Great things take time: ci abbiamo messo un po’, ma ne è valsa la pena. È passato più di un mese dalla nostra visita al Sónar di Lisbona: una volta svanita l’eccitazione del momento, ci sono rimasti impressi solo gli scorci migliori del festival. Uno di questi è stato sicuramente il breve ma intenso set di Bawrut, che ha attirato l’attenzione scompigliando le carte ritmiche del palco SonarPark come solo lui sa fare. Abbiamo avuto l’opportunità di sederci con lui per una chiacchierata e ne è uscita un’intervista ricca di contenuti, affrontando anche argomenti scottanti da cui molti preferiscono stare alla larga, ma che Borut analizza e approfondisce con la sua solita “pacata risolutezza”, che è ormai diventata il suo marchio di fabbrica.
Prima impressione a caldo, com’è andata? Cos’hai sentito durante il tuo set?
I set da sessanta minuti mi mettono sempre paura, c’è troppo poco tempo per fare un set decente, un viaggio. Ma devo dire che è andata bene: la gente ha reagito positivamente ed è quella la cosa più importante. Ho suonato come volevo e ho testato tanta roba mia nuova. Sono contento che la gente abbia ballato sui quattro quarti ma con pattern ritmici un po’ diversi, messi lì, nascosti.
Sicuramente si è notata questa differenza nella parte ritmica rispetto agli altri set.
Bene! È il lavoro che sto facendo ultimamente.
Parlando della città, mi sembra di capire che tu abbia un rapporto speciale con Lisbona e con il Portogallo in generale. Stai pensando di spostarti qui?
[Ride] ma guarda, in una coppia si è in due e si prendono le decisioni in due. Al momento non è nei piani, anche se l’abbiamo detto scherzando molte volte e c’è stato un momento in cui ero su Idealista Portugal per vedere di comprare una casa nel basso Alentejo. Io ho questa teoria della gabbia dorata: non esiste un posto perfetto ed alla fine bisogna abituarsi a vivere nel miglior luogo possibile con tutti i pro e contro che a volte ti possono dare l’impressione di stare in trappola. L’Italia, se la guardi da una guida turistica, è il posto più bello del mondo; se ci vai come turista, lo è ancora di più; se ci vivi inizi a vedere che non è tutto come un post di Sam Youkillis e magari ti ammazzi! Questa bilancia c’e ovunque, per esempio la puoi trovare a Londra o Berlino: io soffro perché non ho la potenza di fuoco dei contatti e delle amicizie che puoi farti in queste due città, non posso lavorare bene come potrei se vivessi lì. Tutta la gente che vedo sui palchi viene tutta da lì. Allo stesso tempo non offrono uno stile di vita così gradevole e gratuito nella sua piacevolezza come quello che possono darti le città del sud Europa come Madrid, Lisbona, Barcellona, ma anche Roma e Milano. Il posto perfetto dove tutto si incastra non esiste, decidi tu se quello che ti offre quel luogo ti va bene o no. In questo Madrid e Lisbona non sono proprio uguali, ma sono molto simili come stile.
Spostarti dall’Italia mi sembra abbia dato una bella svolta alla tua carriera, come pensi sia cambiata andando via?
È cambiata perché sono andato via dall’Italia in un momento di stanca con un altro progetto musicale. Andando a Madrid sono ripartito da zero e soprattutto non stavo più a guardare cosa facevano l’amico e l’amico dell’amico: mi sono focalizzato su di me, su quello che mi piaceva. Questo mi ha aiutato moltissimo nel tirare fuori qualcosa di personale. Se poi pensi che con il nuovo progetto Bawrut sono emerso da un centro che non è conosciuto per la musica elettronica come Madrid, mi è andata benissimo così. Cambiando città, cambiando proprio nazione, non hai più appigli e finisci per reinventarti. Capisci che magari quelle cose che ti tenevano legato a un posto non erano quelle che facevano bene a te in quel momento. Ok l’erba del vicino o la strada vecchia e quella nuova, ma a volte bisogna provare a cambiare.
Il tuo suono è sicuramente cambiato molto dal tuo progetto Scuola Furano, però io qualche modo ci sento sempre una linea di continuità. Qual è il tuo ingrediente segreto?
Parlando di Scuola Furano, penso che sia l’approccio che ho con la musica, l’orecchio che ho per le melodie, credo che quello sia rimasto uguale nella mia carriera. Nello specifico come Bawrut, credo di non stare troppo attaccato ai generi, ti puoi aspettare sempre qualcosa di nuovo da me. Ovviamente non è che mi metto di colpo a fare ambient o cose a 150 BPM, però non uso sempre lo stesso pattern. A volte mi piace una cosa, a volte me ne piace un’altra. Se dovessi tornare indietro nella vita mi piacerebbe fare l’etnomusicologo: mi piace leggere, studiare i movimenti naturali della musica, delle culture, scoprire nuovi strumenti e le loro influenze, a volte provo nel mio piccolo a fare questo pure con la musica che produco.
Madrid in particolare come ti ha influenzato?
Ti faccio un esempio: in quest’ultimo anno abbiamo cambiato quartiere, dal centro ci siamo spostati in una parte multietnica della città, con una componente local spagnola ma anche una grossa comunità latina e una comunità cinese. I bassi latin li sento praticamente ogni giorno, nelle macchine che passano per strada o nelle case dei vicini e mi piace come vengono enfatizzati durante l’ascolto: a volte shazammi un pezzo Salsa o Bachata, poi lo riascolti e fa schifo. Il basso era così figo e invece la canzone fa cagare! Questa sensazione dei bassi enfatizzati la sto portando nella mia musica: ad esempio, c’è questo EP che uscirà a luglio su Ransom Note con delle percussioni definibili come “Reggaeton”, velocizzate perché ovviamente vado a 125 BPM, che sono lì, sotto traccia, le senti e non le senti. Questo tipo di sperimentazione mi stimola, anche se poi questa roba qua la faceva già Matias Aguayo dieci anni fa, quindi non sto facendo nulla di nuovo. Stessa cosa se ascolti tanto del materiale che sta uscendo dalla Colombia, America Latina o Miami: fanno della roba che non è troppo lontano da quello che facevano i Masters at Work. Ovviamente la gente ha bisogno di vendere nuovi trend, di presentarla come roba fresca, però c’erano già tutti i produttori latini di New York e Chicago che facevano queste cose Boricua House. Quello che a me piace fare è ascoltare musica vecchia, nuova, del futuro e fare da filtro: un pezzo che suono tantissimo ultimamente è Spastik di Plastikman, che presentato in un contesto così insolito nel mezzo di un mio set, porta un effetto sicuramente diverso in pista.
Basta parlare per una decina di minuti con te e si capisce subito che dietro ai tuoi set c’è molta ricerca, ed è una cosa che si nota quando poi inizi a mettere i dischi.
Sarò un po’ un old man yelling at clouds, però noto che chi suona al Berghain adesso mette roba a 150 BPM che sta tra la Gabber e la musica delle giostre, dei calci in culo. Invece chi suona al Panorama Bar, oggi suona o Italo Disco, non chiedermi perché, oppure Progressive toscana, senza però dire: “Dai, ci metto una roba mia”. Magari il mio approccio è sbagliato, però non ti fa strano sapere che il tuo pezzo nuovo appena uscito suona identico a un pezzo di venticinque anni fa? Per me è un po’ la morte della creatività, con tutto il ben di dio che abbiamo davanti come tecniche e come possibilità di approvvigionamento di nuovi generi musicali. Quando io ho iniziato, vivendo a Gorizia, dovevo andare a Monfalcone in macchina a comprare i dischi da Paolo Barbato (Respect) dove c’erano praticamente le croste delle croste, la competizione con Londra, Berlino, Amsterdam o Rimini era impensabile. Oggi ho Instagram, Tik Tok, mixati su SoundCloud di gente davvero brava: ho un sacco di possibilità per scoprire nuova musica e veramente riproponiamo pari pari le cose che vanno di moda? Secondo me la ricerca in campo artistico è fondamentale, che tra l’altro mi fa ridere perché io non mi considero un artista, al massimo un artigiano.
Da dove arriveranno novità interessanti nei prossimi anni, secondo te?
L’intelligenza artificiale fa delle robe fighe, soprattutto quando si cerca di craccarla. Ho visto che c’è un software, ad esempio, che praticamente ti fa dei beat con i sample che gli dai in pasto. Fin qui, nulla di speciale, pensa però se invece di dargli una libreria di snare e kick gli passi degli uccelli o gente che parla, magari esce una roba fighissima e la macchina non era stata programmata per fare quello. Siamo passati da suonare gli strumenti manualmente alle macchine, che se le usavi per sbaglio ti venivano fuori delle figate, come la 303 o la maniera in cui J Dilla usava l’Akai. Adesso addirittura siamo arrivati ad avere software che ti fanno tutto loro: mi sembra bello e molto democratico. Ero un po’ scettico fino a poco tempo fa, ma ora sono fiducioso perché secondo me, come l’uomo per sua natura incasina sempre tutto, alla fine riusciremo a tirare fuori delle idee geniali da delle cose che non lo erano.
Visto che parliamo di futuro, volevo farti un po’ una “meta-domanda”. Visto che tra i tuoi interessi mi sembra ci sia anche il giornalismo, volevo chiederti dove pensi stia andando il giornalismo musicale.
Ho capito che spesso il giornalismo viene fatto in maniera un po’ pressapochista, senza controllare le fonti, legato molto a interessi di partnership e pubblicità. Così ho cominciato anche a capire come funziona il giornalismo musicale. Ci sono stati momenti di vacche grasse, poi però la musica è sempre stata la prima a soffrire i cambi tecnologici: quando è arrivato internet, la prima industria che ha beccato le mazzate è stata la musica, con gli mp3 gratis. L’avanguardia delle piattaforme di streaming è stata la musica con iTunes e Spotify, dopo è arrivato Netflix. Con la gratuità dei siti web o blog e la scarsa attenzione odierna, il giornalismo musicale ha evidentemente difficoltà a sostenersi, è una cosa un po’ di nicchia. Se ti metti a fare le cose da nerd avrai me e quattro scappati di casa che si leggono le tue newsletter, ma in generale non generano grandi soldi. Non è come lavorare a Mixmag nel ‘99 dove eri una delle poche fonti di divulgazione musicale ed il giornalista si beccava un fisso al mese e tutti i plus pagati per andare di qua o di là. Oggi il giornalismo musicale, per continuare a generare traffico, click, e quindi guadagni, si piega come praticamente quasi tutti i media a seguire i trend e cercando engagement in maniera secondo me sterile.
Di che trend stiamo parlando?
La musica in generale e soprattutto il clubbing è un settore molto conscious, attento ai cambi della società. Per fortuna, perché mi ritrovo rappresentato, però vedo che ultimamente il prodotto offerto scende sempre in secondo piano, perché invece la narrazione, il concept, vende molto di più del prodotto. L’inclusività paga molto di più di una musica fatta bene. L’apertura ad altri mercati e realtà geografiche paga di più che magari soffermarti su un ragazzo tedesco che fa musica. Tutto questo è giusto o sbagliato? Non lo so. Io come rappresentante quasi in toto della categoria dei privilegiati, anche se per un periodo di tempo si dà più spazio a chi storicamente è rimasto ai margini dell’industria, chi sono per rompere i coglioni? Suono la musica degli underdog che si ritrovavano a New York a ballare nelle ballroom perché era l’unico posto privato dove poter stare in comunità e poter esprimere se stessi. Anche se per due tre anni vengo messo di lato, chi sono io per lamentarmi? Però, dall’altro lato, ovviamente mi girano i coglioni, perché quando vai a sentire la qualità del prodotto offerto e vedi un risultato scarso, capisci che è stato preso per rappresentanza e non per qualità. Capisco che conti il modello positivo, è importante proprio per ridurre e eliminare queste disuguaglianze, anche se non è brava o bravo, è giusto che ci stia sul palco. Però non deve essere un dogma e quando mi viene venduto come dogma, mi sembra logico sollevare dei dubbi. Anche Giorgia Meloni è una donna ma non mi sembra questo esempio di inclusività e di rappresentanza di un modello femminista. Vorrei poter fare una discussione organica su questa cosa, di DJ e producer uomini con molto successo e poche qualità il mercato è saturo da decenni e non è giusto che ci accorgiamo di questi limiti solo ora che il mondo musicale si sta finalmente un po aprendo agli altri generi, ma visto quanto è radicalizzato e polarizzato il discorso, la vedo difficile.
Sembra ci sia una tendenza a dividere piuttosto che unire, quando invece il miscuglio di culture è sempre stato alla base dell’evoluzione di nuovi generi.
Verissimo. Nel senso, tutta la musica più figa è stata fatta dagli afroamericani negli ultimi cent’anni e noi l’abbiamo copiata e ci siamo fatti influenzare. Il sistema razzista in cui viviamo ha permesso che venissero fuori i bianchi invece che gli afroamericani. I tre di Belleville però ascoltavano di tutto, per loro stessa ammissione: Italo Disco, Kraftwerk, eccetera, non solo musica nera. Un grosso step per la musica dance mondiale è stato il fatto di mescolare musica di vari luoghi del mondo, Kraut, la prima House di Chicago, roba elettronica e New Wave in uniche sessioni, come si faceva a Ibiza all’Amnesia. Poi gli inglesi, dopo aver ascoltato Alfredo e Leo Mas che suonavano questa roba, l’hanno portata a Londra e ci hanno costruito carriere e generi. Non accettare che la storia sia frutto di mescolanze è un po’ miope. Poi, che alcune di queste siano sinonimi di sofferenza e di abuso è un altro discorso, di cui bisogna essere consapevoli e portare rispetto.
Bisognerebbe parlare piuttosto di dove tracciare la linea tra il farsi influenzare e il copiare, o sfruttare.
Ti faccio un contro esempio: guarda tutto quello che esce dall’Africa oggi, non so quanta di questa gente vada a pescare dalla musica dance afroamericana e quanti si siano fatti influenzare invece da prodotti occidentali, tipo da David Guetta o Bob Sinclair. A Beirut, in un workshop, mi han chiesto se conoscevo DJ famosi EDM tipo Dimitri Vegas, non se mi piaceva di più l’ultimo di upsammy o di Anunaku. Non puoi pensare che le cose abbiano un bollino di appartenenza e purezza. Che poi è come stiamo trattando adesso noi italiani la cucina, che guai a non usare il guanciale e poi è tutta fuffa, oppure se ci pensi: pita, piada, pizza, pide: è sempre questa radice comune del pane con sopra del condimento in tutta l’area mediterranea. Ma quando mai abbiamo inventato noi la pizza? Ci siam fatti influenzare, mettendoci del nostro, come giusto che sia.
Parliamo invece di quello che il futuro ha in serbo per Bawrut, in particolare.
È un momento un po’ difficile, perché gli artisti vanno supportati, a livello di crew, di management, perché nessuno esplode dal nulla e poi arriva a dei livelli altissimi senza un team. Io al momento non ho un team, anche perché su certe cose non mi sento a mio agio a delegare. Quindi sto lavorando spesso da solo su molteplici aspetti del mio profilo, tanti interessanti e altri più noiosi, tipo gestire i social media. Anche perché non vorrei un’agenzia di management all’inglese, del tipo che mi dice: “vieni con noi, fai quello che ti diciamo e in due anni fa il salto di qualità”. Lo si vede con tantissimi artisti che nel giro di poco tempo cambiano totalmente il genere che suonano. Prima facevano una roba, un po’ più alternativa o comunque con una certa ricerca di suono, poi di colpo bam, iniziano a menare. È capitato anche a me di suonare in contesti dove so che il pubblico si aspetta un certo tipo di suono e magari metto roba un po’ più tiratina, però è tutta musica nel mio gusto, che sento mia. Per me è una medaglia uscire dal Guendalina con la gente che mi fa i complimenti per il set; provare a portare un approccio e un suono differente in club che ospitano artisti molto più famosi e mainstream di me non è facile, ma si può fare. Nel basement da cinquanta persone in scimmia siamo bravi tutti a mettere il pezzo con quattro colpi di cassa ogni venti battute.
Quindi ora stai cercando una strada per evolvere, senza snaturarti.
Adesso mi vedo un attimo in una specie di stasi perché dovrei avere un un team di supporto, gente che ha i contatti. Se vivessi a Berlino o a Londra magari riuscirei anche da solo a raccontarmi. Ti becchi con tizio, ti becchi con Caio, si parla, si fa. Invece, stando a Madrid, è più difficile. Però, dall’altra parte, mi chiedo perché una persona per fare successo debba andare a Berlino o a Londra? Nel senso, parliamo tanto di inclusività e siamo i primi a essere esclusivi. Vedi per esempio il Berghain: sono i primi a tagliare fuori. Ho suonato al Gallery 1986 a Vilnius, una situazione molto Panorama Bar, però erano tutti contenti, tutti felici. C’erano un po’ di video, nessuno si è indignato, entravano tutti, uscivano tutti. Perché bisogna essere così tanto finti inclusivi che si diventa esclusivi?
Capisco il voler proteggere una certa situazione, ma c’è il rischio di diventare un po’ snob.
Esatto. Io sto continuando questo discorso di approfondimento del mediterraneo dal punto di vista del multiculturalismo e anche dell’anti snobismo. È vero che i classici venti lads strafatti dentro a un club figo rovinano l’atmosfera a tutti gli altri, ma di posti con quest’aura non ce ne sono mica molti in giro, spesso finisco in posti senza molta hype dove si sta bene lo stesso. Come non tutte le serate che fa un DJ sono cavalcate epiche che si traducono in post entusiasti il giorno dopo su Instagram, così anche quelli che vengono ad ascoltarmi non sono mica tutti lettori di The Quietus o Resident Advisor, ci sono anche persone normali, semplici tabbozzi, perché non bisogna essere inclusivi anche con loro? Perché non si può suonare della musica con un minimo di ricerca anche a loro? Ormai la musica da club è una cosa globale e per provare a far cambiare le cose mi piace pensare che ci si debba sporcare le mani e non restare tra di noi, i soliti quattro amici, a parlare di chi suona all’Unsound e del nuovo resident del Bassiani. Perché bisogna sempre campionare una voce inglese? Posso campionare una voce araba, che la parlano milioni di persone nel Maghreb, in Francia, in Belgio, in Spagna, in Italia e in medio oriente. Mi faccio capire anche da loro. Che poi queste cose le fa Four Tet e diventa la figata dell’anno, la faccio io e, siccome ho fatto 3 date al Circoloco, non mi vedono come un tipo che ricerca. Nonostante abbia suonato in Libano, Palestina, Grecia, cercando sempre una relazione con le piccole realtà locali per fare dei workshop e community, quando c’è da fare una line-up mediterranea e l’intellighenzia della musica elettronica vuole essere inclusiva, guai chiamare un italiano, un francese o uno spagnolo. Non fraintendermi: la ricerca, i suoni rotti, le nuove sperimentazioni ed i musicisti più esplorativi per me sono un ascolto fondamentale, sono cose che mi stimolano, però dopo filtro tutto e cerco di metterlo a modo mio. Secondo me bisogna essere inclusivi per davvero, capire che il termometro dell’ascolto della gente non è così sofisticato come il tuo. Siamo noi promoter, DJ, producer, organizzatori a dover cercare di trovare un punto d’incontro. Quindi il mio futuro è quello di continuare con questa inclusività e ricerca fatta a modo mio, infatti nelle ultime robe che ho composto e in quelle che sto finendo ci sono tante influenze persiane, marocchine o arabe. Ci sono percussioni reggaeton miste a cassa dritta, sempre attraverso il mio filtro. Se ci pensi, a serata finita, cosa mangia chi esce da un club? Pizza Kebab o la focaccia con farro dell’appennino marsicano, cipollotto di manduria e olio del Garda?