Proprio ieri scrivevamo di come bisogna saper essere consapevoli che esistano degli “shift” generazionali – e di come sia sano che esistano. Il modo più sbagliato però per declinare questo atteggiamento è creare una (falsa) dicotomia fra vecchio e nuovo, fra ciò che è stato (e non conta più) e ciò che è e sarà (che deve essere l’unica cosa da considerare). Nulla di tutto questo. Noi siamo e sempre saremo la somma di tutte le nostre esperienze e suggestioni: passate, presenti e future. Saper guardare avanti, e andare alla ricerca di nuove sensibilità e nuovi riferimenti, non significa buttare a mare e lanciare nell’oblio alcuni passaggi storici fondamentali, per la cultura legata in Italia al clubbing e in generale alla musica “nuova” (o “avanzata”, per prendere in prestito la definizione sonariana).
Men che meno adesso, che nubi strane si addensano all’orizzonte e si parla un po’ troppo spesso di regressioni sui diritti, sulla libertà, sulla creatività (e lo si fa sia a destra che a sinistra, a scanso di equivoci). Proprio ora infatti bisogna rivendicare con forza espressioni artistiche ed imprenditoriali che anni fa sono state in grado di creare e diffondere alfabeti nuovi, nuove forme di socializzazione culturale, nuove professionalità, nuovi stimoli. E’ un fuoco che non dobbiamo lasciar mai spegnere, e che va coltivato. Ecco perché ci sentiamo con forza di sostenere la petizione che è stata lanciata dal nucleo storico dell’esperienza veronese di Interzona.
Per chi non lo sapesse: a partire dai primi anni ’90, Interzona è stata una esperienza di intelligenza ed impresa collettiva che ha strappato dal nulla e dal degrado gli edifici nell’area dei Mercato Generali della città scaligera (a sud della stazione Porta Nuova, vicino ai quartieri fieristici) occupandoli con concerti, incontri, laboratori, rappresentazioni teatrali. Il tutto con delle scelte di qualità altissima, assolutamente fuori dagli automatismi di mercato e anzi con la meravigliosa capacità di “guardare avanti”. Per intenderci: Interzona era una specie di “piccolo Link”, per Link ci riferiamo a quello storico e visionario di Via Fioravanti. La sua prima sede tra l’altro era di un fascino assurdo, ex celle frigorifere dove c’erano ancora in giro i grandi ganci a cui appendere le carni e, a coronare il tutto, una cupola ad ampio respiro. Unico problema: l’acustica, non proprio eccellente. Ma amen. Il contesto pazzesco faceva perdonare tutto.
L’hip hop quando era ancora nicchia in Italia, l’elettronica cercando non la dance caciarona ma le scelte più illuminate e sofisticate (molti tour erano smezzati con realtà come il Maffia o lo stesso Link), il post rock quando era la frontiera dell’eleganza e del coraggio; e poi ancora l’indie più vero, l’electro più urticante, il jazz più irregolare. Questi i campi musicali su cui Interzona ha agito, con coraggio pari alla competenza (…e di coraggio, ce ne voleva tanto). Un totale di quasi 700 concerti, contando anche quelli nella nuova sede sempre nella stessa area (meno affascinante architettonicamente, eccezionale come resa acustica). Con la musica e non solo, Interzona ha connesso Verona e molti veronesi con l’Europa, con le pratiche culturali più illuminate che negli anni hanno dimostrato, su scala globale, di essere quelle che più e meglio (ri)valutano un territorio a livello di percezione esterna, almeno fra le generazioni più dinamiche ed avvedute. Quelle che appunto le grandi capitali si contendono e cercano di attrarre. Tanta gente è arrivata da fuori, tanta gente ha potuto conoscere o vivere meglio una città che è sì bellissima, ma che troppo spesso rischia di chiudersi in se stessa (dando ragione ai peggiori luoghi comuni che la circondano, che sono solo una minima parte della verità e della realtà).
Interzona ha fatto da stimolo. Per chi ci è passato, ma anche per chi non lo ha fatto. Ha seminato il virus della cultura, della ricerca, del gusto dell’esplorazione. Ha appunto riqualificato delle aree che altrimenti sarebbero rimaste vuote, impresenziate, sempre più in decadimento. Per comodità politica, e per far digerire la pillola di una colossale opera di riqualificazione che poco o nulla concede alla cultura e quasi tutto invece alla speculazione immobiliare, sono anni che che viene somministrata la versione per cui Interzona non sia mai esistita, non abbia mai fatto o rappresentato nulla nelle vite delle persone e dei suoi visitatori (veronesi e non). E’ una colossale scemenza, una criminale scemenza.
Per ribadire quanto sia tale, è stata lanciata una petizione che invitiamo caldamente a sottoscrivere – e che già nel giorno del lancio ha polverizzato il suo obiettivo iniziale (500 firme, or l’asticella è stata già raddoppiata). La trovate qui. Quando Interzona era attiva ogni tanto, specialmente nei primi anni, potevamo avere da ridire su certi atteggiamenti, su certe rigidità, su un certo tipo di chiusura; ma erano solo i rimbrotti di chi l’esperienza l’amava ed ammirava a dismisura. Non solo col senno di poi ma anche col senno di allora, è stata una esperienza culturale e sociale all’avanguardia, piena di valori morali e – scusate il cinismo, ma qualcuno capisce solo questo linguaggio – anche imprenditoriali. Solo persone senza cultura e/o con la coscienza sporca possono cancellare nei propri discorsi questa esperienza, durata dal 1992 al 2016, come spazio fisico (mentre il collettivo è ancora attivo, con varie ed interessanti proposte di taglio più piccolo). Facciamoci sentire: difendiamo i nostri patrimoni comuni. Anche quando si tratta di difenderne solo la memoria – è decisiva pure quella. Eccome se è decisiva. A maggior ragione se è forte la voce di chi vuole farci tornare indietro di decenni coi diritti e con le prospettive sociali e culturali.