Abbiamo già parlato di quanto sia incredibilmente interessante, atipica e preziosa la Biennale Musica veneziana quest’anno: un mondo solitamente feudo della classica contemporanea – ma con spesso spunti incredibilmente interessanti, che fanno fatica ad uscire dalla “bolla” ed è un gran peccato – quest’anno parla come non mai a “noi”: parla a chi segue la musica elettronica nata e forgiata nei dancefloor più sotterranei e qualitativi, o nelle sperimentazioni più ardite nate da house, techno, acid e decostruite in modo creativo. Per una ricognizione più precisa del tutto vi rimandiamo a quanto già scritto, ma qui abbiamo avuto il piacere di scambiare una agile chiacchierata con un nome che – per il “nostro” mondo – è un monumento di stile ed intelligenza: Steve Goodman alias Kode9. Ovvero il fondatore della Hyperdub, lo scopritore di Burial, uno dei massimo teorizzatori della dubstep più intelligente ed apocalittica e, poi, della necessità di combinare la bass music di stampo anglosassone con gli stimoli provenienti non solo dall’Inghilterra ma da tutti i continenti possibili; ma anche colui che faceva parte del CCRU, il leggendario Cybernetic Culture Research Unit sviluppatosi negli anni ‘90 di cui facevano parte tra gli altri il compianto Mark Fisher, Kodwo Eshun, il controverso Nick Land, o colui che è finito nel catalogo della prestigiossima MIT Press col volume “Sonic Warfare” uscito nel 2009, o colui che ha insegnato per anni alla London East University. Insomma, Steve Goodman è un personaggio, un artista e un pensatore eccezionale. Nella giornata del 27 ottobre si esibirà la sera in uno spazio suggestivo come le Tese dell’Arsenale (in line up anche Loraine James), mentre di giorno, alle 11, Nero – patrocinatore di entrambi gli appuntamenti – ha organizzato una tavola rotonda di spessore stellare con Mackenzie Wark, Simone Reynolds e lo stesso Goodman moderati a pungolati da Valerio Mattioli e Valerio Mannucci. Livelli alti, altissimi.
La Biennale Musica è il più antico festival dedicato alla musica classica contemporanea in Italia, con ormai quasi un secolo di vita alle spalle. Come si inserisce Kode9 come artista, in questo contesto? E Steve come persona, invece? Se esiste una differenza tra queste due entità…
Beh: diciamo che Steve è quello che di solito si mette a fare i discorsi e le concettualizzazioni, Kode9 è invece quello che fa casino. Se guardi il programma, Steve è quello che al mattino, alle ora 11 del 27 ottobre, che finisce nei panel assieme a Mackenzie Wari e Simon Reynolds, dissertando sul concetto di “rhythmachine” di Kodwo Oshun in contrapposizione all’”hardcore continuum” teorizzato da Reynolds; Kode9 è quello che la sera dello stesso giorno, dopo il live di Loraine James, proverà a trasmettere tutte queste idee, sensazioni e concettualizzazioni in un dj set.
Ecco, parlando di deejaying: tu ormai hai una esperienza enorme, hai cominciato a stare dietro la console ancora negli anni ’90. È davvero un lasso notevolissimo di tempo. Ti è mai capitato di avere dei momenti di crisi, rispetto al fatto di fare il dj? Ti è mai capitato di pensare “Basta, mi sono rotto le scatole di fare questa cosa”?
Il mio rapporto col fatto di fare il dj è in effetti un continuo saliscendi emozionale, una specie di montagna russa emotiva. Sì, ci sono ogni tanto alcuni contesti che – vuoi per la situazione, vuoi per il pubblico, vuoi per l’impianto – mi fanno pensare che forse è il momento di darci un taglio. Ma poi arrivano sempre subito dopo delle date che ti fanno subito capire di nuovo quanto sia meraviglioso poter condividere della musica che ami e farlo per suscitare nelle persone delle esperienze particolarmente intense.
Qual è il dj che ammiri di più?
Ce ne sono molti. Non c’è qualcuno che nominerei in particolare.
Una cosa che però ti differenzia dagli altri dj è lo spessore di esperienze come il CCRU, una pubblicazione importante come “Sonic Warfare”, l’essere anche docente all’università. Ma fino a che punto tutta questa tua identità intellettual-concettualizzatrice è separata dal suo essere artista, fare il dj?
Guarda, non credo ci sia una vera e propria separazione. Semplicemente, sono sempre io, in entrambi i casi: solo che opero in campi diversi e con modalità diverse. Queste due sfere diverse – perché effettivamente di base sono diverse – si nutrono l’una dell’altra. Spesso mi portano in contesti differenti ma in alcuni casi, quelli più fortunati ed interessanti, finiscono invece col convergere.
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Ti chiedo allora: ma nella scena elettronica attuale e nel modo in cui viene analizzata, raccontata o direttamente prodotta, c’è un eccesso di concettualizzazione o, al contrario, ne andrebbe fatta molta di più per dare più spessore alla scena? E già che ci sono, ecco un altro pezzo di domanda che fa un po’ da corollario: come è cambiato in questi anni il ruolo dei media nel nostro mondo?
Allora, partiamo dal fondo, dalla questione dei media: io ho l’impressione che il giornalismo musicale sia, come qualità e rilevanza, in uno dei suoi punti più bassi di sempre. Parte della ragione di tutto ciò penso sia molto semplicemente: le economie. I soldi che ci girano attorno. Credo che mai da tanto tempo a questa parte sia stato così difficile riuscire a sopravvivere occupandosi unicamente di giornalismo musicale, e questa situazione non aiuta di certo la creazione e la circolazione di testi di alta qualità attorno alla musica elettronica. La maggior parte dei contenuti pagati oggi arriva soprattutto dai contenuti di un certo tipo su committenza vuoi delle label, vuoi degli eventi eccetera. Sono insomma più i comunicati stampa che gli articoli oggi il succo del lavoro del giornalista se, oggi, vuole guadagnare qualcosa. A questa situazione già critica di suo aggiungi il fatto che comunque la musica elettronica è in giro ormai da decenni: tanto è stato detto, tanto è stato scritto, tanto è stato analizzato, difficile scoprire qualcosa di radicalmente nuovo e rivoluzionario. Bene: tutte queste cose messe assieme rendono difficile produrre delle nuove concettualizzazioni interessanti ed inedite attorno alla musica elettronica. Però attenzione, è altrettanto vero che proprio in questi anni stiamo assistendo a molte cose nuove dal punto di vista della “nostra” musica: generate da un lato dalle innovazioni tecnologiche, dall’altro dalla sua de-centralizzazione rispetto alle assi storicamente dominanti, quella europea e quella anglo-americana.
Se ti guardi indietro e vedi lo Steve ventenne o giù di lì che inizia a fare programmi nelle radio pirata fino all’approdo a Rinse e a creare serate come Ammunition e lo confronti con lo Steve attuale, quanto è profondo il solco fra i due? Quanto sono differenti? Cos’hai guadagnato e cosa hai perso, in questo viaggio?
Non è questione di aver guadagnato o perso qualcosa… Ciò che è importante, è che la musica ti tiene sempre giovane nello spirito: questa è la verità, questo è quello che succede.
Ok. E invece i dancefloor, la gente che va a ballare ai tuoi set e a quelli di artisti simili a te: quanto è cambiata?
È una specie di cerchio che si chiude, sai? Perché oggi suono piuttosto veloce come BPM nei miei set: sono tornato alle velocità che avevo quando come dj ero agli inizi.
Curioso.
Ho l’impressione che dopo la pandemia – e vedendo anche quanto sta diventando incasinato il nostro mondo – chi va a ballare deve sfogare oggi un sacco di energia repressa, buttandola sul dancefloor.
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Domanda finale un po’ più leggera e stupida: qual è il contesto più assurdo in cui ti è mai capitato di fare un set?
Avevo una data a Pescara, molti anni fa, in un festival che si svolgeva praticamente su una spiaggia. Sul palco dove c’ero io, non c’era letteralmente nessuno di fronte a me. Nessuno. Nel palco trance che era poco più in là, c’erano tipo migliaia di persone. Oh, io ho fatto il mio, ho suonato. Ma l’unica cosa che è successa è che ad un certo punto è arrivato un cane in mezzo alla pista. Mi ha guardato. Si è seduto. Ha defecato. E poi se n’è andato seraficamente via…