“Mr. Morale & The Big Steppers” è una seduta terapeutica anche per chi lo ascolta, ed è molto più personale di quanto ci si può rendere conto. Merita, merita davvero di tornarci sopra.
Siamo quasi a metà del 2023, ormai. C’è ancora molto tempo per nuove uscite e cambiare idea nella scelta del miglior album dell’anno. In questo momento è anche molto difficile come scelta, devi davvero spremerti le meningi per individuare la migliore uscita. Meglio l’evasiva opera di Caroline Polachek, “Desire, I Want To Turn Into You”? L’hyperpop scoppiettante con “10,000 gecs” di 100 gecs? O il nuovo viaggio sonoro di James Holden con “Imagine This Is A High Dimensional Space Of All Possibilities”? Potremmo andare molto avanti. Sembra una discussione lunga, molto più avvincente rispetto allo scorso anno. Perché esattamente un anno fa usciva il disco che non metteva dubbi sul fatto che ci saremmo ricordati a lungo di lui, forse anche in virtù di come si era fatto estenuantemente attendere.
Il 13 maggio del 2022 era “Fuori ora!” quel capolavoro che è ‘Mr. Morale & the Big Steppers’ di Kendrick Lamar. Era l’album più atteso dell’anno e si è dimostrato il migliore. Lampante, fin dal primo ascolto. Un disco apprezzabile per molti. Per gli amanti del genere, per gli ascoltatori più distratti, per chi è più trasversale come gusti o per gli amanti delle classifiche. L’aura artistica di Kendrick attrae chiunque, tanto da far percepire i suoi due concerti in Italia, quello dello scorso anno a Milano e quello del prossimo 17 luglio all’Arena di Verona dei veri eventi culturali. Il suo tanto agognato ritorno, 5 anni dopo DAMN. 1855 giorni ad essere precisi come ha voluto fare lui stesso nella sua prima strofa, non senza aver specificato prima che in questo lasso di tempo ha passato qualcosa. “I’ve been goin’ through somethin’ ”. Quel qualcosa possiamo indicarlo in tante cose risapute: l’America di Donald Trump, la pandemia e il movimento sociale Black Lives Matter come mondo di contorno; il successo personale valso un Pulitzer, la colonna sonora di Black Panther, gli esordi da attore ben recensiti, la performance all’Half-Time Show del Superbowl e l’essere considerato un’icona nella Black Culture per quanto riguarda la sua esperienza diretta, tra gli altri. Ma non è a questo che si riferisce davvero, o almeno lo fa, ma solo in una minuscola parte. Quello che ha passato è qualcosa di grosso, enorme. E ha deciso di condividerlo con noi. Cose che a un anno di uscita dal disco non si sono ancora esaurite. Per questo è il caso di tornarci su, in maniera un po’ più viscerale.
Devo fare subito un disclaimer, spiegarvi cosa andrete a leggere fondamentalmente, perché sarà una riflessione molto personale e non la banale recensione di un album che magari vi aspettavate quando avete cliccato su questo link. L’uscita dell’album è arrivata in un momento dove mi sta spesso capitando di immedesimarmi nelle cose che ascolto. Mi basta una frase che sembra essere messa a caso in un brano per pensare che questa si sposi bene sul dove sta andando la mia vita in quel momento, su che persona sono, cosa cerco, cosa voglio essere e non. E siccome ‘Mr. Morale & the Big Steppers’ più che un disco sembra una seduta di psicanalisi lunga 73 minuti mi sono immedesimato in tante delle cose dette da Kendrick. Ne comprendo lo stato d’animo e l’ho fatto mio (esagerando forse, non lo so). Ma passiamo al succo della questione e l’idea che ho avuto di questo ascolto, che, ve lo dico già, è un inno alla fragilità.
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Una seduta dallo psicologo dicevo. Sì, questo è un lavoro molto introspettivo. Denso. Un confessionale che raggiunge picchi laceranti. Ma partiamo con ordine. L’album in realtà è un doppio vinile con i lati C e D molto diversi da quelli sentiti in quelli A e B. La musica è di una ricercatezza delicata, disinibita. Del resto alle produzioni sue e di Duval Timothy hanno collaborato Sounwave e DJ Dahi, il trio di autori Beach Noise, The Alchemist, Pharrell Williams e comparsate vocali di Beth Gibbons dei Portishead, Sampha, Ghostface Killah dei Wu-Tang Clan, Kodak Black (gran provocazione) e il cugino enfant prodige Baby Keem. La prima parte è molto dura, suona rabbiosa, uno sfogo che strizza l’occhio alla vecchia scuola del rap old school ma facendosi influenzare dalla trap e da suoni elettronici e jazzeggianti. Ci sono anche influenze funk, come aveva anticipato “The Heart Part 5”. La seconda alla rabbia fa spazio atmosfere sonore molto più inquietanti e cupe, lo sfogo è finito, ne raccoglie i pezzi e li mette in ordine rallentando il ritmo. La batteria resta pesante, la chiave synth è profonda e fa da florida fondamenta alle sue parole. E i temi affrontati in queste parole sono tantissimi e intensi.
La famiglia
Playin’ “Baby Shark” with my daughter
Watchin’ for sharks outside at the same time
Life as a protective father, I’d kill for herTrack 3, Disc 1: Worldwide Steppers
Già dalla copertina Kendrick ci sta dicendo che ora è padre di due, entrambi presenti nella foto. Uno lo tiene in braccio e l’altro è in grembo alla compagna Whitney Alford, che ha partecipato al disco anche come voce in alcuni brani. Proprio il diventare padre deve averlo ulteriormente catapultato nell’introspezione. Si rivolge direttamente ai figli, Enoch e Uzi più di una volta. La sedicesima traccia, “Mr Morale” è un dialogo con loro: «Enoch, your father’s just detoxed, my callin’ is right on time…Uzi, your father’s in deep meditation». E come dargli torto ho pensato. Io non so se avrò figli, al momento è un’ipotesi molto remota della mia vita, che ora come ora non posso minimamente considerare. Spesso mi sono chiesto se li vorrei davvero o se è più una dolce fantasia, perché mettere al mondo un cucciolo d’uomo al giorno d’oggi se non sei economicamente tranquillo in un paese socialmente indietro come l’Italia non è altro che un carico d’ansia pazzesco, tanto più su un pianeta che non sappiamo se riuscirà a superare il secolo così come lo conosciamo e chiedendomi come potrei proteggerlo dalla vita ricca di futilità a cui tecnologia e social network stanno abituando i teenager (che già oggi mi sembrano ingestibili, figuriamoci tra 15–20 anni con un metaverso all’orizzonte). Per non parlare dei cambiamenti che devi affrontare e per cui serve uno sforzo mentale incredibile. Anche Kendrick, che a soldi e comfort della vita oramai sta decisamente meglio del sottoscritto, sembra provare quel carico d’ansia. Si chiede come li proteggerà dagli squali veri mentre canta loro “Baby Shark”. Nella prima traccia, “United in Grief”, il tema di come la famiglia ti cambi è già presente. «What is a house with a better view? A family broken in variables». Mettere famiglia, pensare al benessere economico per mantenerla, rischia di far scomporre se stessi fino al perdersi nel nido. E poi sempre la solita domanda. Sarò come mio padre? Kendrick ha vissuto in una nuvola di violenza durante l’infanzia e una serie di problemi familiari. Quanto si rischia di prender parte al gioco del biasimo? Si chiede anche se R. Kelly con un passato lontano dalle molestie avrebbe evitato di commetterle a sua volta. Quanto il contesto incentrato sull’essere virile in cui cresciamo non ci plasmi completamente togliendoci un po’ di libero arbitrio nella nostra personalità? Io cose del genere me le chiedo spesso, e detesto chi fa la morale dal suo salotto borghese. I problemi paterni sono un tema ricorrente nel disco e “Father Time” ne parla profondamente. «I got daddy issues, that’s on me», qualcosa che non è dipeso da lui ma che non gli si scrolla di dosso, appiccicato. In “Worldwide Steppers” lamenta i pensieri negativi che le persone di colore possono avere su di lui perché ha frequentato donne bianche. E ammette che anche la sua compagna ha giudicato quei rapporti. Una ricerca dei propri fantasmi estremamente accurata.
L’amore
Yeah, ’cause if I won it all without you involved
I guess it’s all for nothingTrack 4, Disc 1: Die Hard feat. Blxst & Amanda Reifer
La penultima traccia della prima parte è stata quella su cui sapevo sarei tornato immediatamente dopo il primo ascolto completo dell’album. Si apre con un vocal sample di “June” di Florence + the Machine, prima di passare a un giro di piano essenziale e un ritmo di batteria che portano la firma di The Alchemist. “We Cry Toghether” più che una canzone è un litigio nudo e crudo recitato splendidamente da Lamar e l’attrice Taylour Paige, quel tipo di sfuriata brutta che una coppia arrivata alla cima della disfunzionalità è costretta ad affrontare. La rabbia. Gli insulti, pesanti. Il rinfacciare. Gli sgoccioli di un amore. E che ovviamente finirà con il sesso, «Pussy and mouth is all you got/Lay this pussy back on the couch Doggie style/then you get on topper». Una giostra di odio e dipendenza che si ferma, ma tornerà a girare alla prima occasione utile. Mi sono ovviamente chiesto perché questa traccia violenta mia abbia affascinato. In cuor mio è perché so che ascoltare cose arrabbiate non mi è mai dispiaciuto, essendo cresciuto con i Linkin Park nel walkman. Allo stesso tempo ho riconosciuto le mie di sfuriate con chi era importante per me, la facilità con cui ci si arrabbia con i sentimenti di mezzo e cosa si rischia di dire. Mi ha affascinato, buttandomi nei ricordi. Qui l’immedesimazione con il testo può essere anche fantasticata, magari con un conflitto che sta per esplodere a breve. Ma è una cosa, no? La rabbia alle volte può essere positiva, in grado di far comprendere e reagire, e per dire cose che rasentano l’odio fino a questo punto devi prima aver amato tantissimo. Quindi forse quando ho litigato urlando era per quello? Non so dirlo, ma non riesco a non domandarmelo.
L’amore e il rapporto turbolento con esso sono un tema che torna sempre nei versi di Kendrick fin dagli esordi. In “Purple Hearts”, una canzone che combina amore, spiritualità e droga, Summer Walker (la collaborazione più riuscita del disco a mio avviso) dice «If it’s love, I deserve to get some head on the balcony sometimes». A partire da questa traccia Kendrick cambia il tono sul tema. Se prima c’era ansia e rabbia ora c’è un’analisi di cosa sia a livello spirituale, usando parole più delicate e unendoci la religione. Accettazione della sua potenza e non solo verso gli altri, ma anche per se stesso. Amare se stessi. Accettarsi, volersi bene. Quando ci riesci il mondo che ti circonda cambia, in positivo. Questo lo dico perché credo debba essere la priorità per qualsiasi persona, ma che si rischia di mettere in secondo piano inseguendo invece il successo lavorativo personale, facendo paragoni con le vite degli altri che sembrano tanto perfette rispetto alle nostre quando le guardiamo su uno schermo nero. La solitudine introspettiva della pandemia e la crisi dei 30 anni appena compiuti sono stati in grado di far abbracciare anche a me questo tema. Se sono qui senza pensare a quanto varrà effettivamente la pena aver scritto un pezzo così impegnativo per lo stampo che gli sto dando è perché la scrittura e il desiderio di saperlo fare come gli autori che più mi piacciono mi fa stare molto bene con me stesso. Mi accetto, mi piaccio mentre lo faccio. Credo che nella vita conta questo. Perseguire le cose che ci fanno stare bene, sempre trovando il giusto equilibrio. Ok, fine del pippone dove vi ho praticamente detto che ho odiato la pandemia perché mi ha costretto a esaminarmi, capire chi sono, convinto che prima non lo sapevo, almeno in parte. Allo stesso tempo mi ha arricchito. Il fatto che anche Kendrick sia sentito un’anima in pena e la consapevolezza con cui parla del suo conflitto interiore mi fa sentire vicino a lui.
La società
Kendrick made you think about it, but he is not your savior
Cole made you feel empowered, but he is not your savior
Future said, “Get a money counter,” but he is not your savior
‘Bron made you give his flowers, but he is not your savior
He is not your saviorTrack 5, Disc 2: Savior feat. Baby Keem & Sam Dew
Giovanni Ansaldo su Internazionale definisce questo album il “Il grande romanzo americano di Kendrick Lamar”, dove è cambiata la sua storia e anche la società americana, più esposta alle battaglie sociali abbracciate spesso da chi spera solo di ricavarci qualcosa. In “Savior” attacca con una critica ad alcune icone della Black Community, includendoci se stesso dicendo che nessuno di questi è un salvatore. «He is not your savior». Si riferisce a J.Cole, Future e Lebron James, e stando al testo comparso su Apple Music la barra sul cestista originariamente era dedicata a Ye, ovvero Kanye West (chissà perché l’ha cambiata, più avanti ammette di aver patito la beef tra Kanye e Drake). Sebbene tutte queste celebrità abbiano ispirato la comunità nera, Kendrick ricorda severamente all’ascoltatore che questo non significa necessariamente che siano attrezzate per essere le guide nella lotta contro l’oppressione solo perché hanno un microfono accessibile. Come non lo è lui, si impegnerà ma non ha bisogno di farsi fotografare in mezzo ad un corteo. «I seen niggas arguing about who’s blacker/ Even blacked out screens and called it solidarity». Lamenta la sufficienza della società, la negligenza nel pensiero indipenendente. «And I can’t please еverybody/No, I can’t please everybody / Wait, you can’t please everybody». Non si può piacere a tutti dice in “Crown”, brano dall’influenza shakespiriana. Non pretende di essere al di sopra delle critiche, ma contestualizza il suo punto di vista. È, probabilmente, il miglior rapper in vita, ma è meglio non dirglielo, come dice Rob Harvilla su The Ringer.
Sempre riguardo tematiche di attualità non banali Kendrick si è messo alla prova con “Auntie Diaries” dove racconta la storia di due persone transgender. Critica se stesso per aver usato la F-word in passato, la società e come vengono trattate le persone lgbt+ dal mondo ecclesiastico nonostante il primo insegnamento è l’amore. Qui non mi dilungo, non ho gli strumenti per capire se abbia pisciato fuori dal vaso o no, ma apprezzo il tentativo di trattare un tema delicato. Spesso ci provo anche io, ma sempre con la paura di dire cavolate. Meglio stare zitti invece? Non lo so.
La terapia
I’m not in the music business,
I been in the human businеssTrack 9, Disc 1: Purple Heart feat.Summer Walker & Ghostface Killah
Molti brani sono intervallati da dialoghi rivolti a lui di Whitney Alford e Eckhart Tolle, insegnante spirituale tedesco e autore conosciuto per The Power of Now: A Guide to Spiritual Enlightenment (1997) e A New Earth: Awakening to Your Life’s Purpose (2005). «Yeah, well, you need to talk to somebody. Reach out to Eckhart». Ed è qui che Kendrick ragiona, si apre, parla del silenzio come meccanismo per raggiungere la salute mentale. Con la seconda parte del disco (anzi in realtà già dall’ultima traccia della prima ovvero “Purple Heart”) si scende nel profondo della sua psiche e ammette di avere paura della propria testa. Tutto diventa cupo, messo in discussione. Ammette di aver avuto il blocco dello scrittore e mostra il contrasto con le cose che dice nella prima parte. Si era detto stanco di questa sensibilità “N952”, «I’m done with the sensitive, taking it personal, done with the black and the white, the wrong and the right» per poi correggersi in “Mother I Sober” con un «I’m sensitive, I feel everything, I feel everybody». Quando chiedo alle persone vicine una mia qualità mi rispondono che sono sensibile, e questo ve lo sto dicendo per farvi capire come mai mi sono immerso nei discorsi di Kendrick. In questo brano completa la sua evoluzione all’interno dell’album aprendosi del tutto e affronta con noi ascoltatori le violenze sessuali subite dalla madre, aiutato dalla voce eterea di Beth Gibbons, confessando che proprio in quel momento ha cominciato a rappare per provare a evadere dall’ambiente violento in cui era cresciuto. E poi ammette il suo vizio: una dipendenza dal sesso e l’infedeltà verso la Alford, che lo ha indirizzato alla terapia. Lui che notoriamente cerca di stare alla larga delle sostanze e ammette di avere un problema con l’appetito sessuale, quando invece la cultura da dove arriva ne fa un vanto.
Vulnerabilità messa a nudo. “When you not trippin’’?” chiede. Lui è sempre in trip perché conscio di tutte le imperfezioni del mondo. E anche io mi chiedo come fanno gli altri a sembrare non preoccupati, senza dubbi almeno in apparenza. Su se stessi, sulla società che guarda sempre meno il bene collettivo ma solo quello capitalistico, sulla guerra, su una crisi ambientale evidente. Mi sento vulnerabile come Kendrick. La sua volontà di svelare il trauma e la confusione adolescenziale nei termini più agghiaccianti e diretti possibili (da “Father Time” a “Auntie Diaries” a “Mother I Sober”) sembra, se non nuova, almeno intensificata. Mettere un prima e un dopo, fare un piccolo tesoro per migliorarsi oggi. E mi sono ritrovato anche in queste cose, per quanto va ribadito i miei traumi sono bazzecole buone per scriverci qualche episodio decente di SKAM Italia. Ma è innegabile che sentirlo aprirsi invoglia l’ascoltatore a interrogarsi su se stesso, o sul concetto di cos’è l’essere umano. Mr. Morale, appunto.
Questo disco è la confessione di un artista che sembra in cima al mondo e invece ci dice che l’idea che trasmette di se e la sua vita gli mettono ansia, nonostante venga da una cultura musicale che nel linguaggio esalta il sentirsi ricchi, famosi, strafatti e invincibili. Un’ansia legata a cosa ha passato, alla cultura tossica da cui arriva. Tutto si spegne con l’ultimo brano “Mirror” e un iconico e ripetuto «I choose me, I’m sorry». Mi sono scelto, mi dispiace. Non lo facciamo tutti? Kendrick ha cercato di andare fondo nell’analisi su se stesso e sulla società, ammettendo che non può fare nulla per influenzarla davvero. Ci sbatte in faccia la sua precarietà con una cosa personale e lo fa in un modo che può invogliare l’ascoltatore a imitarlo. Almeno a me è successo. Ovviamente ascoltare le sue barre può darmi solo minimamente l’idea o la percezione di cosa abbia passato o stia passando Kendrick Lamar: posso dire “si questi dubbi e ansie li ho provato in parte anche io”, ma mi fermo lì perché mancano gli strumenti per cultura diversa e competenze. «What you know about Black trauma?». Nulla, appunto. Non posso impersonificarmi completamente. Però mi ha istigato ulteriormente a interrogarmi su me stesso, su come sto, su cosa voglio, su come sto cercando di disegnare il mondo attorno a me in positivo. A chiedermi quanto la psicanalisi sia importante. Vedere la sua vulnerabilità in un lavoro così personale e l’evidente tentativo di usarlo per migliorarsi ispira anche me a darmi tentativo in tal senso e spero ispiri lo stesso ad altri ascoltatori. A sedersi assieme a lui, ascoltarlo e fare tesoro della sua arte che come dice lui andrebbe appesa in un museo. «Paintin’ pictures, put me in the Louvre, that’s a definite».