Inutile nascondersi: Coachella è un evento talmente rinomato da non poter lasciare indifferenti, nel bene o nel male. Persino quelli tra i miei amici e colleghi che non sono particolarmente legati alla musica hanno sussultato quando ho menzionato che sì, quest’anno tra le orde di influencer, nomi da cartellone, nani e ballerine ci sarei stato anche io. È curioso come la maggior parte delle volte mi sia quasi sentito in dovere di precisare “…anche se non è proprio la mia cosa…” come a non voler macchiare il mio curriculum di clubber con cotanta faciloneria. Perché diciamocelo, questa immagine di festival pressapochista aleggia sempre un po’ nell’aria quando si parla di Coachella, come se fosse più rilevante la quantità di VIP presenti che la qualità della proposta musicale. Posso in effetti affermare che ad attirarmi verso il deserto californiano, più di ogni altro aspetto, sia stata proprio la voglia di scoprire se questo monolite fosse davvero così artificiale e soprattutto superficiale.
Partiamo dal playground: un country club a pochi chilometri da Palm Springs su cui erano disseminati diversi ambienti, indoor e open air, tra cui ho rimbalzato come la pallina di un flipper per tutto il weekend. I due grandi Main Stage, praticamente uno accanto all’altro, erano quelli che hanno accolto i grandi headliner. Sinceramente da quelle parti ho passato poco tempo se non per la chiusura della domenica targata Swedish House Mafia (gli manca solo la salsa verde e son pronti per essere serviti) featuring The Weeknd (voce fantastica e presenza di grande impatto) e per i live dei Disclosure (grandiosi), Jamie XX (forse un po’ fuori fuoco) e Madeon (straordinario l’impatto visivo, ordinaria la musica). Mi sono rifiutato di farmi fregare ancora da Flume ma una piccolissima parte di me si chiede ancora se non sia stato un errore.
Nel resto della location si trovavano poi una sequela di tenso-strutture di vario genere e dimensione in cui si poteva ascoltare dalla techno al rock al raggaeton e via discorrendo. E qua mi sento di citare un set maestoso degli Ivy Lab, collettivo londinese scoperto in un Sònar de Dia e mai uscito dal cuore, un grandioso Dixon che in una posizione scomodissima fra Chris Liebing e Richie Hawtin ha comunque fatto il suo senza snaturarsi, con quella classe tipica di chi è in grado di adattarsi ad ogni situazione come un camaleonte. Mi fa piacere menzionare i “nostri” Måneskin, che di fronte a un hype made is USA nato da una cover su TikTok (che mondo pazzesco) hanno tenuto più che discretamente il palco facendo andare in visibilio una sala tutto sommato bella piena soprattutto di non italiani. Poi tante scoperte interessanti come il live di Mindchatter, il punk scatenato dei The Chats col pubblico che saliva sul palco per fare stage diving e il cantante li prendeva a calci se tiravano fuori il cellulare per filmarsi, il piacevolissimo DJ set dei Duck Sauce aka Armand Van Helden e A-Trak di fronte a un oceano di gente e sicuramente ce ne sono altri che ora non mi sovvengono. Nel mezzo di tutto questo vagare ho avuto modo di osservare una miriade di stand e installazioni che racchiudevano tutto il microcosmo delle cose utili e meno utili da festival: ristorazione di ogni tipo, merchandising, l’iconica ruota panoramica, varie ed eventuali. Tutto oggettivamente ben curato. C’erano poi delle grandi aree VIP a cui noi poveri non avevamo accesso ma non mi hanno dato l’idea di offrire un’esperienza particolarmente superiore almeno dal punto di vista musicale. Magari c’era un’angolazione migliore per le stories, chi lo sa.
Note logistiche: parcheggio e WiFi gratuiti un grande punto a favore. Gestione degli ingressi impeccabile e praticamente zero code in ogni occasione. La location remota rendeva necessario l’uso dell’automobile ma c’erano anche una miriade di navette per chi alloggiava a Palm Springs o Indio. La camminata dai parcheggi abbastanza breve ma comunque c’era chi pagava dei poveri cristi col rickshaw per farsi trasportare ai cancelli. Unica pecca che mi ha reso la vita difficile i locker esauriti in prevendita: credo sia qualcosa di poco oculato visto che ne avrebbero potuti vendere tranquillamente di più senza dover stravolgere nulla. Ultima ma non meno importante, la questione polvere: all’inizio non gli si dava peso, ma arrivati al terzo giorno eravamo tutti in giro con la mascherina (santo COVID, chi l’avrebbe mai detto) o la bandana in faccia per non peggiorare il mal di gola e la congestione nasale. Una settimana di starnuti neri dopo, posso dire che non sia stata la fine del mondo ma è giusto mettervi in guardia.
In definitiva, quello che mi sento di dire è che Coachella sia esattamente tutto quello che immaginate. Dalla A alla Z. Ci sono le line up che spesso assomigliano a una macedonia male assortita, ci sono i branchi di attention-seeker che passano le ore a farsi foto in posa, ci sono le code spaventosamente lunghe per esperienze assolutamente marginali come farsi fare la manicure o comprare NFT. I prezzi di cibo e bevande sono in linea con quelli del latte in polvere in Venezuela e la qualità degli stessi lascia oltretutto abbastanza a desiderare. C’è tutto tutto tutto quello per cui non ci sarei mai voluto andare. Eppure mi trovo nella scomoda posizione, a distanza di qualche giorno, di non riuscire a trovare un motivo valido per non consigliarvelo.
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OK, forse l’unica cosa che davvero mi ha fatto incazzare è stato che era vietato consumare alcolici e energy drink sui dancefloor. In poche parole: per evitare che i minori di ventuno anni – una percentuale per altro molto esigua – avessero accesso alle suddette bevande, la stragrande maggioranza del pubblico era costretta a ad ammassarsi in delle aree recintate, come i fumatori all’aeroporto, per bersi una cosa e tornare nella mischia invece che godersi un live in pista con un bel bicchiere fresco fra le mani. Alcune di queste aree permettevano se non altro di ascoltare la musica da lontano, altre – come ad esempio il tendone dove c’erano i principali nomi dell’elettronica – non concedevano neanche questo lusso. Personalmente l’ho trovata una follia assoluta e mi sono chiesto che reazione avrebbero avuto in un evento nostrano a un’imposizione del genere. Non era forse meglio chiudere il festival ai minori invece che stravolgere l’esperienza a tutti gli altri? O forse sono io che non sono in grado di divertirmi senza bere? Ai posteri l’ardua sentenza.
Se togliamo questo (grosso) punto interrogativo dall’equazione, posso senza dubbio affermare che Coachella si sia rivelato davvero una piacevole esperienza a tutto tondo. Con una location oggettivamente pazzesca incorniciata dalle montagne, che da il meglio di se durante la famigerata “Coachella hour” attorno al tramonto. Con palchi e impianti audio/video davvero formidabili. Aggiungici una più che rispettabile organizzazione logistica, che in un luogo dove praticamente non esiste trasporto pubblico è un doppio punto a favore. Una spolveratina di farsi un weekend in pantaloncini e canotta senza morire nè di caldo nè di freddo e la ciliegina: un pubblico sicuramente voglioso di fare festa. Perché forse il coefficiente umano era l’aspetto che temevo di soffrire maggiormente: un festival di gente che passa più tempo a chiacchierare e farsi foto che a scatenarsi sotto i palchi, aiuto. Pubblico di Coachella, lasciatemi dire che di festa ne avete davvero fatta parecchia, sopra ogni mia più rosea aspettativa.
Questo nonostante la musica fosse a volte (ovviamente a parer mio) alquanto discutibile, ma tant’è. È stata proprio quella stessa presa a bene ad aver aumentato la voglia di lasciarsi andare anche di fronte a delle onestissime cafonate da gioco aperitivo. E anche se dover assistere a quel maledetto “Uan, Ciu, Tri, For” ogni santissimo drop per tre giorni mi ha affaticato non poco l’apparato riproduttivo, la vibe è stata indubbiamente un fattore apprezzabile a discapito di tutte le inevitabili eccezioni. E in fin dei conti Coachella non chiede di essere riverito per la sua integerrimità musicale, quanto per la sensazione di stare assistendo a qualcosa di unico ed esclusivo, dove tutti vogliono consegnare al prossimo la miglior immagine possibile di se. E raga, ve lo dico: il risultato torna.
Questo vuol dire che ci tornerei ogni anno? Sicuramente no, il panorama europeo vanta moltissimi eventi paragonabili e più facilmente accessibili, sia in termini logistici quanto economici. Alla fine il problema è proprio che questo rimane un festival tremendamente elitario, con un biglietto base da oltre cinquecento dollari, dove su tre giorni bisogna mettere in conto di spendere cifre anche fino a tre zeri se ce la si vuole godere senza riserve. Ne vale la pena? Dipende da come ci si pone: se ci si incazza ogni volta che vi chiedono quindici dollari + mancia per una birra o un gelato, passerete il vostro weekend a maledire tutto l’albero genealogico di Nostro Signore. Se invece accettate il salasso economico come un fardello necessario ai fini dell’esperienza, potrete godervi il resto senza troppi fronzoli. Questo è Coachella, prendere o lasciare.