Uno che nel descriversi usa la definizione – testuale – di “superstar DJ, mastermind of the Minus label, entrepreneur, technological innovator, style icon” non è (solo) vanesio; è anche uno molto consapevole dei tempi e dei meccanismi dell’hype mediatico, già. A modo suo, è anche molto sincero: a ripulirsi la facciata poteva insistere solo su dj (magari togliendo il veritiero ma odioso suffisso “superstar”) e sulla Minus, lasciando malignare gli altri sul fatto che il suo successo è diventato così planetario soprattutto grazie alla sua abilità di “entrepreneur” (imprenditore) e di farsi “style icon” (c’è bisogno di traduzione, o la chiediamo a Lady Gaga?).
Non lo puoi criticare, Richie: lui non si nasconde, dichiara quello che fa e soprattutto quello che è. E se può permettersi di fare il gradasso, è perché comunque il supporto dei numeri ce l’ha, e hai detto nulla – piaccia o meno i numeri sono una verità oggettiva, non l’unica possibile ma comunque sono verità. La storia di Plastikman comincia però quando il mito di Hawtin aveva ancora da farsi e anzi, ha contribuito in modo decisivo a plasmarlo. Fa sorridere come oggi un gran numero di fan di Hawtin non sappiano nemmeno di questa sua identità alternativa, fa sorridere amaramente. Non è una nostra supposizione: basti vedere come le prevendite di Dissonanze dell’anno scorso si siano alzate d’improvviso quando è stato annunciato un Richie Hawtin (in dj set), e questo dopo che già da un mese e più era annunciato in cartellone il live di Plastikman, tra l’altro in esclusiva italiana assoluta (mentre Hawtin come dj veniva e viene ogni tre per due).
Tutta ‘sta gente che oggi adora Hawtin probabilmente ignora che il suo carisma attuale si nutre soprattutto di quanto seminato da album come “Sheet One”, “Musik”, “Recycled Plastik”, eccetera. Si nutre di quel rigore visionario, di quell’impatto sensoriale giocato per sottrazione in epoca, quella degli anni ’90, in cui molti, tanti, quasi tutti giocavano invece a chi la sparava più grossa (di bpm, di cassa, di rumore). Ci volevano le palle, per farlo; ci voleva tanto coraggio, e tanto talento.
Ok, queste cose (in parte) le sappiamo. Hawtin il re della minimal techno, eccetera eccetera. Eppure non basta saperle queste cose, bisognerebbe anche riascoltarle: consigliamo a molti infatti di ordinare una copia del cofanetto “Arkives”. Nella sua versione più economica il costo non è nemmeno eccessivo, in considerazione di quello che offre (già abbastanza).
Soprattutto, riascoltando il primo materiale, quello che ormai ha quasi vent’anni, si scopre che è invecchiato davvero poco; ma ancora di più si ha una visione veritiera, cristallina della grandezza di Hawtin. E’ da “Sheet One” che si pongono le fondamenta, è dai primi lavori che si può realmente contestualizzare e realmente capire tutto dell’estetica hawtiniana; è lì che si trovano le coordinate per capire come e dove ha operato il suo cerebralissimo ed efficace “lavoro per sottrazione” sulla techno. Ascoltare oggi Hawtin senza capire da dove arriva, musicalmente, è come guardare un telefilm vedendone solo la puntata finale: può essere anche bella la puntata, ma ti perdi il lavoro profondo sulla caratterizzazione dei personaggi, sul modo in cui la trama è sviluppata, sui motivi di certe scelte di fotografia e montaggio.
Chi ascolta oggi Hawtin senza conoscere Plastikman e magari avendolo visto nei back to back con Villalobos (imbarazzanti quasi tutti, diciamolo: stavano in piedi solo per il carisma dei due, musicalmente era un assortimento pessimo e i due si sgonfiavano a vicenda) probabilmente è entrato nel culto del canadese solo per forza d’inerzia, perché ha percepito l’energia e il carisma che circonda la sua figura. Ma questa energia e questo carisma arrivano da lontano, da molto lontano. E se oggi sono così scintillanti ed efficaci è solo perché, ipse dixit, abbiamo a che fare con un “entrepreneur” e uno che intenzionalmente lavora per essere “style icon” senza sbattersi troppo a rinnovarsi musicalmente; ma se vogliamo veramente andare alla fonte pura della magia, bisogna tornare indietro a Plastikman, e ascoltarselo dalla a alla z. Altrimenti non vale. Altrimenti siamo alla fruizione della minimal techno come della nuova commerciale: una gradevole musica d’accompagnamento per passare una buona serata più o meno edonista.