Senza girarci troppo attorno: c’è un reale problema di ricambio generazionale, nella galassia del giornalismo e dell’informazione musicale. Ci sono mille motivi per questa deriva: le economie sempre più stantie dell’editoria in generale, il fatto che gli artisti hanno deciso che è meglio comunicare scintillanti e senza contraddittorio sui propri social invece che confrontarsi coi media, il fatto che i media stessi – come conseguenza di questi primi due fattori – ormai si limitano a fare “professione riporto” (in senso canino) invece che “professione reporter”, perdendo così autorevolezza. Il giornalismo musicale, che è economicamente più fragile di altri, soffre ancora di più di questi epifenomeni – è fisiologico.
Però bisognerebbe capire che l’informazione musicale, anche nei campi “nostri”, è un tesoro. Una risorsa. Una chiave per capire ed apprezzare meglio ciò che amiamo (…o per capire ed apprezzare meglio perché ci sono cose che invece non ci piacciono). Se fatto bene, dà più profondità all’esperienza. Se fatto bene, è la cronaca non solo degli eventi, ma anche una cartografia vivida e pulsante delle nostre passioni – un bellissimo punto di riferimento, insomma, che dovremmo tenerci stretto.
Ci sono per fortuna ancora molte firme validissime che scrivono di musica. Gente con polso e personalità (e capacità sia d’analisi che di scrittura). Moltissime ne trovate nei giornali cartacei specializzati ancora in edicola (a partire da Rumore e Blow Up), qualcuna anche sul web. Sarebbe bello però, appunto, che ci fosse più cambio generazionale. Ma di sicuro c’è ancora molta bravura in circolazione. Uno dei punti di riferimento assoluti, per chi segue musica “alla Soundwall”, non può che essere Giorgio Valletta. Storica firma di Rumore, co-fondatore di Club To Club, oggi meraviglioso selecter di affilatissime novità in un apputamento settimanale sulla splendida Radio Raheem. Ecco: proprio con Radio Raheem (e con qualche fiancheggiatore “tecnico”) Giorgio si è unito per farci un meraviglioso regalo. Un regalo a nome “Forgotten Tapes”. Di che si tratta, lo racconta lui stesso in questa intervista che pubblichiamo nel giorno in cui viene lanciato ufficialmente il nuovo episodio del podcast, quello dedicato ad un gruppo da noi amato a dir poco: i Chemical Brothers.
Come è nata l’idea di “Forgotten Tapes”, quale è stata l’epifania, ideale o pratica&materiale?
Il punto di partenza è ovviamente il mio background radiofonico e giornalistico. Ho iniziato a fare radio da molto giovane, nel 1984, a 17 anni, e quasi subito mi sono buttato a intervistare gli artisti che mi piacevano, intrufolandomi nei camerini dopo i concerti a cui assistevo (quando ancora si poteva fare senza rischiare di essere sbattuti fuori all’istante…). Così, nella seconda metà degli anni 80, ho intervistato un po’ tutta la scena italiana “alternativa” e indipendente dell’epoca, dai Litfiba allora emergenti ai Denovo ai CCCP (l’intervista che è andata online pochi giorni fa è solo la mia seconda in ordine di tempo). Dopo aver fatto strada nelle radio torinesi (con l’approdo a Radio Flash nell’88), nel 1992 ho iniziato a scrivere sull’allora neonato mensile Rumore. Per ovvi motivi tecnologici, tutte le interviste che ho realizzato in quegli anni sono state registrate su cassetta. E molti anni dopo, mi sono trovato a pensare cosa potessi fare di questo archivio. Si tratta di circa 120 interviste, alcune di queste sono oggi di interesse molto relativo, ma altre sono vere e proprie testimonianze di importanti percorsi artistici in evoluzione. Con gli amici di Radio Raheem (con cui collaboro dalla nascita di tale esperienza, nel 2017) abbiamo pensato di farne un format, ovviamente dopo aver digitalizzato tutte queste cassette. Michele Rho, che ha ideato e coordinato il progetto, ha pensato subito alla forma del podcast, ideale per la sua fruizione.
E’ più un regalo per appassionati di vecchia data o una possibile via per capire meglio, attraverso le parole del passato, la musica del presente?
Credo che sia entrambe le cose. Mi pare che sia un modo efficace per raccontare artisti e scene che hanno caratterizzato l’attualità musicale di quegli anni e a cui oggi forse viene finalmente data la giusta rilevanza. E poi abbiamo cercato di “raccontare” quelle interviste, grazie a un accorto lavoro sui testi a cui ha collaborato Teo Segale, oltre a Guido Guenci, aggiuntosi al gruppo di lavoro per la seconda serie. Cioè di contestualizzarle nel momento in cui sono state realizzate e di analizzarne degli elementi con lo sguardo di oggi.
Delle interviste pubblicate fino ad oggi, qual è quella a cui sei personalmente più affezionato? Non ti chiedo la migliore, la meglio riuscita, ma quella a cui per motivi veramente emotivi sei più legato.
Forse quella con PJ Harvey, perché è simbolica di vari aspetti. Era il novembre 1991, mio terzo viaggio in assoluto a Londra (nel giro di pochi mesi) e avevo sentito qualche suo pezzo su BBC Radio 1 da John Peel, restandone colpito per l’originalità e personalità. Coincidenza volle che lei suonasse con la sua band in un piccolo pub londinese proprio mentre ero lì, e andai a sentire il concerto. Alla fine mi avvicinai e le chiesi un contatto: allora non c’erano mail o social network (internet era un esperimento allo stato primordiale e per pochissimi), e ovviamente mi diede il suo numero di telefono (di casa) oltre a consigliarmi di contattare la Too Pure, sua etichetta di allora. Poche settimane dopo mi giunse la proposta di scrivere per una nuova rivista, Rumore, e quando Alberto Campo mi disse di provare a pensare a un nome emergente su cui puntare per un’intervista, il suo nome fu una scelta quasi scontata. Quell’intervista telefonica, combinata un po’ fortuitamente e realizzata alla vigilia dell’uscita del suo primo album “Dry”, apparve sul numero 1 di Rumore, pubblicato nel marzo 1992, sebbene in forma sintetica. E oggi la si può ascoltare per intero nella prima serie di Forgotten Tapes.
Le recensioni non se la passano tanto bene: sempre meno, sempre meno lette, almeno fino ad una eventuale inversione di tendenza. Le interviste invece in che stato di salute sono?
Non saprei, io continuo a scrivere molte recensioni e mi sembrano un mezzo efficace per descrivere un disco, raccontare talvolta artisti nuovi ed esprimere il mio gusto personale. Su Rumore il loro numero non è diminuito e i riscontri dei nostri lettori ci confermano che si tratta quasi sempre della sezione più letta del giornale. Credo che molto dipenda da come vengono fatte e dell’attendibilità di cui gode chi le scrive. Per quanto riguarda le interviste, io attualmente prediligo farle nel formato radiofonico, mi pare che sia interessante per chi le ascolta poter cogliere delle sfumature che nella versione trascritta a volte si perdono. Negli ultimi 3 anni, ho intervistato per Radio Raheem molti artisti (fra cui parecchi nuovi o emergenti), a rappresentare un po’ tutto l’universo musicale attuale in cui mi ritrovo. Cito alla rinfusa: BadBadNotGood, Charlotte Adigéry & Bolis Pupul, Makaya McCraven, Koreless, Tirzah, Wu-Lu, Jockstrap, Emma-Jean Thackray, Space Afrika, Maria Chiara Argirò, Helado Negro, Adrian Younge, Arlo Parks, Dawn Richard, Bicep, Sudan Archives, Lido Pimienta, Shygirl, India Jordan, oltre a “big” come Mace, Nu Genea, Kruder & Dorfmeister, Soulwax, Róisín Murphy, e Oliver Sim degli xx. Poi ci sono gli artisti che si negano, o che preferiscono centellinare le interviste concesse, ed è un fenomeno purtroppo in crescita negli ultimi anni.
Come fai a mantenere ancora intatta la passione e la voglia di cercare e presentare novità, dopo tutti questi anni? Ti è mai capitato di pensare nell’ultimo decennio “Eh, però un tempo era meglio…”?
Ecco, per me è naturale continuare a interessarmi alla musica che viene fatta e pubblicata oggi. trovo che ci sia tantissima qualità anche in questo 2022. Immagino che per molti la cosa più difficile sia scovarla. Bisogna dedicare molto tempo alla ricerca e selezione di quel che ritieni davvero valido, perché la quantità di produzioni immesse sul mercato – anzi: sulla rete – è davvero enorme. La voglia non mi è ancora passata, e forse mi è da stimolo fondamentale il fatto di avere un programma radiofonico settimanale composto, per mia scelta, sempre e solo da novità. Per dirti: ho iniziato pochi giorni fa a compilare la consueta classifica di fine anno per Rumore e nei miei 10 dischi preferiti del 2022, per ora, ci sono cinque album di debutto.
Prima di parlare coi Chemical Brothers eri emozionato, preoccupato o serafico ed indifferente?
In genere sono sempre un po’ teso prima di un’intervista, all’epoca lo ero anche di più. Spero che i miei interlocutori siano disponibili e che abbiano voglia di parlare, di raccontarsi. E poi cerco di prepararmi almeno 10-12 domande o spunti sufficientemente validi e ampi. In generale, mi sento più rilassato se c’è qualche scambio ironico e amichevole: un sorriso aiuta sempre ad allentare la tensione. C’è un’intervista che mi ha davvero messo in crisi, fu nei primi anni ’90 con J. Mascis dei Dinosaur Jr, e credo di non esser stato l’unico giornalista ad aver avuto questo problema. Le sue risposte erano lapidarie: “Yes“, “No” o “I Don’t Know“, nessun altra possibilità o sviluppo. Si animò soltanto quando gli chiesi come amava trascorrere il tempo libero, iniziando un lungo racconto sulla sua casa in montagna in cui si immergeva nella visione delle soap opera…
Mediamente, i musicisti che tipo di persone sono? E’ possibile tracciare almeno un vago tratto comune tra loro?
Posso dirti la percezione che ne ho io. Artisti ovviamente. Dunque persone che sentono una forte esigenza di esprimersi e di sottolineare la propria personalità attraverso la loro arte. Per questo è fondamentale rispettare il loro lavoro, cioè ascoltarlo e cercare di cogliere le sfumature, oltre a conoscere la loro biografia. Non importa se ascoltando un brano e analizzandolo percepisci qualcosa che non era nelle loro intenzioni, per un musicista il più grande complimento che possono ricevere da un intervistatore è che quest’ultimo abbia prestato la propria attenzione al loro disco. Quando sento qualcuno rispondermi: “Ah, ma allora l’hai ascoltato davvero!” è molto appagante per me. Al contrario, fare domande sciatte o di routine (come purtroppo capita di leggere o ascoltare a volte) è segno di imperdonabile superficialità.