Allora, prima di tutto, per chi non l’avesse ancora capito: “La grande truffa italiana di Spotify”, con tutta la storia di “Cavallo Pazzo” e l’hackeraggio dei server per moltiplicare i numeri di stream, era un Pesce d’Aprile. Sì: un Pesce d’Aprile. Nemmeno mettere come foto di copertina l’incolpevole Massimiliano Degani aka Big Fish, e ribadire anche alla fine la sua “presenza” dentro l’articolo, è servito a mettere sul chi va là molte persone. Di Big Fish parleremo anche qui, oltre a rimetterlo come foto iniziale. Ma stavolta per parlare di ciò che conta davvero: la musica, e il modo di rapportarsi con essa e i suoi meccanismi.
Sì. Perché qui evidentemente si dimentica di ciò che conta davvero. Il problema è che spesso di questo si dà la colpa solo alla stampa (che scrive solo di cazzate) o ai musicisti (che barano, e sono dei venduti): ma vorremmo far riflettere che il nostro Pesce d’Aprile è stato letto, ad oggi, cento volte di più (cento! Non dieci, cento!) del nostro approfondimento sul bellissimo disco dei C’Mon Tigre, o duecento e passa volte di più delle nostre segnalazioni più recenti su musica di qualità, HLFMN e L.Teez. Non facciamo le verginelle: lo sappiamo che molto spesso la portineria porta più dell’informazione puntuale (vedi anche il roboante successo di numeri per quanto scrivemmo sull’affaire tra Peggy Gou e Daniel Wang), ma forse sarebbe il caso di fare un atto di riflessione.
Se si è molto più sensibili a titoli che contengono la parola “Truffa” ed implicano una polemica, e non invece l’approfondimento e l’informazione, la colpa di chi è? Solo di chi scrive? Solo di chi fa musica? Solo del sistema brutto e cattivo? O non è per caso colpa di una platea sempre più distratta, che cerca nell’informazione sempre più solo le baruffe chiozzotte e la mera portineria, senza nemmeno desiderare e pretendere la “eleganza del riccio”?
Ma ancora, andiamo avanti: se i dati di Spotify sono truccati (così come quelli di altri servizi di streaming, a partire da YouTube) non è certo una bella cosa, ok, ed artisti e management che scelgono questi mezzucci sono da condannare. Lo pensiamo, lo penseremo sempre. Per carità. Ma fatevi questa domanda: vi interessa di più la musica, o la voglia di gogna, di fare da giustizieri? Se ci sono artisti che si gonfiano i dati, è indubbiamente una merda. Se ci sono manager che perseguono esplicitamente questa strategia, e case discografiche che la sfruttano consapevolmente per massimizzare i profitti, è un mezzo schifo – o uno schifo intero. Va bene. Però ecco: sapete perché lo fanno? Lo fanno perché il pubblico è evidentemente sensibile ai numeri, ai dati (anche se gonfiati), al loro scintillio; lo fanno perché lo stesso pubblico sempre più dimostra, per pigrizia mentale, di non volersi decidere finalmente a “cavalcare” gli algoritmi, ad essere più forte ed intelligente di loro, no, a quanto pare li subisce passivamente; infine perché sempre questo pubblico, o almeno una sua parte, che a parole si indigna per la musica e la vuole proteggere contro l’avidità dei mezzucci, nei fatti però tutta questa carica ideale e questa passione la mette quasi solo quando c’è da criticare qualcuno o qualcosa passando dalla parte dei “giusti” e dei “senza macchia”, e non quando c’è da sostenere una novità, una bella scoperta, un lavoro di ricerca. Che è l’azione che farebbe chi della musica è innamorato per davvero – o almeno, è una delle cose che farebbe. Probabilmente la prima.
Se i dati di Spotify sono truccati (così come quelli di altri servizi di streaming, a partire da YouTube) non è certo una bella cosa, ok, ed artisti e management che scelgono questi mezzucci sono da condannare: lo pensiamo, lo penseremo sempre. Per carità. Ma fatevi questa domanda: vi interessa di più la musica, o la voglia di gogna, di fare da giustizieri?
Anche in passato le case discografiche gonfiavano le vendite, per finire in classifica. Con qualche artista era conveniente farlo: lo era per quelli dal pubblico di riferimento più pop e – permetteteci – più ingenuo. Era però un sistema meno “liquido”. La differenza è che oggi ascoltare musica e “supportarla” (virgolette d’obbligo) è diventato molto più semplice. Un tempo infatti un disco almeno dovevi comprarlo, pagandolo una cifra nemmeno così piccola, come un libro se non di più, mentre oggi la musica è ascoltata sempre più come background (nel pop, nel rock, nell’elettronica a BPM lenti) oppure come giustificazione materiale della propria presenza per artisti che più che vendere la propria arte vendono il proprio successo (nell’elettronica da dancefloor, nell’hip hop). Sì: come background. Tanto è gratis. O, nei casi migliori, costa dieci euro al mese o giù di lì. Due birrette.
Brutta situazione.
Se amate veramente la musica, non indignatevi contro chi trucca o truccherebbe i dati di streaming, non è tanto quella la battaglia da combattere, o non è certo la battaglia principale. La battaglia principale è quella per tornare ad un ascolto consapevole, approfondito, appassionato. E tornarci non perché questo tipo di ascolto è “giusto” – la categoria di “giusto” nell’arte può portare a derive pericolose, se usata come una clava – ma perché è un ascolto molto, molto, molto più soddisfacente.
E quindi: esistono “truffe” su Spotify? Esistono artisti che “drogano” artificialmente e criminosamente i dati? Sì. Può essere. Le major fanno tutta una serie di giochetti per gonfiarli, questi dati? Sì, può essere anche questo. L’atteggiamento più maturo però sarebbe accogliere tutto questo con una scintillina di disprezzo e, poi, una secchiata di serena indifferenza.
Se amate veramente la musica, non indignatevi contro chi trucca o truccherebbe i dati di streaming, non è tanto quella la battaglia da combattere, o non è certo la battaglia principale. La battaglia principale è quella per tornare ad un ascolto consapevole, approfondito, appassionato
Qualcuno dirà: “Eh, ma non è questo il punto. L’articolo-Pesce parlava del fenomeno, molto strano, degli artisti italiani che improvvisamente diventano troppo spesso ‘L’artista più ascoltato al mondo’ nel giorno della loro uscita”. Vero. E’ un fenomeno in effetti bizzarro, particolare, perché l’Italia non è certo una super-potenza globale della discografia e della passione musicale. Va detto però che da noi Spotify è per ora il player di riferimento per quanto riguarda la musica in streaming, spesso gli ascolti sulle nuove uscite si concentrano insomma lì e non su Apple Music, YouTube Music, Deezer, Qobuz, eccetera eccetera come in altre nazioni; chiaro che la nostra share mondiale, nel momento in cui c’è una grande concentrazione di ascolti su una novità, cresce. Va anche detto che nel nostro mercato (anche in altri, ma nel nostro di sicuro) strillare ai numeri è diventata una potente fonte di marketing, una delle tante “onde lunghe” di quel fenomeno americanizzante per cui il pop è compenetrato nella cultura hip hop e viceversa. Ti vanti, dei numeri. Sono la dimostrazione del tuo valore, della tua potenza. E sono pure la carta da gioco che hai per prendere le smazzate migliori dalla vera modalità di guadagno oggi per un musicista: “vendersi” ai brand. Come testimonial. Come comparsata ad un evento. Come partner di un’operazione. I dati di streaming (o di view su YouTube) determinano il tuo valore sul mercato nelle scelte dei responsabili marketing; e quello che guadagni da questa forma extra-musicale o parzialmente extra-musicale di attività, per te artista, è diventata faccenda prioritaria. La casa discografica, dal canto suo, “gioca” con l’algoritmo, quel meccanismo per cui più una cosa viene ascoltata, più viene proposta. Del resto è un giochetto che mica è stato inventato da internet, lo praticano le radio commerciali – vere trionfatrici dell’industria – da decenni. Guarda caso, la radio era esattamente l’altra parte di tutto questo meccanismo in cui la musica perde valore, perché viene fruita, concessa, presentata GRATIS.
Cerchiamo di essere migliori e più intelligenti di tutto questo. Salmo, Sfera, Fabri, Måneskin, Paky vanno in testa alle classifiche mondiali? Ah, bella per loro. Se è vero, speriamo questo significhi più successi e più posti di lavoro per tutti. Se è tutta una finta, allora in un mondo migliore (non evidentemente in questo) è solo un fuoco di paglia che serve unicamente come vanity metrics. Una faccenda infantile. E infantile anche chi la mette in piedi.
Ti vanti, dei numeri. Sono la dimostrazione del tuo valore, della tua potenza. E sono pure la carta da gioco che hai per prendere le smazzate migliori dalla vera modalità di guadagno oggi per un musicista: “vendersi” ai brand
Le cose le può cambiare solo chi ascolta. Chi fruisce la musica. La domanda centrale resta sempre: perché ascoltate la musica? Perché seguite un artista? Per avere un sottofondo gradevole? Per identificarvi nel successo di chi la propone? Potete farlo, eh. Potete farlo benissimo. Potete fare così. Ma sappiate una cosa: in questo modo, l’esperienza non sarà mai, mai, mai pienamente soddisfacente. Sarà “carina”, ecco. La musica sarà un elemento “carino” nelle vostre vite (o sarà la colonna sonora per la vostra fattanza, o il vostro autoerotismo). Vi perdete qualcosa di importante. Se invece vi sentite veri “soldati della musica”, custodi della passione più autentica: che ci sia chi gonfia i dati è spiacevole, certo, ma oggi – al contrario di ieri – ci sono tutti i modi possibili per sfuggire alla dittatura del mainstream. Chi oggi fa polemica contro i dati gonfiati, spesso fa una polemica vecchia: perché l’architrave di questa polemica è che le cose supercommerciali artificialmente gonfiate dal mercato tolgono spazio alla “vera” musica, alla “vera” arte. Poteva essere vero qualche decennio fa, quando i canali erano molto più ristretti e la fruizione di musica era un hobby costoso; perché comprare i dischi – e di certa musica dovevi comprare i dischi, le radio accidenti non la passavano quasi mai – era ed è costoso. Ma oggi? Oggi è ancora così?
La risposta, onestamente, è chiara. Però finché vi attrarrà più un titolo che parla di “Truffa” e fa immaginare i magheggi del “sistema” che un titolo che parla di qualcosa che non conoscete ma che potrebbe piacervi, sarete sempre parte del problema – e non la soluzione. Per quanto ci riguarda, alterneremo sempre nuove proposte ad articoli di approfondimento sui “soliti” noti, alterneremo sempre informazione strettamente musicale ad articoli a più ampio raggio, “sociali”, e se qualche caso di “portineria” ci sembrerà curioso o simbolicamente importante non ci tireremo mai indietro a parlarne. Crediamo in una informazione plurale, in cui ci sia spazio per tutti e tutto. Poi è chi legge che deve fare le sue scelte.
Ripetiamo: è chi legge che deve fare le sue scelte. Esattamente come anche il cosa ascoltare e il cosa supportare spargendo la voce è una scelta. Oggi, più che mai, c’è spazio. C’è, almeno potenzialmente, una pluralità di voci e canali fino a pochi anni fa semplicemente inimmaginabile. Vogliamo sfruttarla e tuffarvicisi dentro, invece di accanirci nel cercare gogne, colpevoli, complotti?
Siamo molto contenti che il nostro Pesce d’Aprile sia andato così alla grande. Onestamente: pensavamo sarebbe stato apprezzato da un migliaio di aficionados, e già ci pareva tanto, invece sta veleggiando verso le trentamila pageviews. Un dato abnorme. Se qualcuno non ha capito subito che era un Pesce d’Aprile, pazienza, ora forse ci arriverà; ma se qualcuno sta usando il nostro articolo per indignarsi ancora di più e fare il cavaliere della “vera” musica e della “vera” cultura, sappia che può usare il suo cavalierato molto, molto, molto meglio.
…e invece di rompere le palle a Big Fish, pensandolo addirittura coinvolto nella “Truffa” solo perché vede il suo faccione in copertina (è successo pure questo…), faccia altro, faccia di meglio: vada ad esempio a godersi il nuovo singolo dei Sottotono suoi e di Tormento, che pochi mesi fa sono tornati con un disco davvero molto bello e ben fatto. Non sono andati al “…primo posto degli ascolti mondiali di Spotify” però ehi, sono stati e sono molto bravi lo stesso. Questo conta. Questo conta davvero.