impressione che si avesse a che fare con qualcosa di nuovo, con la musica più futuribile che si potesse ascoltare in quel momento: era nata l’IDM, l’Intelligent Dance Music.
C’è una differenza fondamentale rispetto a 30 anni fa: l’elettronica di questi anni è puramente funzionale ai risultati, mentre invece quella che segnava gli albori era carica di speranze di trascendenza, un bocciolo di aspettative ignote ma meravigliose
Questa è una delle tesi di “Exmachina”, il bellissimo libro di Valerio Mattioli che esce in questi giorni per Minimum fax. Al di là dell’infelice acronimo, che non è mai piaciuto a nessuno, possiamo concordare: l’IDM ha veramente avuto una portata rivoluzionaria per aver saputo coniugare tendenze avanguardistiche e ambientazioni da salotto. Anzi, è stato uno dei rari momenti in cui, sebbene l’ascolto delle trame tecnoidi di gente come Aphex Twin, B 12, Autechre, Black Dog e molti altri fosse fluido ed estremamente gradevole, ci si sentisse comunque proiettati in uno splendido futuro di bellezza artificiale, inedito e ricco di promesse. Una sensazione ricorrente nella musica pop (ci ha costruito un intero libro l’ottimo Simon Reynolds due anni fa: “Futuromania”), che chi ha vissuto di persona l’epopea dell’elettronica negli anni ’90 può agevolmente confermare.
Erano d’altronde gli anni in cui la tecnologia digitale stava muovendo i primi passi, e l’ingresso nell’era del computer stava creando aspettative importanti – a ricordarle oggi può venirci un sorrisino di sufficienza, ma in realtà lo scarto ebbe ai tempi un’importanza enorme. Su questi presupposti, Mattioli osa proporre una teoria, tanto paradossale quanto affascinante, secondo la quale l’avvento di questa musica avrebbe apportato un cambiamento non solo culturale ma addirittura antropologico sulla specie umana. Altro flashback a metà anni ’90: ricorderete che i detrattori dell’elettronica la descrivevano come una musica “disumana, senza emozione, perché fatta dalle macchine“. Beh, è tempo di riconoscerlo: è vero, l’elettronica è fondamentalmente musica fatta dalle macchine. Però non è questo un motivo per disprezzarla; al contrario, possono esserci ottimi motivi per scoprire in quali modi può dare grosse soddisfazioni. Si sa che l’ascolto di un brano di elettronica richiede una predisposizione all’ascolto fondamentalmente diversa da quello messo in atto per una canzone: non ci sono quasi mai parole, e invece del meccanismo di tensione-rilascio il pezzo è costruito a mezzo di iterazioni sovrapposte, tese alla creazione di un groove che genera una vertigine sia fisica (quando si traduce in ballo) che mentale.
Ecco, secondo Mattioli questo potrebbe essere lo step decisivo per favorire un passaggio che porti l’uomo a essere meno umano e più macchina. Un esempio si aveva già nel ballo ossessivo e drogato dei raver: “la danza”, scrive, “diventava una forma epilettica di possessione in cui la carne veniva obbligata a piegarsi a ritmi che senza sosta premevano articolazioni e tessuti connettivi oltre il proprio recinto di sicurezza”, ma non solo: “attraverso le danze innaturali partorite dall’info-stimolazione cibernetica venivano riconfigurati gli strati più profondi della psiche individuale”, per cui “le nuove tecnologie elettroniche producevano come effetto un’esteriorizzazione dello stesso sistema nervoso centrale”. Trasponendo ora questa idea in un ambiente domestico, e sostituendo ai break martellanti del rave le atmosfere fluide e astratte dell’IDM, e alla frenesia del corpo ballante lo stordimento del cervello, accadrebbe la stessa cosa, anche se in modo più subdolo e omeopatico: “tutto quello che potevi (dovevi) fare era stare lì, privo di forze e costretto all’abulia più remissiva, a lasciarti inondare dagli 0 e dagli 1 in un bagno di sole elettrico, irradiato dalla pace dei sensi del Fuori mentre il tuo sistema neuronale veniva silenziosamente riconfigurato”. Ampliate il concetto su scala evolutiva, e potremo assistere all’estinzione della nostra razza quando (finalmente?) le macchine avranno definitivamente preso il comando del pianeta.
È chiaro che questo scenario semi-apocalittico alla Matrix appare essenzialmente una boutade più o meno irreale, fortemente condizionata dalla paranoia di questi tempi in cui la speranza di tornare alla normalità pare(va) impossibile; ma in qualche modo l’ipotesi non è priva di fascino. Abbandonarsi all’inazione mettendosi nelle mani di una tecnologia onnisciente, che funge da divinità pure nella sua piena concretezza, ha qualcosa di consolatorio, di definitivo. È una tossicodipendenza trascendente, una sorta di psichedelia 2.0 – d’altronde i legami dell’elettronica con le droghe e con gli stati di alterazione mentale sono da sempre strettissimi. E questo rifugio dell’essere umano con le sue debolezze nel dio tecnologico fa pensare ai deliri di Lester Bangs, quando diceva che invidiava il coraggio assoluto del tossico, che osava immolare la propria vita sull’altare della droga.
Abbandonarsi all’inazione mettendosi nelle mani di una tecnologia onnisciente, che funge da divinità pure nella sua piena concretezza, ha qualcosa di consolatorio, di definitivo. È una tossicodipendenza trascendente, una sorta di psichedelia 2.0
Ora, per assurdo, ammesso che a metà degli anni ’90 potevamo anche crederci, qual è la verosimiglianza attuale di questa ipotesi? Evitando di fare i filosofi e limitandoci ai contenuti musicali, sarebbe facile dire che le macchine stanno prendendo sempre più il sopravvento: dalla produzione, in cui i suoni sono ormai tutti costruiti al computer e rispondono ad algoritmi ben precisi, alla distribuzione, che ha ormai quasi dimenticato il formato fisico, all’orientamento dei gusti degli ascoltatori, che vengono predeterminati dalle playlist personalizzate di Spotify. Tuttavia, c’è una differenza fondamentale rispetto a 30 anni fa: l’elettronica di questi anni è puramente funzionale ai risultati, mentre invece quella che segnava gli albori era carica di speranze di trascendenza, un bocciolo di aspettative ignote ma meravigliose.
Prendiamo i nomi che Mattioli cita come esempi ideali (e ai quali sono dedicate altrettante monografie, scritte con notevole brio) di superamento della forma musicale elettronica a livelli che nessun altro: Aphex Twin, Autechre, Boards Of Canada. Tre nomi la cui bravura resta fuori discussione, così come la loro capacità di reinventarsi; ma che non sono più messaggeri dell’inusitato e del futuro remoto, come potevano apparire ai loro esordi; forse solo gli Autechre hanno ancora una proiezione realmente avveniristica, che però rischia di essere fin troppo inafferrabile nella sua scientificità estrema. Il futuro non è più dietro l’angolo.
D’altra parte, l’evoluzione del panorama musicale è stata marcata dalla retromania fin dall’inizio del millennio, e malgrado qualche timido tentativo di creare generi inediti (dal dubstep alla trap), questi sono sempre rimasti confinati nella nicchia, mentre il rock’n’roll sembra essere immortale e un millennial ascolta indifferentemente un inedito del 2022 o un classico degli anni ’70. Per questo, se la centralità della musica delle macchine negli anni ’90 andava di pari passo con un’idea di futuro possibile, oggi, quando le macchine sono mille volte più performanti, la loro immanenza le rende drammaticamente più scontate.
Siamo quindi destinati a rimanere umani, almeno per il momento. Se sia un bene, non si sa.
Bizarre