Eh sì: la “navicella” C’Mon Tigre continua a solcare l’iperspazio delle traiettorie musicali contemporanee in maniera assolutamente e maledettamente obliqua, atipica. Anzi, con “Scenario”, album in uscita oggi 25 marzo 2022, volendo lo fa addirittura ancora di più rispetto al precedente “Racines”, soprattutto nella parte iniziale. Se nel disco precedente infatti i richiami a certe sonorità elettroniche da club-per-adulti (il post-clubbing alla The Xx, per dire) erano più diffusi, codificati e presenti, con l’album ora in uscita invece, in particolar modo nella prima parte, si torna a lavorare più su versanti world, etnomusicologici quasi. Sì: anche quando l’elettronica appare pesante e in primo piano, come ad esempio nella finale “Sleeping Beauties” (impreziosita dal featuring di sua maestà Colin Stetson), lo fa al servizio di un disco che – un tempo – avremmo decisamente etichettato come “world”.
Oh: nel frattempo si è spiegato che “world music” è una definizione da non usare, o da usare con cura, visto che implica una supposta superiorità classificatoria occidentale rispetto alle musiche del mondo (tipo che c’è l’Occidente, e tutto il resto è “world”, “mondo”…), e va benissimo, giusto usare queste accortezze; quello che a noi interessa in sede d’analisi è che l’anima di “Scenario” ti porta davvero cronologicamente lontano dagli standard contemporanei, non tanto come suoni quanto proprio come attitudine. C’è la voglia di ricerca e di esplorazione che c’era nella musica pop/alternativa/indipendente nel passaggio tra gli anni ’80 e ’90, con la curiosità di contaminarsi con quello che c’è a sud o ad est dell’Europa; c’è la voglia di evitare accuratamente tutti i trucchi e trucchetti della musica-che-funziona nel mainstream, lì dove oggi invece (vedi ad esempio Rosalìa, autrice peraltro di un disco piuttosto bello) il processo obbligatorio pare quello di combinare “alto” e “basso”, stilemi commerciali (reggeaton, anytone?) ed altri fieramente sperimentali (piccoli soluzioni liofilizzate di autechrismo e sophieismo pronto-uso). Shakarare, e l’appassionato è servito. Il mainstream e gli stream a milionate pure.
“Scenario” non combina “alto” e “basso”: “Scenario” va per la sua strada, stop. E lo fa pure in alcuni aspetti tecnici che possono essere visti come una contorsione mentale da nerd, invece raccontano proprio parecchio dello spirito che anima questo album: le scelte di mixaggio e mastering sono abbastanza estreme ed anti-moderne (ma non per questo meno preziose), le indicazioni date a Tommaso Colliva in tal senso – ed ehi, se hai assoldato Tommaso Colliva vuol dire che vuoi avere il meglio – devono essere state secondo noi abbastanza particolari, abbastanza (…di nuovo!) anti-contemporanee. Non è un disco infatti di loudness war e di occupazione militare delle frequenze medie. Tutt’altro. E’ anzi addirittura un disco che se lo lanci in streaming su Spotify “suona male”, perché ha bisogno invece di uno stream ad alta qualità per dispiegare la sua anima, la sua identità, le sue scelte, la sua forza, la sua identità (provare ad esempio la differenza tra come si sente sul servizio di Ek, e come invece sullo streaming ad alta qualità di Qobuz: un abisso).
Tutto questo è fuori dal tempo? Lo è: è dannatamente fuori dal tempo. Così come fuori dal tempo in senso proprio ritmico sono spesso i brani, addirittura lo sono quelli scelti come singoli, vedi il caso di “No One You Know”, col featuring di Xenia Rubinos e il “vestito visuale” curato dall’illustre Danijel Zezelj (ma si sa, sull’aspetto visuale i C’Mon Tigre hanno sempre avuto una cura maniacale, malata quasi, dispendiosa di sicuro: ed è fuori dal tempo pure questo, in epoca di musica al 99% liquida).
(Un po’ di ritmo obliqui ed ellittici, non esattamente il “singolo da classifica”; continua sotto)
Che musica fanno i C’Mon Tigre? Ethno-afro-funk-alt-pop-trip-hop-cantautorale? Qualcosa del genere, sì. Ma mentre oggi le patchanke e le combinazioni di generi e di stili si fanno spesso col Manuale Cencelli 2.0, per cui devi combinare gli elementi che piacciono-alla-gente-che-piace in un modo altamente scientifico ed altamente benedetto dai vari snodi di, ehm, opinion leading ed influencing, loro comunicano proprio l’orgoglio e insieme la svagatezza di volere, solo ed unicamente, seguire il proprio gusto, senza calcoli. Un gusto, il loro, che tra l’altro palesemente si è formato negli anni ’90, non nei 2000 e passa; e che pur restando sempre aggiornato (anzi: per i suoni, aggiornatissimo), nella scrittura non ha però mai voluto tradire questo DNA originario, DNA dove i dEUS contano più di Kanye West e Dj Food più di The Weeknd. Di quanti progetti oggi si può dire altrettanto? E intendiamo: di quanti progetti fatti gran bene, e non solo meramente nostalgici?
Brano migliore dell’album, quello magari da cui partire se ancora non avete famigliarità con la band? Diremmo “Kids Are Electric”: musica tradizionale brasiliana ritmata eppure eterea, malinconica quasi, con una tessitura di armonizzazioni ed emozioni contrastante e proprio per questo fascinosa. Sì: è un mondo profondamente atipico, quello dei C’Mon Tigre. Ma il cielo sa quanto abbiamo bisogno di progetti così: artisticamente ambiziosi in modo quasi svergognato da un lato, completamente indifferenti rispetto ai “suggerimenti” ed alle pressioni del mercato major contemporaneo dall’altro. E con la capacità di attrarre, non per convenienza di fama ma per comunanza di spirito, musicisti illustri come Gianluca Petrella, Pasquale Mirra, Mirko Cislino, giusto per nominarne alcuni.