C’è una cosa che è (…quasi?) peggio della vuotezza autotunnata di molte svisate trap-wannabe-criminalizie che ci stanno facendo da colonna sonora da un sei, sette anni a questa parte, sì, una cosa c’è: il rant fuori tempo massimo di chi si appella solo ed unicamente ai bei tempi andati, agli anni ’90, ad una supposta beltà e nobiltà perduta. Dimenticandosi di quando negli anni ’90 c’erano sì le jam ed erano dei luoghi romantici, c’era sì la ricerca del flow e per stare nella scena dovevi aver un minimo di tecnica al microfono; ma c’era anche il fatto che si era alla fin fine sempre i soliti stronzi, che ci si sparlava un sacco l’uno con l’altro (talora alle spalle, talora no), che c’era una imitazione calligrafica del modello americano da Queens o da Bronx che implicava il buttare a mare ogni vago tentativo di originalità locale (…forma di rigetto dopo l’overdose amatoriale da posse?). Insomma, non è che si stesse così bene. Tant’è che le persone normali ed acculturate, quelle semplicemente appassionate di musica, dalla scena hip hop si tenevano abbastanza alla larga. E le persone normali ma intelligenti che alla scena hip hop “vera” si interessavano, ed incredibilmente c’erano, venivano respinte come se fossero stati degli appestati o degli affaristi senza scrupoli pronti a stuprare e depredare la scena stessa.
Risultato di questa chiusura dogmatica? Quando poi – perché doveva succedere – l’hip hop è diventato pop anche in Italia e si è fatto mainstream, ci si è arrivati a tutto ciò da un lato con la giusta cazzimma e fame di fama, e ok, dall’altro però ci si è planati anche molto impreparati culturalmente: di Fibra, di Marra e dei Dogo si sono infatti sempre e solo capiti soprattutto i lati superficiali di quello che facevano, e quasi mai invece la profondità e la contestualizzazione vera. Ma visto che l’economia aveva preso a girare, andava bene (e va bene) così per tutti. Badabum cha cha (una canzone profondamente politica e cazzuta, ma in generale è arrivato soprattutto il “bordello” e la trombetta).
Però ecco: capite perché la panacea dell’old school, del “Si stava meglio quando si stava peggio” qua incontra non troppissima simpatia, in chi vi scrive – e gli anni ’90 e lo “stare peggio” me li sono vissuti tutti in medias res. È una chiusura mentale che è opposta e speculare a quella di chi apprezza solo i piattini e gli argomenti da materialisti cretini: non c’è nessun motivo per farle il tifo a favore, a questa scena “originale” e pre-millennio, se non per il fatto che comunque rimanda ad un periodo – gli anni ’80 e poi ancora di più gli anni ’90 – in cui l’hip hop era prima di tutto una passione viscerale più che un ascensore per il successo. E non solo: musicalmente parlando, la sfida non era essere il più di successo ma essere il più stiloso. Si litigava e si discuteva per il suono di un rullante. Davvero. Oggi invece si litiga e si discute per una settimana di streaming in top 5. Sotto questo punto di vista, sì: si stava meglio prima. C’era più musica. E più cuore. Di sicuro c’era più ruspante innocenza.
Oggi però non si può più essere innocenti. Basta. Finita. Anche in Italia il rap è diventato una cosa seria: una cosa che dà da mangiare alle persone, tipo. Non solo agli artisti, ma anche ad etichette, management, tecnici, uffici stampa, maestranza varia, eccetera eccetera…
Chiaro insomma che adesso, quando fai qualcosa, non lo puoi fare più “tanto per” ma qualsiasi tua mossa, se ambisci ad essere ad un livello un minimo rilevante, deve essere portata avanti in maniera sperabilmente matura, rifinita e ben strutturata.
E quindi: se vuoi essere nostalgico e critico verso il presente, se intendi dire che non ti vuoi allineare ai baby-galeotti trap ottusi ed ai gaglioffi swag vestiti da Givenchy, va bene, certo che va bene, va anzi benissimo; ma non basta solo tirare fuori l’hip hop di vent’anni fa rifatto col manualetto e spalare contestualmente merda su quello che gira adesso. Erano atteggiamenti che potevano andare bene negli anni ’90 ed all’inizio dei 2000, questi dogmatismi; oggi si rivelano per quello che solo – asilo nido per adulti irrimediabilmente non cresciuti.
Siamo molto contenti di aver visto questa consapevolezza e questa visione non ottusamente polarizzata in molti artisti storici. Gente che negli anni ’90 c’era, che ancora oggi è idolatrata (spesso in modo un po’ bovino), ma che è diventata troppo intelligente per non capire che è stupido creare una contrapposizione netta ed irrecuperabile “noi vs. loro”, “old school bello vs. trap merda”, sotto l’insegna del “…ai nostri tempi sì che gli mc rappavano a tempo” (mica vero, c’eravamo, e di MC scarsi ce n’erano a iosa anche allora), pensando basti questo. Quando questa consapevolezza c’è, fa bene all’arte. Ha fatto bene ai Colle Der Fomento, che con “Adversus” hanno fatto un disco bellissimo, maturo, un disco autentico e tradizionalista da un lato ma molto contemporaneo ed attuale dall’altro; ha fatto bene ad Inoki, che non sferra più colpi alla cieca ma prende con affilato acume la mira; ha fatto bene ad Egreen che ha messo nel suo rap uno spessore che prima non aveva; fa bene a Noyz, fa bene a Fibra, fa bene a Kaos (che con uno tipo Craim accanto si è regalato altri cent’anni di giovinezza, piglio e rilevanza). Giusto per fare qualche esempio.
Un esempio perfetto poi è Shocca.
Che, per chi ne sa, è nient’altro che da sempre il “Dj Premier italiano”: perché si ispira moltissimo al beatmaker ex Gang Starr, perché le sue basi hanno una purezza ed eleganza East da manuale, anche e soprattutto perché ha un tocco assolutamente suo e riconoscibile – almeno per quanto riguarda l’Italia. Come Premier, solo a Treviso invece che a NYC e tra alcol e simpatiche bestemmie. Personalmente abbia sempre pensato che lui fosse uno dei “grandi sottovalutati” dell’hip hop italiano: tutti a citare Fritz Da Cat, e ok, tutti a citare il Deda che faceva le cose per Neffa, e va bene, ma il più efficace ed il più stiloso nel “disegnare” trame a sapore East-Coast-Eleganza era alla fine lui. “60hz”, il suo statement, il suo producer-album per eccellenza, è uscito esattamente nel periodo peggiore di tutto e di tutti: 2004, quando la vecchia ondata anni ’90 era un maleodorante rimasuglio di cadavere spazzato via da becchini distratti e quella nuova (…quella che prima col lampo di Marcio, poi col trionfo di Fibra ed infine con la scorpacciata dei Dogo o Shablo a far da puparo ha definitivamente cambiato tutto) doveva ancora non solo venire, ma proprio essere pure solo immaginata.
Provateci voi ad essere bravi, ad essere stilosissimi, a fare tutte le cose a modo, con classe ed eleganza, e a non essere però cagati da nessuno – se non da gente magari pure troppo fissata con l’hip hop tra fine dei ’90 ed inizio dei 2000, come se non ci fosse altro nel mondo e nella vita. È un po’ scoraggiante, ecco.
Ma visto che anche la merda concima, è successo che i’hip hop che diventa mainstream ha (ri)aperto spazi ed attenzione negli ultimi anni anche per chi se lo meritava allora, e non ha avuto invece abbastanza. Nell’arco di pochi mesi, Shocca ha assestato un uno-due notevole: prima il joint album con Inoki, “4 mani”, ed ora questo suo “Sacrosanto”, il seguito a pieno titolo di “60hz” quasi vent’anni dopo. Due lavori davvero ottimi, “4 mani” e “Sacrosanto”: e se il primo è più il “classic Shocca” (peraltro ad alti livelli), il secondo raggiunge veramente una attenzione ed una misura inedita nel “cucire su misura” le basi per interpreti diversi, con tante piccole scelte ed accorgimenti che vanno ben oltre l’imitare Premier, e consacrano Shocca come uno dei migliori beatmaker hip hop italiani di sempre – ed anche uno che, pur citando molto il suono dei ’90 ed un certo tipo di neo-classicismo, può stare tranquillamente in produzioni del 2023 senza per nulla sfigurare rispetto a per dire uno Stabber (…ecco: il più talentuoso della nuova generazione è lui, non vediamo l’ora esca il suo disco, Tartaglini muoviti cazzo).
ASCOLTA E SCARICA IN ALTA QUALITÀ “4 MANI” SU QOBUZ
ASCOLTA E SCARICA IN ALTA QUALITÀ “SACROSANTO” SU QOBUZ
Non è la rivincita della old school sulla nuova wave, non è Premier che caga in testa a Lil Wayne: è semplicemente questione di dare il giusto credito a musica fatta gran bene, e non perché rappresenti una (supposta) “golden age” dove tutto era bello mentre oggi tutto è uno schifo ma semplicemente perché l’hip hop fatto bene, che sia classico o che sia trap o che sia modernista, è giusto venga riconosciuto di per sé, senza baruffe generazionali e reazionarie. O se ci sono, devono essere fatto con stile supremo, come qui:
E per “hip hop fatto bene” intendiamo che fili ben bene musicalmente, che quando fa da accompagnamento ad un mc sappia servirlo invece di ignorarlo, che dimostri chiaramente di essere fatto per amore e per passione e non per calcolo ed attenzione ossessiva ad imbroccare il suono-del-momento: tutto questo in “Sacrosanto” c’è. Discone. Bravo Shocca. Che il 2023 ti dia quello che avresti dovuto avere già nel 2004.