Londra. Neuchatel. Amburgo. Tokyo. San Paolo. Lione. Guadalajara. Buenos Aires. Seul. Francoforte. Washington. New York. Chicago. Città del Capo. Toronto. Denver. Oakland. Boston. Montreal. Los Angeles. Osaka. Jahannesburg. Reykjavik. Copenhagen. Stoccolma. Santiago del Cile. Bogotà. Hong Kong. Città del Messico. Atene. Istanbul. Lisbona. Fa impressione questo elenco, vero? Stiamo viaggiando veramente ai quattro continenti, e non per modo di dire (manca ancora il quinto, l’Oceania: ma prima o poi potrebbe arrivare il turno dell’Australia). Ecco: sono tutte le città che sono state toccate da festival o eventi a marchio Sónar (…e volendo si potrebbe includere anche Roma, pensando alle belle giornate a nome Sonarsound organizzate assieme a Romaeuropa ancora nel 2003).
Se è vero che il cuore resta sempre a Barcellona, perché tutto da lì nasce ed è lì che si guarda per “sentire” lo spirito-guida, è anche vero che fra i molti motivi che ci sono per amare il festival fondato dalla crew di Advanced ancora a metà anni ’90 – e già questa longevità inizia a diventare impressionante – c’è anche il fatto di aver sempre visto la musica e la cultura elettronica (a cui poi per “contiguità ideale” si sono uniti via via anche l’hip hop e il pop più irregolare) come un fenomeno globale, transnazionale. E quindi: come qualcosa che unisce, come qualcosa che esplora, come qualcosa che non ha confini. Ben prima che l’EDM e il fenomeno-Tomorrowland, macchine da commercio, sdoganassero l’idea della musica elettronica come fenomeno universale, buono quindi per tutti, il Sónar aveva uno sguardo che pochi hanno avuto e in realtà pochi hanno tutt’ora, e di quei pochi nessuno – accettiamo smentite – è riuscito ad avere la stessa popolarità e lo stesso successo di pubblico lavorando non solo sul “già confezionato & già di successo”: uno sguardo che ti portava infatti fin dall’inizio ad esplorare meglio e prima di altri l’elettronica giapponese, quella messicana, le stranezze sudamericane o australiane, l’algidità sulfurea di certa Scandinavia o area baltica. Chi viene a Barcellona a giugno non solo per sfondarsi di alcool ed additivi e soliti nomi (nella parte notturna, o nei vari eventi Off), questo lo sa.
Forse lo diamo per scontato, ma questo è stato fondamentale per arricchire, sprovincializzare, allargare il nostro sguardo, rendendo l’appassionato di musica elettronica uno di quelli dallo sguardo meno standardizzato rispetto al mainstream, in assoluto. E a maggior ragione oggi che i festival stanno diventando sempre più un supermercato in cui trionfano i soliti nomi (…che potete vedere anche al Sónar, non è che siano assenti o banditi: anche il mare di folla ha il suo fascino, la sua portata emotiva, la sua ragione d’essere), è fondamentale mantenere ancora uno sguardo obliquo, “aperto”, in gradi di non impigrirsi solo sugli automatismi e sulle certezze. E’ faticoso, sì, ed è economicamente dispendioso (anche se c’è da chiedersi: meglio spendere poche migliaia di euro per qualcuno che non conosce quasi nessuno e che quindi fai conoscere tu, o spendere troppe centinaia di migliaia di euro per qualcuno che conoscono già tutti?). Ma è fondamentale.
(Lo scorso weekend il Sónar ha felicemente “colonizzato” Lisbona così, in queste venue; continua sotto)
Questo spirito il Sónar lo ha sempre avuto. Sempre. E lo ha avuto prima, meglio e più in profondità di altri. E’ anche per questo che ha potuto e può permettersi di “andare in giro per il mondo” come nessuno, generando in meno di vent’anni quell’elenco di destinazioni che vi abbiamo messo ad inizo articolo e che è, davvero, impressionante. Più che impressionante: unico. C’è infatti una credibilità di base, a muovere il tutto: il Sónar è percepito non (solo) come grande industria che viene a fare business, ma anche e soprattutto come cuore pulsante di una cultura, di un approccio ben specifico, di un’identità internazionalista ma sostenibile, rispettosa, curiosa. Per questo riesce a “viaggiare”, ad essere il benvenuto come “marchio”: perché ti dà l’idea di portare un immaginario che non è legato solo alla massimizzazione dei profitti ma che è anche molto attento a connettere, ad inserirti in un network vasto ed appassionato – un network dove “essere nicchia” va valorizzato e dove al tempo stesso “essere nicchia” non è un bozzolo in cui avvolgersi per essere snob e dichiararsi superiori al mondo, non è una fortezza entro cui nascondersi e disprezzare il resto del globo.
Accidenti se abbiamo bisogno di un approccio del genere, oggi. Perché per fortuna è sempre più chiaro che chi erige muri, chi isola nazioni, chi opera censure, chi rifiuta confronti, chi conosce solo il linguaggio dell’omologazione e della potenza è un nemico. Un nemico che va combattuto aprendo canali di comunicazione, condividendo esperienze, mescolando approcci, trovando il giusto equilibrio tra ricerca e pop, tra purezza e voglia di parlare a più persone possibile, tra immaginario globale e rispetto della specificità locale. Non sarà certo il Sónar a salvare il mondo, o a fermare le guerre; ma siamo abbastanza sicuri che chi frequenta il Sónar barcellonese o i suoi spin off in giro per il mondo (l’ultimo, quello di Lisbona, si è chiuso con un clamoroso successo: quasi 30.000 presenze in un weekend), se lo fa con consapevolezza, sarà sempre e comunque contro il linguaggio della forza, della prevaricazione, della censura, del pensiero unico (da qualsiasi parte esso provenga, da qualsiasi parte venga fabbricato), dell’omologazione.
E’ un marchio che ha una storia, una filosofia, una ragion d’essere. Qualche edizione può venire fuori meglio qualche peggio, qualche escursione all’estero col proprio marchio può essere stata un successo qualche altra un po’ così, ma storia, filosofia e ragion d’essere ormai sono chiare. E sono importanti. Oggi più che mai. Facciamocene consapevoli paladini. E controlliamo sempre, perché il miglior paladino è sempre quello più attento e critico, che non si prendano derive che tradiscano lo spirito originario.