Ogni tanto Meg scompare. E poi riappare. Ecco, non è importante sapere i motivi di questo andamento “carsico” – ogni tanto sono semplicemente le cose della vita, che nemmeno puoi controllare in prima persona, ad obbligarti a farlo – ma è sempre importante ricordare quanto Meg sia un artista che ha segnato un’epoca (uno), ed un’artista che ha comunque uno spessore notevole (due). Il fatto che non sia sempre lì ancorata alle classifiche, alle release, ai dischi, ai play, agli stream non deve farcelo dimenticare. Dagli iconici esordi con la 99 Posse al synth-pop “avanzato” che ha contrassegnato la sua carriera solista e la sua evoluzione, oggi la vediamo tornare in pista con un singolo nuovo, “Non ti nascondere”, in uscita venerdì 29 aprile, che è il preludio a nuovo materiale in arrivo sotto forma di album. Tante le novità, però. Alcune sorprendenti: ad esempio, stare sotto il cappello di Asian Fake (dai Coma Cose a Venerus ad Inoki, una delle più atipiche “unit produttive” attuali nella musica italiana), cosa che viene esplicitata anche dalla collaborazione con Frenetik, che di Asian Fake è uno dei deus ex machina. Non è solo questione peraltro del “con chi” sta collaborando Meg, ma anche del come e del perché lo fa: questo e molto altro in questa lunga, densa chiacchierata.
La prima cosa che ho pensato sentendo il tuo singolo nuovo – per ora ho sentito solo quello – è stata: “Ehi, Meg ha cambiato l’uso della voce. Ora è più lineare, molto più in controllo”.
Davvero, dici?
Beh, questa è stata l’impressione, ecco.
Allora. Le voci di questo pezzo sono le prime, primissime voci che ho registrato per la traccia: le classiche voci-guida che fai per il provino per poi lavorarci sopra, no? Solo che poi più ci tornavo sopra, ricantando il tutto, in uno studio vero e proprio, più sentivo che non si riusciva mai a recuperare quel senso di “intimità” che la traccia richiedeva. Ne ho parlato con Daniele (Frenetik, NdI), e alla fine abbiamo deciso di andare a recuperare proprio quelle primissime registrazioni a cui poi abbiamo aggiunto qualcosa solo nella parte finale, per creare un crescendo sul lead del ritornello; ma tutto il resto che ci senti dentro l’ho registrato io, da sola, col mio Neumann. Che poi c’è una bella storia riguardo a questo microfono…
Ovviamente voglio saperla!
Me lo fece comprare Carlo Rossi.
Grandissimo Carlo.
Che mi disse: “Nana, cazzo, ora basta: devi avere un buon microfono!”. Infatti da sempre avevo l’abitudine di registrare parecchie cose da sola, a casa, ed in effetti già all’epoca l’impressione era che un certo tipo di emozionalità in studio si perdesse; solo che le mie “prime versioni” di qualsiasi cosa erano registrate con microfoni veramente di merda… Carlo ad un certo punto interruppe una sessione in studio proprio per accompagnarmi in un negozio di strumenti musicali a prendere un Neumann serio, professionale: “Bene, da ora in avanti non mi interessa, non hai più scuse: qualsiasi cosa registri, che sia a casa o dove vuoi tu, la devi registrare con questo davanti. Chiaro?”. Accidenti se aveva ragione… E infatti sto seguendo il suo consiglio, anzi, ordine (ride, NdI) ancora adesso. Ma dicevi del controllo in “Non ti nascondere”, giusto?
Esatto.
Ne parlavo con Nziria, un’artista meravigliosa.
D’accordissimo: ne ho appena scritto, la trovo super-interessante.
Sento il suo pezzo. Ne resto incantata. Le scrivo su Instragram per dirglierlo, e lei “Meg, accidenti, che onore! Ma ti andrebbe addirittura di fare qualcosa assieme?”. Lì inizia un “Tu ora dove sei”, “A Napoli”, “Ma dai, anche io”, “Io sono in Via dei Tribunali”, “Io in Via Nilo, siamo attaccate!”, insomma, tempo cinque minuti e ci siamo accordate per vederci e poi abbiamo passato poi almeno due ore a parlare. Ecco: una delle cose che mi ha affascinato di lei è stato proprio il timbro scuro della voce. La verità è anche anche io ho un timbro scuro, di base, ma fin da piccola tutti mi dicevano “Sì, ok, ma potresti andare più in alto” e allora io provavo ad andare più in alto con la voce, con il timbro, sempre di più, sempre di più. Ora, a quasi cinquant’anni, sai che c’è? C’è che mi sono stufata di faticare! (ride, NdI) …voglio cantare in un range che mi sia comodo e sì, il mio timbro mi piace così com’è, quando è al naturale, quando non lo sforzo.
E mi sembra un’ottima cosa. Perché ad esempio uno dei problemi di “Imperfezione” era…
Dimmi, dimmi.
…era che lavoravi tanto, anzi, secondo me proprio troppo, sulla voce. Con molti vezzi alla Björk, per intenderci; e so che questo accostamento tra te e lei è anche una cosa molto banale e se vuoi stupida, approssimativa, spesso è stato usato a sproposito, ma hai capito cosa intendo, no?
Sì, sì.
Qua invece sei andata sull’essenziale. E il risultato mi pare davvero perfetto.
Grazie. Che dire? Come spiegavo prima: forse la vera saggezza è ottimizzare quello che abbiamo, non inseguire quello che di base non siamo, con la scusa di volersi migliorare e salire di livello. Questa cosa di Björk… mmmh… Sai, ad un certo punto ho avuto una maestra di canto, una maestra bravissima sia chiaro; solo che come tutti i maestri, lei vedeva in te più le potenzialità e le “parti mancanti” che quello che c’era già, e ti spingeva a lavorare per arrivarci, a quello che non avevi. Io per prima volevo farlo, eh, io per prima accettavo questa direzione, questo modus operandi; non gliene faccio una colpa. Sta di fatto che facevo insomma di tutto per allargare il mio range, per gestire una serie di virtuosismi ed acrobazie, ci tenevo: mi sembrava che facessi il mio dovere nel tentare di migliorarmi così. Ora però è probabilmente proprio come dici tu, sono più a mio agio, sono più in controllo. Non c’ho pensato consciamente, ma… sì, effettivamente mi sa che è proprio così. E devo dire che non è affatto male come sensazione, e anche come risultato.
Prima citavi Frenetik, che ha un ruolo decisivo in questo tuo ritorno: come vi siete incontrati?
In realtà ci conoscevamo già da anni, solo che io non avevo collegato che lui fosse lui. Mi spiego: c’è stato un periodo in cui praticamente in ogni festival in cui suonavamo c’erano anche i Frank Sent Us. Solo che, accidenti a loro, suonavano sempre incappucciati, facevi fatica a vedere le facce… e poi non abbiamo mai fatto in tempo a presentarci. Molti anni più tardi Daniele mi scrive su Instagram – Instragram è davvero artisticamente galeotto, hai visto? – e mi fa “Sono un tuo grande ammiratore da sempre, mi piacerebbe molto fare qualcosa assieme, se passi da Roma ti va di fare due chiacchiere?”. L’ho raggiunto in studio, gli ho fatto sentire il materiale nuovo a cui stavo lavorando. Il primo in sequenza è stato proprio “Non ti nascondere”. Lui c’è subito impazzito: “Ma è bellissimo questo pezzo, dai, ti prego, facciamolo assieme!”. Poi quando gli ho fatto sentire il resto siamo arrivati al “No, guarda, basta, non accetto discussioni, devi fare il disco con Asian Fake”. Asian è una bellissima realtà, mi piace molto il loro approccio alle cose. Lo vedi proprio che si innamorano di un progetto, e lo portano avanti con amore, fino in fondo. Ci credono davvero. Al di là dei calcoli. Che poi è quello che dovrebbe fare ogni singola etichetta discografica…
…ma…
Ci siamo capiti! (risate, NdI)
(continua sotto)
Tu però eri in cerca di qualcuno per questo tuo ritorno, nel senso di etichetta, di produttore?
Sinceramente? No. Ma quando si è fatta improvvisamente reale la possibilità che invece ci fosse, e lo fosse nella figura di Frenetik e di Asian Fake, ho capito che ne avevo invece bisogno. Tu te lo ricorderai bene: da quando sono uscita dai 99 Posse, tutti i dischi che ho fatto li davo o solo in licenza o addirittura solo in distribuzione, la regola infatti era che il master restasse sempre e comunque mio.
Vero.
Questo perché proprio per principio rifuggevo da tutto ciò che era discografia standard, ne avevo il terrore. E un modo per contestarla, o comunque tenerla a distanza, era il fatto di mantenere sempre la proprietà e il controllo sul master. Che però…
…porta ad un sovraccarico di lavoro enorme, se uno vuole davvero tenere le fila delle cose.
Esatto! Un lavoro che forse, ma non volevo nemmeno ammettermelo, forse non ero più disposta a fare già da un po’ di tempo. Quando poi si è prospettata la possibilità di doverlo cedere sì, ‘sto master, ma a persone che mi piacevano e mi piacciono, un po’ c’ho pensato, vero, ma mi sono presto detta “Al diavolo, io ho bisogno di una squadra!”: ho bisogna cioè di un gruppo di persone che credano nel mio progetto e se ne prendano la responsabilità, non voglio più essere la sola a farlo. E nel momento in cui a volerlo fare c’era un gruppo di persone così entusiaste di me e che già avevano dimostrato negli ultimi anni di voler lavorare col cuore, portando avanti progetti atipici e non standardizzati, mi sono detta che sì, era finalmente il momento di cedere, per potersi concentrare al cento per cento sulla musica. Per essere finalmente libera di essere artista, e basta.
Bel paradosso: sei diventata più libera nel momento in cui hai smesso di voler essere al cento per cento libera.
Proprio così. Per farti un esempio, anche sui singoli che saranno estratti dall’album: mi sono ritrovata a dire “Boh ragazzi, fate voi, mi fido…”. Ma quando mai avrei detto una cosa del genere, prima!
Mai!
(ride, NdI) Meno male che si cresce, e si cambia. Ho capito che è forse molto meglio e più utile utilizzare tutte le proprie energie per la musica e per le creatività, delegando tutto il resto a persone di cui ti fidi e che dimostrano coi fatti di credere in quello che fai, e di conoscere la tua identità, la tua storia. Se uno come Frenetik, uno cioè dei migliori producer italiani contemporanei, arriva da te e ti dice tutte le cose belle che mi ha detto lui, beh, significa che allora qualcosa di buono negli anni ho fatto, qualcosa ho seminato… (sorride, NdI).
Temo proprio di sì. Che poi, guarda, questa cosa della prospettiva temporale, di come passi il tempo e di come vengano percepite le cose che ci fai, è strana. Se ripenso ai Posse o all’inizio della tua carriera solista – che poi è quando ci siamo conosciuti di persona – non mi sembra siano passati più di vent’anni, o giù di lì; e invece… La cosa strana è che personalmente non mi sembra di essere cambiato tanto in questi anni. Come se stessi vivendo ancora quel periodo storico. Capita anche a te?
Vale anche per me, eccome! Come se dal 1994 ad oggi fosse tutto un unico grande giorno, la sensazione è questa! Poi figuriamoci: ora che gli anni ’90 stanno tornando prepotentemente di moda, sono insomma di nuovo “fra noi”, questa sensazione diventa ancora più intensa… A questo mio nuovo album ho lavorato anche con due produttori giovanissimi, i fratelli Fugazza, Francesco e Marco (già all’opera con Ginevra, NdI), e nonostante la differenza d’età mi sono trovata benissimo con loro. Sarà che anche loro sono stati cresciuti da un padre fanatico beatlesiano, esattamente come il mio… Ma poi c’era in loro una fiducia e una curiosità fantastiche. Tipo quando mi chiedevano, ma veramente con una curiosità spasmodica: “Tu allora c’eri quando è arrivata la jungle qui da noi, negli anni ’90… Dev’essere stata una botta… Com’era? Che sensazioni ti dava?”. Ecco, quando mi dicono cose così, beh, capisco che un po’ troppo tempo è passato (ride; NdI)… Mi è toccato quindi raccontare l’arrivo della jungle in Italia e…
…sono quasi trent’anni!
Esatto! Trenta! Capisci? Non dovremmo nemmeno farlo questo calcolo, è terribile…(ride, NdI) …è terribile. Ma, fuori dallo scherzo, inizi a riflettere come in tutti questi anni tu per forze di cose abbia anche imparato a crescere, ad essere più matura come persona. E il fatto che invece certe suggestioni artistiche siano ancora molto vive, nonostante queste tue evoluzioni e maturazioni personali, è una cosa molto positiva.
Specifichiamo queste suggestioni.
Gli anni ’90 sono stati uno tsunami nella scena musicale italiana. Chi c’era dovrebbe ricordarselo, chi non c’era dovrebbe arrivare a saperlo, perché sono successe cose davvero molto interessanti, davvero importanti. Sono gli anni ’90 quelli in cui sono cadute molte barriere musicali; sono gli ‘90 quelli in cui è arrivata l’elettronica in modo diffuso, o in cui è arrivato il campionatore a scompaginare completamente il modo di produrre e comporre. E’ tutto iniziato in quegli anni lì, in Italia. Io di mio non sono nostalgica, difficilmente mi sentirai dire “Ah, quanto vorrei tornare indietro con gli anni”, ma è indubbio che se ripenso a certi anni ’90 non posso che dire, e dirmi, “Wow, che periodo incredibile che abbiamo vissuto!”: musicalmente, socialmente. C’era la sensazione bellissima che potevi – e dovevi! – andare a cercare persone simili a te, e se cercavi bene le trovavi pure, ma questa ricerca era già di per sé un’emozione. Io arrivo dal Vesuviano, dalla provincia quindi, a scuola mia su 1500 ragazzi eravamo solo io ed altre due, tre persone ad essere realmente inscimmiate per la musica, per certi tipi di musica; capisci? Ti sentivi molto solo. Poi, all’improvviso, con l’università, col trasferimento a Napoli, con le prime possibilità di viaggiare e di suonare, ho scoperto che era possibile trovare persone simili a me, coi miei entusiasmi, i miei desideri. Una rivelazione. E sai qual è la cosa più importante, in tutto questo?
Vai.
La cosa più importante è che tutto questo scambio e tutte queste conoscenze avvenivano fuori da spazi prestabiliti e, come dire?, “istituzionali”, “industriali”: eravamo cioè noi che ci stavamo creando il nostro network e il nostro circuito, eravamo noi che ci stavamo creando la nostra estetica, punto. Nessuno ce l’ha imposta o suggerita, fra le major. Anzi, pensa il paradosso (perché allora era un paradosso, mentre oggi è la normalità): sono le major che ad un certo punto sono arrivate da noi a dire “Ma, vi va di fare qualcosa con noi? Vi va se vi diamo un po’ di soldi per farlo?”.
Il che mi fa andare col pensiero ad un’altra cosa. Un’altra similitudine tra il presente e gli anni ’90 sono i grandi cambiamenti e rinnovamenti che si stanno avendo nel suono del pop; e, come sempre accade, questi cambiamenti arrivano “dal basso”, dall’undeground. Ma appunto, riallacciandomi a quest’ultimo tuo discorso c’è una differenza fondamentale tra ora ed allora: all’epoca, se arrivavi dall’underground tu il mainstream lo guardavi con sospetto se non proprio con ostilità, un po’ ci volevi avere a che fare un po’ no. “Avere successo” poteva insomma essere anche uno stigma, anzi, in qualche caso lo era proprio. Oggi, invece, chi parte dal basso vorrebbe subito arrivare al mainstream, ai grandi media, al successo, ai tour nei palasport: è il pensiero immediato, e nessuno ha niente da ridire. All’epoca molte band si vergognavano, quasi, quando gli si presentava l’occasione di suonare in posti che non fossero centri sociali o, massimo massimo, circoli ARCI…
Forse perché eravamo troppo snob, chissà…? Ma è vero: abbiamo volontariamente rinunciato a tutta una serie di cose e di scelte che sì, avrebbero potuto portarci più soldi e più visibilità, e forse siamo stati troppo manichei nel giudicare e nello schierarci, all’epoca, in qualche occasione. Credo però che ci sia una giustificazione molto concreta per le dinamiche che si sono instaurate oggi (e del perché oggi certe cose siano più accettabili rispetto ad allora): oggi, se non vendi dischi – perché girano solo in streaming – e se non hai visibilità ad ampio raggio, come fai a campare?
Giusto.
Se ci penso, nel periodo migliore dei Posse arrivavamo a fare duecento date in un anno: duecento in un anno, ti rendi conto? Eravamo sempre in giro! E oltre a questo, riuscivamo comunque a vendere decine di migliaia di copie di cd. E tutto questo facendo musica di nicchia, non mainstream. Oggi? Oggi nemmeno fare milioni di stream può bastarti, per vivere della tua arte: devi avere visibilità, punto, e deve essere una visibilità proprio mainstream. Devi andare in classifica, devi ambire ai palazzetti, o semplicemente non “esisti”, e non hai altre possibilità di guadagnarti da vivere da quello che fai. Si è alzata vertiginosamente la soglia, insomma. Detto serenamente: ho il sospetto che pure noi, se negli anni ’90 non avessimo avuto così tanti concerti e la possibilità di guadagnare con la vendita dei dischi già di nostro, forse saremmo stati meno snob pur di poter continuare a fare quello che ci piaceva, e quello in cui comunque credevamo parecchio. Oggi è facile criticare e demonizzare i talent, ma io sinceramente mi metto nei panni di questi ragazzi: se ti capita davanti l’occasione che poi ti permette di vivere della tua arte, e sai che molto difficilmente te ne possono capitare altre, come fai a dire di no? Tanto più che mi pare che oggi chi fa musica sia molto ma molto più consapevole su tutta una serie di meccanismi; e se va ad un talent, fidati, lo sa che va incontro ad un tritatutto. Sì che lo sa. Anzi guarda: proprio chi ne è meno consapevole e ha meno spessore artistico per esserne consapevole, è poi quello che ne esce peggio, quello che nulla ottiene, manco il successo effimero. Sta di fatto che le “porte” di opportunità che oggi ti si possono aprire davanti ok, sono forse meno romantiche di un tempo, ma comunque ci entri, le percorri. Ed è più che comprensibile, guarda. Quando ero ragazzina io avevo il sogno di lavorare con la musica, ma non avevo la minima idea di come realizzarlo: bene, la mia “porta” è stata proprio l’incontro con i 99 Posse. Oggi le “porte” sono invece diverse. Ma resta uguale la voglia e la necessità di percorrerle. Se credi in quello che fai, se ami quello che fai.
Bene, dall’alto di tutta questa maturità…
(ride, NdI) Ma che fai, mi prendi in giro!
Ma è vero! E’ un discorso molto posato, consapevole e maturo il tuo…
Ma meno male. Pensa, a quasi cinquant’anni, fare ancora i discorsi da ventenne ingenua… Lì sì che sarebbe un problema! (ride, NdI)
Ok, e quindi, dicevo: dall’alto di tutta questa maturità, che aspettative hai su questo tuo nuovo ritorno?
Preferisco non averne. Anche perché spesso in passato tracce su cui avevo enormi aspettative sono state completamente ignorate, ed altre su cui invece non puntavo molto hanno avuto una diffusione incredibile. Ma io, in generale, ho sempre cercato di limitare verso il basso ogni forma di aspettativa. Mi aiuta il fatto di essere nata da un background davvero “riot”, alternativo e sotterraneo: non mi sono mai posta il problema di dover soddisfare qualcosa o qualcuno, troppo forte era la spinta ideale a fare ciò che facevo – e che non avrei potuto quindi non fare. Ecco, una cosa forse è cambiata rispetto al passato: oggi mi pongo più il problema di poter dare almeno un attimo di sollievo con la musica che faccio a chi mi ascolta. Attorno a me, nella nostra società, a maggior ragione con le congiunture attuali come guerra e pandemia, vedo veramente tanta fragilità, tanta precarietà. Fragilità e precarietà sia lavorative che emotive. La maturità mi ha portato a riflettere quanto la musica possa essere anche solo un semplice sollievo, e quanto questo semplice sollievo – anche solo di cinque minuti – possa essere comunque importante. Un tempo magari non ci pensavo. E facevo male. Finivo col dimenticare quanto io per prima trovassi, nella musica, sollievo.
Mattia Guolo ph, Giorgia Cantarini styling e Serena Congiu Mua