Durante la nostra spedizione al Sónar Lisboa abbiamo avuto il piacere di scambiare quattro chiacchiere con Strahil Velchev, in arte KiNK, artista bulgaro attivo da più di due decadi, uno dei pochi sempre in grado di raccogliere il favore sia del pubblico che della critica, conosciuto principalmente per i suoi live frizzanti, per la sua gentilezza contagiosa e per il suo sound sempre in equilibrio perfetto tra la precisione meccanica e il calore umano – anche se, scopriamo, non è sempre stato così…
Cominciamo toccando un argomento delicato, se ti senti a tuo agio a parlarne: qualche settimana fa hai fatto un post in cui parlavi di un problema con il tuo udito. Siamo tutti un po’ preoccupati per te, puoi darci un aggiornamento?
Mi sento più che a mio agio a parlarne, è un argomento importante. Molti colleghi artisti sono socialmente attivi e scelgono una missione. Penso che d’ora in poi la mia sarà quella di portare consapevolezza sulla perdita dell’udito, specialmente tra i musicisti. Nel mio caso specifico sto sperimentando un certo grado di perdita dell’udito. Sfortunatamente è permanente, ma non così drastico, posso ancora fare musica. In realtà non riesco neanche a percepire questa mancanza, ho solo sentito un po’ di fastidio e sono andato a farmi visitare da vari specialisti. Tutti mi hanno spiegato che la perdita non è dovuta all’ultimo evento in particolare, ma agli ultimi 15 anni di abuso. Forse molti dei lettori lo sanno già, ma dopo 15 minuti di esposizione a 100 dB già si sperimenta una perdita temporanea dell’udito, e in molti club il suono è molto più forte di così: quindi consiglio vivamente a chiunque di proteggere le proprie orecchie. Lo so che non è lo stesso, si perde un po’ d’impatto, delle sensazioni, ma per mantenere una certa qualità di vita e anche per proteggere la propria attività come professionista, è meglio farlo. Per tutti coloro che vogliano saperne di più sull’argomento, terrò le persone aggiornate sui miei profili con ciò che so e ciò che scoprirò sull’argomento. Al momento il mio udito va abbastanza bene, sono ancora in grado di produrre e di suonare, ma starò un po’ più attento. Sfortunatamente dovrò dire addio ai set estesi: a volte suonavo fino a sette ore, ma se voglio continuare a suonare live non posso continuare a farli.
Sicuramente non c’è ancora abbastanza letteratura su questo argomento e diventa difficile trovare una risposta anche alla domanda più elementare: ad esempio, quale sia la differenza tra i tappini su misura e non.
Quelli personalizzati ovviamente sono i migliori, soprattutto in termini di comfort, ma anche quelli economici sono meglio di niente e offrono praticamente la stessa protezione, solo che il comfort non è lo stesso. Ad esempio, per i visitatori dei grandi festival, se avete intenzione di stare davanti agli altoparlanti, è molto meglio prendere quelli più economici rispetto a quelli personalizzati, perché per assurdo daranno più protezione.
Quindi dovremo aspettare per vedere di nuovo Kink fare il deejay?
In realtà stavo pensando di tornare a suonare come deejay già in questa stagione, ma dopo aver scoperto di avere questo problema all’udito ho deciso di continuare solo con i live set per il momento, perché fare il deejay significa anche usare le cuffie, mentre per il live set non ne ho bisogno. Vedrò come si evolverà la mia condizione durante la prossima stagione e poi forse ricomincerò a sperimentare. Ma al momento continuerò solo con i live e magari diventerò un po’ più attivo come selector alla radio.
Come riesci a bilanciare i concerti nei grandi festival e i set in locali più piccoli dove puoi avere un contatto più stretto con la folla?
Penso di essere riuscito a mantenere un buon equilibrio e fare entrambe le cose, faccio più o meno lo stesso numero di live nei club e nei festival. Al giorno d’oggi, in generale, non suono molto: ho iniziato ad avere alcuni problemi di udito già nel 2009 e da allora sono stato molto attento a quanto lavoro prendere. Dal 2017, ho deciso di suonare al massimo due spettacoli a settimana, prendendomi almeno un weekend al mese di pausa, e nei primi tre mesi dell’anno di solito non suono del tutto. Questa è una formula che ha funzionato per un bel po’ e penso di continuare a seguirla. Sfortunatamente non posso portare la mia musica dove e quando vorrei, ma se mi state aspettando nella vostra città, non preoccupatevi, prima o poi ci verrò!
Hai qualche preferenza tra club e grandi festival?
Amo entrambi. Ovviamente, nei locali più piccoli l’energia è super intensa, le persone sono davanti a me, possono anche suonare con i miei strumenti e questo è fantastico. Però quando metti un tuo disco davanti a cinque, dieci, ventimila persone e loro impazziscono, beh, penso che anche questo sia qualcosa di strepitoso. Non posso dire che mi piace questo e non mi piace l’altro, ho bisogno di entrambi nella mia vita e cerco di mantenere un buon equilibrio.
So che sei un po’ un nerd quando si tratta di strumentazione e sono curioso di sapere come vedi l’evoluzione del mercato. Se la tecnologia in qualche modo aiuta a dare forma alla musica, come hanno fatto per esempio le drum machine, qual è la novità più interessante e più promettente che vedi in giro per un cambiamento radicale?
In termini del sound design penso che tutto sia già stato inventato più o meno dalla fine degli anni ’70, quindi, in termini di creazione di un suono nuovo di zecca, penso che sarà difficile riuscirci d’ora in poi. In termini di performance, soprattutto perché oggi i DJ sono diventati il centro dell’attenzione sul palco, penso che la tecnologia attuale e futura ci consentirà di performare di più. E per performance intendo sempre più apparecchiature che rilevano i nostri gesti e li traducono in suoni o effetti. Sta già accadendo, ma penso che la tecnologia andrà perfezionandosi e ci aiuterà a creare musica con i nostri corpi, con le nostre mosse di danza. Ora vedo molti DJ che invece di doversi concentrare sul mix, visto che la tecnologia permette loro di preparare il disco successivo molto velocemente, possono spendere il resto del tempo a interagire con le persone che sono lì a ballare. Parlando di più della parte in studio, sono piuttosto curioso dello sviluppo dell’intelligenza artificiale: non ho ancora utilizzato nessuno di quegli strumenti ma penso, a differenza di altri colleghi, che potrebbe essere qualcosa di buono. Non credo che l’intelligenza artificiale prenderà il mio lavoro, credo semmai che sia un aiuto, uno strumento che mi aiuterà a trovare l’ispirazione per creare qualcosa di originale.
La parte tecnica è la parte noiosa e la parte creativa è quella più interessante.
Assolutamente sì. Voglio dire, se ci pensi prima dell’era della tecnologia digitale i musicisti dovevano suonare gli strumenti a mano; poi, all’improvviso, con lo sviluppo dei microchip, ci sono stati i sequencer che ci hanno permesso di programmare la musica. Sicuramente allora questa tecnologia aveva molti hater, ma di sicuro non ha ucciso la musica: l’ha solo resa un po’ diversa! Molti compositori hanno abbracciato la tecnologia e hanno creato qualcosa di migliore e di diverso, quindi considero l’intelligenza artificiale allo stesso modo – come qualcosa che potrebbe aiutarci a risparmiare tempo dalla parte noiosa della programmazione e aiutarci a perfezionare le nostre idee.
La parte creativa è anche la più difficile da allenare. Puoi passare ore a fare esercizio e diventerai bravo a suonare uno strumento; affinare il tuo gusto, invece, non è così semplice.
Sono totalmente d’accordo e penso che ciò che fa la differenza tra un grande creatore e un compositore mediocre sia proprio il gusto, il senso estetico. Se la tecnologia elimina gli aspetti noiosi e tecnici, tutto si riassume nel buon gusto.
È come la “vibe”, qualcosa di davvero difficile da definire con esattezza.
Sì, e poi io sono pigro, se uno strumento può fare il lavoro per me, meglio così!
A proposito di hater, leggevo che hai prodotto musica per molto tempo, ma senza arrivare subito dove volevi, e questo ti aveva reso po’ frustrato. Come sei uscito da quella mentalità? Perché penso che questo settore possa essere avvilente per molte persone che lavorano sodo, ma non arrivano dove vogliono. Come possono trasformare quello sconforto in energia positiva?
Penso che tutti attraversiamo diverse fasi ed è normale per tutti dover affrontare una parte difficile prima o poi. A quel punto bisogna capire dov’è l’uscita, dov’è la porta per uscire dal periodo difficile. Nel mio caso, facevo musica da molto tempo e, confrontando la mia musica con i miei artisti preferiti, pensavo di essere pronto per il mondo. Ma in termini di successo, di riconoscimento, non stava accadendo nulla.
Il mondo non era pronto per te!
[Ride, ndr] Ero frustrato. E in un certo senso, ero un hater. Passavo il tempo a criticare gli altri perché pensavo solo a me stesso. Pensavo di essere migliore di tutti e soffrivo perché non stavo ottenendo il riconoscimento che pensavo di meritare. Poi c’è stato un giorno in cui ho pensato: “Ehi, se penso di essere così bravo, allora dovrei farcela a prescindere. No?” e ho deciso di stare zitto e lavorare. Ho apportato alcune piccole modifiche, ho ripensato un po’ la mia musica per renderla un po’ più digeribile, ma senza scendere a grossi compromessi. Il punto era capire che nessuno mi deve niente e che il motivo per cui non stavo avendo successo non veniva dall’esterno, veniva invece dall’interno, da me stesso. Ho cambiato il mio approccio a questo genere di cose e tutto ha funzionato per il meglio.
Quando è stato questo punto di svolta?
Ho avuto due punti di svolta: il primo è stato intorno al 2004. A quel tempo stavo facendo musica piuttosto sperimentale, non volevo avere un ritmo standard nelle mie tracce. Stavo inviando in giro dei demo e sono riuscito a entrare in contatto con un’etichetta discografica sperimentale molto famosa. Dissero che erano interessati alla mia musica, ma continuavano a rifiutare le tracce. Ironicamente, mentre per realizzare un brano sperimentale impiegavo molto tempo e un grande sforzo, nello stesso periodo ho realizzato un brano Acid House per divertimento in circa un’ora, l’ho pubblicato su un forum e un’etichetta mi ha proposto un contratto. Ho pensato, “Okay, forse non dovrei incapionirmi troppo, forse dovrei semplicemente seguire l’universo“. Il punto di svolta successivo è arrivato nel 2008: avevo già pubblicato un paio di dischi e la maggior parte di essi non aveva avuto un gran successo. Ai tempi pensavo che la melodia fosse sopravvalutata, che siamo insomma negli anni 2000 e dovremmo fare musica futuristica… Poi ho fatto una collaborazione con un mio amico londinese, si chiama Neville Watson, e il suo contributo è stato proprio quello di portare qualcosa di più umano, melodico e caldo. All’epoca non ero molto convinto, ma ho pensato che, dato che stavamo collaborando, avrei dovuto rispettare il suo contributo. Quello è stato il mio primo disco di successo. Lì ho capito che alla gente piacciono ancora il ritmo e la melodia, quindi forse dovrei cercare di essere innovativo pur mantenendo qualcosa di tradizionale nella mia musica.
E ora hai il tuo progetto Kirilik per dare spazio al tuo lato sperimentale.
Sì, quello è un esempio di musica sperimentale. Quando dico “sperimentale” intendo “meno prevedibile“. Se guardi alla musica attuale in generale, ci sono così tanti stili in questi giorni, è molto difficile per me classificare la musica in categorie. E a volte ascolti musica pop e ti rendi conto che è meno dogmatica di echno e house. Prendi i dischi di Pharrell Williams, ad esempio è spesso più sperimentale e imprevedibile di molti produttori techno!
Hai parlato di questa traccia che hai realizzato in pochissimo tempo. Molta della tua musica viene dal lavoro dal vivo che fai sul palco? Come ti senti a tuo agio nel dire che una traccia è finita?
Oh, in realtà di solito è totalmente l’opposto: mi ci vuole molto tempo per finire un disco. Penso che il processo più lungo sia stato di quattro anni e il minimo sia stato di almeno due settimane per finire una traccia, ma immaginati due settimane di lavoro non-stop. Per quanto riguarda la componente live, ho iniziato a suonare dal vivo relativamente tardi. Nasco come DJ e produttore, ma la scelta di suonare dal vivo è stata una delle decisioni che mi ha aiutato ad avere successo a livello internazionale. Da quando ho iniziato a farlo questo ha sicuramente cambiato anche il mio modo di lavorare: al momento improvviso decisamente di più mentre registro, uso entrambe le mani quando sono in studio. Quello che la gente vede sul palco e quello che succede in studio sono due cose diverse. Quello che mi manca di più in studio è poter prendere decisioni al volo, in una frazione di secondo, cosa che accade costantemente sul palco. Lì le persone mi danno fiducia, mentre quando sono solo in studio è molto più difficile fare delle scelte. Ecco perché amo collaborare con gli amici e stare nella stessa stanza con loro: mi dà la sicurezza di scegliere un suono piuttosto che un altro.
Non c’è un modo per portare in studio quello che fai sul palco?
Sì, c’è, ma sono troppo critico. Penso sempre che le cose che faccio durante uno spettacolo dal vivo siano troppo semplici, che suonino troppo simili, perché ho un certo modo di fare le cose, di suonare più o meno gli stessi accordi e gli stessi pattern di batteria. Sono un po’ diversi ogni volta e abbastanza variegati da farlo funzionare; ma quando lo riporto in studio, per me suona tutto più o meno lo stesso. È vero però che a volte mi possa essere perso delle registrazioni geniali, quindi forse devo lavorare di più su un modo di portare il feedback del pubblico in studio.
Non ho mai pensato al problema di non avere feedback in studio.
È solo che il processo in studio viaggia su una linea temporale diversa: in un certo senso controlli il tempo, capisci? Puoi fermarti, tornare indietro e tornare indietro ancora. In uno spettacolo dal vivo, una volta che l’hai fatto, non c’è più. Il tempo scorre insieme per tutti noi, e non si può tornare indietro.
Sei di Sofia, in Bulgaria, che non è una città spesso sotto i riflettori, specialmente quando parli di clubbing, ma noi sappiamo che è un posto speciale. Puoi darci la tua opinione sulla scena locale?
Sì, è una storia lunga, cercherò di farla breve. C’era un’energia davvero speciale negli anni ’90, quando la musica elettronica stava appena attraversando i confini, perché a quel tempo eravamo appena diventati una democrazia ed eravamo affamati di cultura occidentale e la musica elettronica ne faceva parte. Penso che al giorno d’oggi ci sia ancora entusiasmo, ci sono alti e bassi ovviamente, forse oggi c’è un po’ meno interesse per la musica prettamente elettronica, ma penso che in generale alla gente in Bulgaria piaccia fare festa! Quindi abbiamo sicuramente un terreno fertile per sviluppare una scena interessante.
Sono sicuro che gli italiani apprezzerebbero Sofia.
Sì, penso che gli italiani apprezzerebbero la nostra scena… e la nostra cucina!
Prima di salutarci: c’è qualcos’altro che vorresti aggiungere? Cosa dobbiamo aspettarci da KiNK in futuro?
Sono molto contento del disco che ho finito da poco con un mio carissimo amico di Sofia. Il suo nome d’arte è Raredub e non abbiamo ancora deciso se uscirà con la mia etichetta, Sofia, o se cercheremo qualcos’altro. È un disco molto energico, che cattura lo spirito giovane del mio amico che è molto, molto più giovane di me. Spero che esca non più tardi di questo autunno. Abbiamo anche appena pubblicato qualcosa su Sofia di un ragazzo turco-bulgaro che vive a Berlino. Si chiama Impérieux e il suo disco è piuttosto spigoloso. Quando mi sono imbattuto nella sua musica è stato come se avessi ascoltato Aphex Twin per la prima volta 20 anni fa: una cosa innovativa, fresca. Forse non venderemo 100.000 copie, ma sono rimasto così impressionato dal disco da volerlo consigliare a tutti, specialmente a quelli a cui piace la musica più coraggiosa. Quindi date sicuramente un’occhiata a Impérieux, il disco si chiama Extensions.