In realtà pensavamo che non sarebbe stato nemmeno il caso di occuparsene, perché ci pareva una polemica stupida, parecchio stupida. E pure speciosa, sì: visto che la band “contestata” (P38 La Gang) esiste in realtà da un pezzo, Rockit ad esempio ne parlava già mesi e mesi fa, non è che improvvisamente si sia materializzata col concerto dell’1 maggio al Tunnel di Reggio Emilia, perché è da lì e solo da lì che sono improvvisamente divampate le polemiche.
Anzi, a dirla tutta: pensavamo che parlarne avrebbe fatto soprattutto il gioco di quella dinamica per cui funziona più lo scandalo “moralista” che la sostanza, più la polemica che l’arte e la musica. Una dinamica che ci piace zero. Pari a quella di chi investe più nei social media manager che in strumenti, dischi, studi di registrazione, idee. Quindi sì: l’idea originaria era passare oltre, aspettare che la polemica si spegnesse da sola, come tutte le polemiche inconsistenti e/o stupide e/o speciose.
Ma gli eventi stanno precipitando. Sono arrivate addirittura le denunce, infatti: quelle nei confronti della band (“contro anonimi”, dato che la P38 si esibisce incappucciata, ma ora grazie alla CIA, al KGB, alla Stasi ed al Sisde pare che sia stata scoperta l’identità di uno dei quattro), addirittura quella nei confronti del presidente del circolo ARCI che ha ospitato a Reggio il concerto della band, Marco Vicini. Nel frattempo, è uscita una nota ufficiale del circolo in questione, la riportiamo qui:
La prima parte è un po’ lunare e fuori fuoco, quella in cui si parlare di “unire i comunismi”, perché il messaggio implicito pare quasi che sia una cosa tipo “Ok, quello dei P38 è un comunismo un po’ del cazzo, un po’ sui generis, ma non sta a noi giudicarlo, via” che, boh, insomma, anche no, non è tanto questo il punto.
Ora, per capire bene i contorni della faccenda basterebbe ascoltare con un minimo di attenzione e di spirito critico quella fa che fanno i P38: fatelo andando magari sul loro canale YouTube, e fatelo peraltro in fretta, perché intanto sia la pagina Facebook che quella Instagram del gruppo sono state oscurate. C’è chi dice addirittura che sia stata una decisione imposta dall’alto questa della cancellazione degli account, non una libera scelta della band: fosse così, sarebbe gravissimo.
L’arte è (anche) provocazione. Questo è il punto. Certe volte la provocazione è sterile, fatta male; o è disturbante, eccessiva, sguaiata. Succede, eh. In questi casi, se si ha questa impressione, la cosa migliore da fare è: ignorare. Oppure criticare, anche aspramente, sì, ma argomentando in modo sensato. Ripetiamo: sensato. Perché prendere alla lettera quello che fanno i P38, non capire ad esempio cosa significhi accostare “Curcio” a “Gucci” nei testi (e guarda caso, alcuni vecchi rappresentanti delle BR si sono sentiti molto offesi da quanto fa la band: questo non fa riflettere?), è solo un sinonimo di clamorosa ottusità da benpensanti. Oh yes. L’ennesimo passo verso un moralismo peloso e superficiale, incentrato solo sui simboli, sulle parole e sull’apparenza, che se già sapevamo essere bagaglio di un certo tipo di destra (non tutta, per fortuna…), fino a un po’ di tempo fa pareva almeno estraneo alla sinistra, via. Pareva. Ma nulla: da qualche anno a questa parte, da quelle sponde lì ci sanno sorprendere sempre di più e sempre più in basso. Sono lontani i tempi in cui nelle amministrazioni rosse la cultura era vista come un valore importante e necessario proprio perché era una variabile indipendente, spiazzante e in qualche caso pure provocatoria. Anche spesso fastidiosa per i benpensanti, certo; ma poi, guarda caso, va a finire che anni dopo sono proprio i benpensanti che adottano gli spunti più “urticanti” che emergono dall’underground più pericoloso (una volta debitamente levigati, annacquati, istituzionalizzati), e alla fine ci fanno sopra i soldi.
In realtà non crediamo resterà granché dei P38, artisticamente ma anche socio-politicamente parlando. Come già detto la loro provocazione ci sembra un gioco carino ed intelligentino per cinque minuti, e che solleva anche interrogativi interessanti sulla spettacolarizzazione e feticizzazione della lotta armata brigatista negli anni ’70, accorpata alla feticizzazione tipica di certa cultura hip hop contemporanea; ma già al sesto minuto, ecco, questa provocazione mostra un po’ la corda, anche perché il fenomeno della lotta armata ha portato lutti, drammi, interrogativi, stragi, ipocrisie, distorsioni pesanti, “appiattirlo” così ha un valore artistico ed intellettuale fino ad un certo punto.
Che però addirittura saltino fuori denunce, che vengano silenziati dei canali social, che si levi l’indignazione da parte di gente che non ha evidentemente capito nulla ma nulla del gioco intellettual-culturale che sta dietro al rimettere in circolo drappi brigatisti e rime su Moro ad un concerto trap (ad un concerto trap, capite?), ma ciononostante tuona dall’alto di un magisterio autoproclamatosi indiscutibile, ecco, tutto questo è purtroppo tanto avvilente quanto pericoloso.
Magari dei P38 e delle loro rime e dei loro concerti non ve ne frega un cazzo, e tutta questa vi sembra una polemica inutile; ma, parafrasando Brecht, se con lo stesso meccanismo mentale inizia a diventare piano piano inaccettabile che si balli fino all’alba, che ci si droghi, che si parli di psichedelia o di libertà di orientamento sessuale, che si veicoli una musica fatta solo di ritmo e non di melodia (quindi diseducativa, quindi fruibile “solo da sballati”…), allora tempi discretamente bui ci attendono.
Ma magari dite: un conto è difendere i diritti dei gay o della psichedelia, un conto è invece difendere quattro scemi che pur di stupire (ri)mettono in campo l’iconografia della Brigate Rosse? Fate insomma precisa distinzione tra “cause buone” (da accettare, anzi, da incoraggiare) e “cause cattive” (non solo da condannare, ma proprio da bandire per legge)?
Bene: ci attendono tempi allora in cui arte e cultura devono essere funzionali solo ed unicamente alla morale del momento, senza mai sfidarla. Devono insomma solo intrattenere, in ultima analisi. Devono essere rassicurante merce di puro consumo, che non solleva domande, non pone dubbi, non genera pensieri, non interroga tabù. Qua siamo oltre al feticcio della legalità, che già sarebbe discutibile di per sé: qua siamo proprio al feticcio del moralismo, con l’arte obbligata ad essere un barboncino al servizio di ciò che è “giusto” e soprattutto obbligata ad esserlo nel modo più piatto e didascalico possibile.
Un tempo ridevamo dei coglioni – sì: coglioni, avete letto bene – che davano dei “nazisti” ai Laibach, leggendaria band slovena ancora in attività che, per mera e raffinatissima provocazione, nella prima parte della propria carriera si esibiva portando in giro mille riferimenti estetici al nazismo: li ritenevamo dei benpensanti con uno spessore di ragionamento pari a zero virgola poco, quelli che abbaiavano contro di loro e li volevano in carcere, nella Jugoslavia (post) comunista.
Ma vedere che oggi, quarant’anni dopo, si fanno ancora gli stessi errori pure dalle nostre parti, e per giunta si fanno anche e soprattutto in quelle aree politiche che invece un tempo incoraggiavano l’espressione e la libertà dell’arte (ehi: chi vi scrive i Laibach li vide dal vivo per la prima volta proprio a Reggio Emilia, al Maffia), è un brutto segno dei tempi: è segno che il moralismo “suadente&ottundente”, quello cioè che non vuole polemiche, che non vuole contrasti, che non vuole provocazioni, che non vuole ragionamenti ma solo buoni sentimenti e tanti cuoricini inclusivi, sta prendendo troppo piede. Dappertutto. Anche dove prima invece l’humus intellettuale era molto più fertile e consapevole del bisogno di complessità, di problematicità. E non si accontentava della vulgata in arrivo dal Vaticano, o dal Partito, o dallo Stato confindustrial-democristo.
No: non ci avrete, in questa discesa estemporanea verso il moralismo benpensante, verso l’addomesticamento di tutto. D’altro canto, vedi un po’, è proprio per ragioni di “morale” e di “sana cittadinanza” che il putinismo ce l’ha in Georgia come in Ucraina coi gay, col clubbing, con tutto ciò che è irregolare e che “provoca” la parte, ehm, cosiddetta “sana e piena di onorevoli sentimenti” della società. E’ proprio per le stesse, identiche cazzo di ragioni.
Ecco perché ci sentiamo toccati, e scriviamo queste righe: vediamo di non fare la stessa fine, sul lungo periodo. Perché il mondo secondo i Putin, i Kirill, i benpensanti di tutto il mondo, è un incubo. Lo è anche se da noi non ci sono dittatori sanguinari ma solo (per ora) moige e giovanardi e benpensanti di destra&sinistra vari. Quindi siamo ancora a livello di burla: meno male. Ma prendersela coi P38, invocarne la messa al bando ed addirittura l’arresto, è deprimente. E lo diciamo da persone che trovano irritante e stupida tutta la retorica “positiva” attorno alla lotta armata, che resta un momento davvero buio della storia italiana del dopoguerra, un qualcosa che speriamo non torni mai più.
I P38 fanno un gioco a corto respiro. Chi invoca per loro la Digos, le denunce, il carcere, le condanne, la censura ne fa uno a respiro ancora più corto, e pericoloso.