Ad un certo punto, guardandoti attorno, senti chiaramente una sensazione, una consapevolezza: stai vivendo qualcosa di unico, stai vivendo un piccolo momento in cui si sta facendo la storia, almeno in Italia. Sì: chi è stato all’edizione 2023 di Nameless appena conclusa, ha potuto essere presente al più grande evento di sempre nel nostro Paese a livello di festival. Sì, lo sappiamo: c’è negli anni chi ha fatto numeri maggiori, andando oltre le 30.000 presenze a giornata, ma lo ha fatto in realtà per lo più costruendo l’evento attorno ai totem immarcescibili Vasco o Ligabue, o attorno al sistema solare (…o per qualcuno nemico delle tartarughe) Jovanotti. Lo ha fatto insomma pescando nel nazionalpopolare più rodato e con un centro di gravità permanente incentrato non solo e non tanto sull’esperienza-festival, ma su quella dell’artista solo al comando.
Nameless no. Nameless le 30.000 persone a giornata (stima nostra, devono ancora venire fuori i dati ufficiali, ma non crediamo di essere lontani dalla realtà) le ha fatte con headliner tipo Hardwell, che di nazionalpopolare non ha assolutamente nulla. Giusto per dire. Sì, lo sappiamo cosa state per commentare: “Vabbé, ma c’era quel santino ambulante di Kalkbrenner”, il salva-eventi, quello che ovunque vada ti garantisce di fare grandissimi numeri (cosa che gli permette di chiedere cachet giganteschi, e purtroppo sotto certi punti di vista fa bene)… Bene: la giornata con Kalkbrenner ha fatto meno presenze di quella col suddetto Hardwell, con Oliver Heldens, con Lost Frequencies, chiaro?, e meno pure di quella con Skrillex (per alcuni bollito) e Salmo. Quindi? A che gioco giochiamo?
Quello che vogliamo dire è che Nameless ha dato uno scossone di cui tanto c’è bisogno in Italia, e non solo in Italia: ha spezzato la liturgia dei “soliti nomi”, liturgia che – non nascondiamocelo – affligge prima di tutto proprio la scena techno e house, oh sì, esattamente la nostra. I reazionari siamo diventati noi. Perfino nel pop, grazie alla ventata indie, piaccia o non piaccia, c’è stato un ricambio generazionale; nella dance una pletora di promoter che si è fatto le ossa alle fine degli anni ’90 e nei primi anni 2000 tende invece a cucinare (ritenendolo una necessità oggettiva, forse?) sempre i soliti nomi da un decennio a questa parte. Il pubblico però è più avanti. Lo dimostra pure l’altro grande, grandissimo festival italiano a matrice dance, il Kappa: che fa sì una All Star dei “soliti” techno e house, è in fondo la sua ragione sociale originaria, ma è comunque attento a provare ad intercettare ciò che di nuovo circola fra i gusti dei ventenni, soprattutto negli ultimi anni, quelli del boom.
Ormai da anni il derby fra Kappa e Nameless è su numeri veri, imponenti, numeri che altri si sognano qui da noi e che sono ai vertici europei (sì: ai vertici europei). Ci sta provando il Decibel, a Firenze: ma dalla loro parte Kappa e Nameless hanno contesti particolari, specifici, speciali. Nel caso del festival torinese, l’archeologia industriale unica e monumentale, così come una quota di presenze straniere ormai saldamente e felicemente ancorata al 50%; nel caso di Nameless, l’essere visivamente circondato dalle Alpi ed avere un pubblico giovane, bello e dall’entusiasmo sincero, non dopato cioè dall’hype o da quello che ti passa quel simpatico ragazzo col cappellino e canottiera armato di buste.
Quest’anno però Nameless ha fatto un salto in avanti notevole. Ha tirato uno scossone imponente, ed importante. Ha rinunciato cioè alla formula dei palchi sempre coperti, e si è preso il rischio non solo di aumentarli, i palchi (siamo arrivati a quattro, invece dei tradizionali tre, che poi in principio erano due: una crescita organica), ma appunto con l’eccezione di quello più iconico – quello legato al DNA musicale più hardcore del festival – è stata fatta la scelta di abbandonare la copertura. Open air. Un Main Stage bellissimo: enorme, sì, ma al tempo stesso “leggero” come scelta architettonica e molto avvolgente, vista la soluzione di renderlo leggermente a semicerchio; open air anche il palco “rap” (chiamiamolo così per comodità), mentre restavano al coperto la suddetta Nameless Tent e l’Igloo, non più sponsorizzato Molinari (che è “migrato” alla Nameless Tent) ma con però salda la sua identità più vicina al clubbing “nostro”.
Il risultato concreto è che il festival ha assunto un “respiro” mai prima avuto: di spazi, prima di tutto, perché ora l’area immensa del campo da polo tra Lecco e Milano è sfruttata nella sua interezza; di movimento delle persone, anche perché sono state rimescolate le carte e la divisione stilistica fra palchi non era più così netta ed ancorata a riferimenti precisi di musica o di popolarità schematici e precisi. In questo modo avvertivi una sensazione ben precisa: era bello girare, spostarsi, “andare alla ricerca delle cose”. Essere appunto policentrici, come dicevamo all’inizio. L’esatto contrario del festival dove arrivi, e sei abbarbicato alle tue certezze, che si chiamino Vasco Rossi o Paul Kalkbrenner, Jovanotti o Nina Kraviz. Il resto ce l’ha messo il pubblico di Nameless: meraviglioso come sempre. Per noi del giro techno e house, abituati al fatto che quando si cresce di numero devi fare conto di pedalatori, energumeni e gente a non affideresti propriamente le chiavi di casa o del motorino, sempre una boccata di ossigeno e di fiducia verso l’umanità.
Eppure. Eppure, eppure, eppure. Questa edizione così speciale e così “meglio” rispetto alle precedenti, se andate a vedere sui social, si è portata dietro una quantità di lamentele e di critiche non da poco: questo il dato di fatto. Gente inferocita, gente “Ridateci i soldi, ladri”, gente “Mai più a questo festival”, eccetera eccetera eccetera. Partiamo dalla giornata finale, quella dove le cose non sono andate lisce in modo evidente, ovvero quella di domenica 4: i cancelli sono stati aperti con un’ora di ritardo, la line up ha subito varie correzioni ed aggiustamenti in corso d’opera (complice in questo anche lo sciopero aereo e vari intasamenti autostradali), il tutto è terminato mezz’ora in anticipo, c’è chi si è visto il set finale ridotto d’imperio (Hardwell) o in qualche caso pure annullato (Geolier). Che è successo? Il maltempo. Nella notte tra sabato e domenica ha diluviato, rendendo la vastissima spianata verde che ospita dall’anno scorso Nameless un pantano e, in alcuni punti, una trappola; e nella sera stessa della domenica, quella che secondo tutti i servizi di meteorologia – abbiamo controllato – doveva essere una pioggerella si è trasformata invece in un temporale torrenziale. Già dall’esibizione di Lost Frequencies.
Su questo, i disagi sono stati reali: c’è chi ha aspettato un’ora e mezza sotto il sole ai cancelli per entrare, per poi magari vedere l’apoteosi finale impedita; e c’è chi si è ritrovato l’auto immersa e bloccata nel fango nei parcheggi a fine serata, impossibilitato a partire con le proprie forze, soprattutto nel caso del P1. Nel primo caso il disagio nasce dall’esigenza di rimettere in sicurezza ed in agibilità l’area (l’ingresso posticipato) e di evitare che collassi di nuovo tra voragini e fanghiglia (la chiusura anticipata); nel secondo caso dal fatto che per la conformazione fisica del territorio, l’unico spazio abbastanza grande non lontano dal festival che possa fare da parcheggio è comunque su prato, non un’area cementata ed asfaltata. Due notazioni importanti, che la gente lì per lì non poteva sapere – sei in mezzo al disagio, imprechi e t’incazzi e non pensi ed altro, è inevitabile – ma che vanno dette ed aiutano a contestualizzare: la gran parte delle pompe necessarie per “ripulire” dall’acqua e dal fango è ancora impegnata in Emilia Romagna (dove hanno avuto problemi ben più gravi di un festival che apre le porte un’ora in ritardo e le chiude mezz’ora in anticipo), mentre per quanto riguarda il parcheggio è stato lo stesso team del festival ad allertare il più possibile tutti i trattori e rimorchiatori della zona per aiutare le auto impantanate a potersi muovere di nuovo in autonomia.
Quello dei parcheggi è comunque un problema vero. Un problema acuito dall’interventismo delle autorità locali che però, non abituate ad eventi di queste dimensioni, per cercare di risolvere le criticità a modo loro spesso hanno fatto più confusione che aiuto, con ordini contraddittori, cambiamenti viabilistici in corsa (che hanno spiazzato anche i driver con a bordo gli artisti, per dire), altre amenità. Ma di colpe ne ha anche Nameless: non è possibile che parcheggi venduti in anticipo (ed anche a caro prezzo: parliamo di 20 euro al giorno) col sistema prenotazione abbiano registrato il sold out anticipato impedendo anche a chi aveva prenotato – e sborsato – di accedere al parcheggio a cui aveva diritto. Il sistema dei QR code non ha funzionato a dovere, o non è stato gestito nel modo dovuto. La cura che metti nei palchi, nella line up “fresca”, variegata e non convenzionale, nella produzione live eccellente, la devi mettere anche nel gestire i parcheggi. A maggior ragione perché stai in un contesto particolare: Nameless non è un posto (come il Kappa o Decibel) dove arrivi anche a piedi o in tram, non è un posto (come il Soundstorm) che è una spianata nel deserto, che è circondato (come Tomorrowland) da una ramificatissima rete autostradale o che è un complesso fieristico (come il Sónar Noche o il Time Warp) con annessi e connessi. È un po’ più, nel suo piccolo, come Glasto, sì: devi saperti cioè arrangiare, devi essere un po’ più sportivo e spartano. Devi parcheggiare in aree non perfette e sì, devi camminare un sacco: la bellezza di stare in un posto immerso nel verde dove le Alpi ti fanno da corona un po’ si paga, ma credeteci, è un prezzo che merita di essere pagato, fango compreso in alcune parti. L’unica soluzione sarebbe cambiare radicalmente location. Ma quando arrivi nel recinto del festival, non puoi fare a meno di mormorare “Qui è bellissimo, accidenti quanto si sta bene” (ed era quello che succedeva anche nella sede precedente, a Barzio).
Un’altra critica vera da fare a Nameless 2023 è che la cura che si è messa per le aree VIP (bellissime, a livelli “fiamminghi”) andava messa – in modo meno vipposo e costoso, certo – anche per altri due aspetti: le modalità pagamento/ricarica, le aree di ristoro normali (quelle insomma non VIP). Le code ai punti di ricarica crediti sono state semplicemente troppo lunghe, sempre, (e se anche fosse stato possibile caricare on line, la connessione con tutte quelle persone non era stabilissima, internet non sempre andava), segno che si è sottovalutato quell’aspetto lì; e le code di fronte agli stand del cibo sono state spesso troppo disordinate, bisognava prevedere un sistema di transenne ad incanalare il tutto. Non sono due cose impossibili. Abbiamo perso parte del Nameless 2023 perché eravamo a Barcellona, al Primavera Sound: ecco, lì col doppio delle persone non c’è mai stata mezza coda, il problema dei pagamenti è stato risolto dando ai vari punti ristoro centinaia di POS (senza più il sistema dei braccialetti) ed invece di un paio di enormi punti-cibo si è fatta la scelta di decine se non centinaia di piccoli stand ciascuno con la sua specializzazione gastronomica; ha funzionato, ed anzi, è stata una delle cose che più ha gratificato l’esperienza-festival, anche perché non eri intrappolato dall’algebra della conversione tra token ed euro (giocata quest’anno a Nameless in modo un po’ troppo frizzantino e poco immediato). E poi altra cosa: fantastico il servizio navette, dal Primavera. Molto deficitario quello di Nameless.
Lo staff del festival non è insomma esente da errori e sottovalutazioni, nell’aver affrontato questo salto di qualità così grosso. Ma il salto di qualità c’è stato: negarlo è malafede. Ballare sotto la pioggia, cosa che in Italia spesso genera un fuggi-fuggi manco ti stesse piovendo addosso la lava, ha il suo fascino (lo hanno scoperto perfino nella soleggiatissima Napoli, dove all’ultimo set della De Luca a sorpresa 7000 persone sono rimaste lì nonostante gli scrosci, dando vita ad una serata da ricordare). Essere in un festival che raduna 30.000 e passa persone implica sempre, e ripetiamo sempre, dover camminare di più per arrivare all’area dell’evento, dover affrontare almeno un’ora di coda per entrare ed uscire dalla viabilità ordinaria, dover affrontare file ai cancelli d’ingresso: anche nelle organizzatissime Germania, Belgio, Olanda, Spagna, Inghilterra. Essere protagonisti e testimoni di un evento come mai si è vissuto in Italia può avere, quasi inevitabilmente, delle ripercussioni pratiche personali di casini logistici nell’arrivare e nel partire. Se poi piove in maniera copiosa, a maggior ragione in un contesto poco cementificato e molto naturale, i disagi sono inevitabili: quelli che dicono “Io vado ai festival all’estero, e lì non succede!”, o ai festival esteri non ci vanno – ma dicono di farlo perché fa figo, fa “vissuto” – o se ci sono andati, beh, ci sono andati quando non pioveva.
Vivere una esperienza particolare ed indimenticabile implica sempre uno sforzo in più, prima, dopo o durante. Nameless in questo salto quantico del 2023 qualche errore l’ha fatto: sì. Deve stare attento a rimediarli, nel 2024. Ma comunque è arrivato ad offrire, crescendo anno dopo anno, una esperienza sempre più intensa, sempre più nuova, sempre più bella. C’è da essere orgogliosi. E c’è, pur con qualche legittima e doverosa critica, da fare il tifo per loro. Altrimenti ve li meritate, i localari che fanno sempre le solite cose e le solite solfe facendosi depredare dalle solite agenzie, a favor di pedalatori e spaccini e wannabe influencer italiche o para-spagnole dalle labbra a canotto.