È diventato quasi uno sport, irridere il giornalismo. Sì, anche quello musicale. Quello più ancora di altri. “Non legge più nessuno”, “Ah ma dai, quella rivista esce ancora?”, “Le recensioni sul web fanno schifo”, “La qualità è inesistente”, “Ma chi vi caga”, “Si parla solo di puttanate per raccogliere clic”. Ora, al di là del fenomeno affascinante di chi a parole condanna da lettore il giornalismo superficiale e più “da gossip” ma poi nei fatti legge e commenta solo ed unicamente quegli articoli lì, c’è molto di vero. Oh sì, senza nascondersi dietro niente e nessuno: c’è molto di vero in tutto questo.
Il problema nasce da lontano. Ed è un problema costruito su un altro problema, nel caso del giornalismo più specificatamente legato alla musica.
Nel senso: ormai la crisi dell’editoria in senso lato è un dato di fatto: per mille motivi, la gente è (…per ora?) sempre meno propensa a pagare per avere dell’informazione. Questa è l’incontrovertibile realtà fattuale. Una china che è stata assecondata fin dal giorno uno dall’informazione stessa, che magari anche in buonafede – con l’idea cioè di trovare strategie per sopravvivere e non scomparire – ha iniziato ad abbracciare una serie di mosse che si sono rivelate, col senno di poi, una lunga promenade verso la disfatta. Oh sì.
Tutto è iniziato, ormai più di una ventina d’anni fa, con gli inserti, i regali, gli album di figurine allegati ai quotidiani: quello è stato il primo segno di crisi, la prima ammissione di “L’informazione non basta, ci vuole qualcos’altro per spingere la gente ad andare in edicola col portafogli in mano”. Poi, passato questo periodo, perché la droga degli omaggi come tutte le droghe produce assuefazione e dopo gli iniziali effetti è diventata irrilevante come motivazione all’acquisto in quanto data per scontata, è arrivato il momento della free press. Ah, la free press!
Già? Ve la ricordate? Sopravvive oggi ancora qualche rifrazione (pure di qualità, vedi da noi Wu Magazine), ma c’è stata una fase in cui eravamo inondati di magazine e finanche di quotidiani gratis, soprattutto se si viveva nella grandi città (ma non solo in quelle, non solo in quelle). In questa maniera è stato dato definitivamente il via libera all’idea che l’informazione possa essere gratis senza che si offenda niente e nessuno, anche se la carta costa, la distribuzione pure e i giornalisti devono – o dovrebbero – essere pagati. Vi è mai capito di pensare che le scarpe possano essere gratis, i vestiti possano essere gratis, la birra al bar o al concerto possa essere gratis? No, eh? Ecco. Improvvisamente, con un bombardamento di carta ed anche con contenuti spesso di qualità più che accettabile, è stata ufficializzata questa cosa per cui l’informazione la si può avere senza sborsare niente di nulla. Miracolo! …sì, un miracolo dal retrogusto molto amaro, lo si è capito in fretta.
Era infatti un modello che si basava su un principio molto semplice: far pagare tutte le spese agli inserzionisti pubblicitari. Sostenibile, ed in effetti per qualche anno ha retto ed è sembrato anche la soluzioni a tutti i mali, fino a quando non è arrivato internet a prendersi fette sempre più larghe di investimenti in advertisement. Ma in realtà pericolosissimo, anche se lì per lì non l’ha fatto notare quasi nessuno: perché in questa maniera il prodotto editoriale abbandonava – almeno in potenza – ogni forma di indipendenza reale, delegando il suo sopravvivere ai voleri ed alle esigenze di realtà non editoriali come i marchi commerciali (…il marchio commerciale, come è giusto che sia, fa i suoi interessi). Sia chiaro: è positivo che i brand investano in editoria. Lo riscriviamo, a scanso di equivoci: è positivo che i brand investano in editoria. È infatti un modo “virtuoso” di farsi notare, di sicuro molto più civicamente ed eticamente “virtuoso” del comprare degli spazi su tabelloni pubblicitari, ma anche del coprire di soldi qualche testimonial più o meno virtuoso, più o meno viziato, che deve solo sorridere di fronte ad un obiettivo e dire du’ vaccate banali.
È un gioco che però ha senso ed è safe al 100% solo se gli investimenti pubblicitari sono una parte del fatturato annuo, e non la sua interezza. Già, diciamolo. Perché arriverà sempre il momento in cui giornalisticamente vorresti andare contro gli interessi di un tuo inserzionista di peso (o almeno: non assecondarli del tutto), ma lì scoprirai di essere sotto ricatto. Devi frenare, devi limare, devi tacere. Questo indubbiamente impoverisce la qualità del giornalismo, e titilla la populista fòla dell’informazione ormai tutta venduta e non affidabile. Non è così – ci sono molti giornalisti in tutti i campi con un’etica forte, o comunque attenta a non sbracare – e inoltre i primi colpevoli di questo trucchetto restano sempre non i giornalisti pavidi, ma i lettori che hanno permesso che anche i migliori giornalisti restassero indifesi non sovvenzionando il loro lavoro, ma aspettando che lo facessero terzi. Quindi chi fa il populista che critica i giornalisti di essere ormai solo dei venduti e dei corretti, sappia che in realtà sta dando dello scemo prima di tutto a se stesso. Soprattutto se, per avere dell’informazione decente, sono vent’anni che non sborsa un euro.
Tutto chiaro? Vi torna tutto? Bene.
Mai come ora le etichette, i management, le agenzie, gli artisti stessi si sentono in diritto di chiedere che un articolo venga letto prima di essere pubblicato, e pretendono correzioni. Mai come ora etichette, management, agenzie ed artisti stessi hanno preso ad inalberarsi per ogni minima increspatura non adorante e non adulatoria di quanto viene scritto e comunicato. Mai come ora etichette, management, agenzie ed artisti stessi pensano che l’unica informazione corretta sia quella che decidono loro e fanno circolare loro – e tutti gli altri (i media tanto quanto i fan) ciccia, si devono adeguare, sennò non hanno capito niente di come girano le cose oggi.
Dicevamo – non ce lo siamo dimenticati, eh – che il giornalismo nello specifico musicale fa e sta pure peggio, poveraccio: perché vive infatti su un problema al quadrato, ovvero un problema-su-un-problema. È presto detto il motivo. Un tempo il giornalismo musicale, unica fonte di informazione per orientare i propri comportamento d’acquisto assieme alle radio e in parte alla tv, muoveva interessi miliardari. Vendeva ai lettori, ma gli stessi grandi gruppi industriali avevano interesse che i giornali musicali fossero autorevoli ed in salute, di modo da mantenere vivo l’interesse e la propensione alla fandom ed all’acquisto dell’audience di riferimento. Che era (ed è!) amplissima. Solo che all’epoca si pensava che questa audience non era condizionabile (solo) dalle marchette e dalle veline, ma da una informazione un minimo credibile ed affidata a gente ritenuta un minimo esperta.
Poi che è successo? È successo che il gratis è arrivato anche nella musica, è successo che si è diffusa l’idea che i solo i coglionazzi rintronati pagano per un disco quando invece è così facile averlo gratis; insomma, le vendite i giri d’affari sono andati a picco.
L’industria musicale però ha saputo riorganizzarsi, il capitalismo si sa è tutto tranne che scemo o arrendevole: ha capito dopo una serie di passi falsi e false piste che invece di combattere lo streaming doveva semplicemente colonizzarlo, per poi tornare a farci dei soldi.
Guardateli, i bilanci delle major: sono quasi tutti floridi. Sono tornati ad esserlo, alla grande. Come mai, visto che di dischi e cd ormai se ne vendono gran pochi?
Risposta: perché grazie allo streaming sono tornati ad estrarre dei valore dallo sterminato catalogo in loro possesso.
Un tempo da un album o da una canzone potevi estrarre valore quasi solo quando lo vendevi sotto forma di supporto fisico e stop, da lì in poi era un’entità infruttifera; oggi anche le frazioni di centesimo per ogni stream, che a noi e agli artisti stessi suonano tanto irrilevanti, contribuiscono a nutrirei il fatturato dei conglomerati discografici più grandi e strutturati. Sparando dei numeri a caso: se hai in catalogo 100.000 dischi usciti negli ultimi 50 anni, anche solo prendendo 1 euro di streaming senza alzare un dito – parliamo di una media complessiva, c’è chi streame di più chi invece di meno – comunque aggiungi dopo 365 giorni un bel 100.000 euro al tuo conto in banca. Senza aver fatto nulla. Senza aver dovuto investire praticamente niente. Poi chiaro, le cifre reali sono diverse e ci sono voci, divisioni e questioni molto più sofisticate; ma è per farvi capire il meccanismo.
Le major si sono salvate, l’informazione attorno alla musica invece no. Chiaramente, non è che quest’ultima sia stata abolita per legge o da un editto fascista, ne circola infatti ancora in discreta quantità: ma semplicemente il fatto di avere sempre meno risorse a disposizione – perché pagare per l’informazione? E perché pagare per un’informazione musicale di qualità, quando se un disco è buono o meno lo posso giudicare io stesso ascoltando in prima persona a costo zero? – ha progressivamente diminuito la professionalità prima, e la qualità poi, di chi scrive di musica. Grazie al cazzo che le nuove generazioni scrivono sempre peggio, e che c’è sempre meno ricambio di qualità: un tempo iniziavi a scrivere di musica e potevi coltivare la speranza di farne il tuo lavoro, prima o poi, dopo la giusta gavetta; oggi è già un miracolo se ci alzi qualche centinaia di euro al mese (ma un miracolo vero; perché per il resto, il giornalismo soprattutto musicale ha ormai il gratis come regola), quindi insomma, sarà sempre e comunque un hobby, ci dedicherai sempre il giusto tempo e il giusto impegno, e lo farai a seconda della tua etica da un lato e delle tue possibilità materiali dall’altro (…i migliori e più preparati giornalisti musicali si preparano ad essere solo quelli ricchi di famiglia che vivono di rendita o giù di lì?).
Ma poi, perché sbattersi? Perché sbattersi a scrivere un articolo intelligente e ragionato di 10.000 battute, che ti porta via ore di scritture e giorni di ricerche e prove, quando Nina Kraviz in bikini o Peggy Gou griffata o Diplo a torso nudo che scrivono “Hello, friends. Yesterday was a blast” radunano decine di migliaia di views, di attenzioni e di entusiasmi, mentre a te ti cagano solo tre nerd incagniti, e forse ormai manco quelli?
La qualità del giornalismo musicale sarà anche diminuita, ma la qualità delle abitudini del pubblico – scusate – è colata a picco. Diciamolo, santiddio. Uno potrebbe dire: è un classico caso di “è arrivato prima l’uovo o la gallina?”.
Ovvero, questo il dubbio: la gente ha iniziato a seguire solo Instagram e le stupidate perché il giornalismo fa schifo, o il giornalismo fa schifo perché ormai tutte le risorse e l’attenzione sono destinate ad Instagram ed alle stupidate?
Qualsiasi sia la risposta, restano forti le responsabilità di chi abbraccia l’idea che una informazione fatta bene sia oggi qualcosa di irrilevante e, in ultima analisi, senza particolare valore. Ma c’è anche qualche responsabilità in chi ritiene che pure una informazione fatta così così sia in ogni caso meno valida delle didascalie sui social e dei comunicati stampa telecomandati, ma che arrivano direttamente dalla bocca dell’artista (o del suo social media manager, ma questo diciamolo sottovoce).
Il processo degli ultimi decenni, quello in cui – grazie anche al web – tutti si sentono esperti tanto quanto gli esperti, tutti si sentono preparati su argomento tanto quanto chi ci ha studiato e ci ha lavorato per anni, ha poi un po’ avvelenato i pozzi. Attenzione: è stato un processo anche benefico ad un certo punto: perché l’informazione ufficiale era (ed è?) sempre più una velina, sempre più pavida, sempre meno attendibile, vero. Ma il rimedio – fidarsi degli influencer, e intendiamo “influencer” in senso lato, è “influencer” anche chi spara una vaccata sul web – è stato peggiore del male.
Bene. Siete arrivati fino a qui? Bravi. Non siete fra quelli che credono alla puttanata che sul web valga la pena scrivere solo cose brevi e semplificate.
Vi ricompensiamo arrivando al punto più importante di questo articolo: il giornalismo musicale è quindi malmesso, per i motivi di cui sopra, ma pur essendo clamorosamente malmesso non è mai stato così temuto ed ostacolato come ora. Eh già.
Incredibile, ma vero.
Mai come ora le etichette, i management, le agenzie, gli artisti stessi si sentono in diritto di chiedere che un articolo venga letto prima di essere pubblicato, e pretendono correzioni. Mai come ora etichette, management, agenzie ed artisti stessi hanno preso ad inalberarsi per ogni minima increspatura non adorante e non adulatoria di quanto viene scritto e comunicato. Mai come ora etichette, management, agenzie ed artisti stessi pensano che l’unica informazione corretta sia quella che decidono loro e fanno circolare loro – e tutti gli altri (i media tanto quanto i fan) ciccia, si devono adeguare, sennò non hanno capito niente di come girano le cose oggi.
Tutto questo è una merda.
Se siete lettori senzienti, se siete persone che non accettano di farsi trascinare in giro con l’anello al naso (anche se un septum, anche se siete in console in quel club prestigiosissimo di Berlino o di Ibiza…), questa situazione vi dovrebbe fare orrore, vi dovrebbe indignare: perché etichette, management, agenzie ed artisti stessi vi stanno trattando come scemi. Vi stanno trattando come persone suggestionabili, che devono leggere solo testi super-positivi e super-preconfezionati, sennò chissà cosa pensano. E stanno pure trattando se stessi, occhio, come realtà “superiori”, diciamolo. Realtà che possono ed anzi devono decidere cosa pensa la gente: di modo da prendersi la fascia di mercato più ampia possibile.
Il giornalismo musicale, anche oggi che conta un quinto rispetto a prima, fa quindi ancora paura, anzi, fa più paura rispetto a prima. È assurdo; ma deriva dal fatto che si è diffusa la convinzione che l’informazione non allineata non possa esistere manco più, non abbia più senso. L’informazione è tenuta spesso artificialmente in vita dagli inserzionisti, dai management ed agenzie stesse degli artisti o degli eventi: che ti pagano il viaggio, ti permettono l’intervista, e in cambio si aspettano che tu sia una pedina al loro servizio, eccetera eccetera. Capita in ogni campo dell’informazione, pure la più alta ed altolocata, capita tantissimo pure nel mondo del clubbing. Soprattutto ora che il clubbing è una industria matura, che muove interessi non di second’ordine ed attira imprenditori che sentono più il profumo del denaro che quello dell’arte.
Faccio un esempio personale, senza fare nomi e dare riferimenti precisi, anche perché è una realtà che nonostante tutto continuo a stimare: mi è capitato di scrivere cose sostanzialmente positive ma con qualche critica di un evento specifico, un evento a cui ero stato invitato e per cui mi avevano pagato le spese di viaggio e pernottamento. Bene, pare che chi abbia messo a budget il mio invito – non sollecitato da me, non ho puntato la pistola alla tempia di nessuno per farmi invitare – abbia commentato con amici e colleghi “Che stronzo, io l’ho pure invitato e lui si mette a fare quelle critiche lì, ma che educazione è…”. Notare bene: l’articolo era sostanzialmente positivo, eh, evidenziava solo alcuni lati meno riusciti dell’evento. Ma questa è l’aria che tira. Pure nel clubbing, un tempo uno spazio più libero ed “orizzontale” rispetto all’elefantiaco e cinico mainstream, oggi c’è questa arroganza di fondo per cui manco mezza critica è accettata. Va bene solo ciò che è informazione addomesticata ed adorante.
E se ci sta che quando intervisti Obama o Papa Francesco o Draghi ti venga chiesto di far leggere prima il contenuto, visti le implicazioni pantagrueliche di un contenuto del genere a livello di effetti politici ed economici, ora questa richiesta, anzi, pretesa, sottolineiamo pretesa, arriva pure da artisti al secondo singolo e con un pugno di migliaia di follower su Instagram. È ridicolo. Ma è sempre più diffuso. Un tempo erano casi rari, oggi è sempre più frequente. Ed è sempre più frequente vedere etichette, management ed agenzie che, per giustificare in primis agli occhi di se stessi la loro esistenza e la necessità di essere tenute lautamente in vita, creano delle autentiche “campane di vetro” attorno agli artisti. L’artista magari qualche critica o qualche osservazione non allineata sarebbe anche contento di sentirla – vabbé, non tutti – ma viene ormai trattato come un vaso di cristallo che al minimo non-complimento o non-laude rischia di andare in frantumi, o in escandescenze.
È una situazione, perdonate il francese, veramente del cazzo.
Vogliamo finalmente iniziare a discuterne alla luce del sole?