Facebook è (sempre più) spesso una fogna o una perdita di tempo, va bene, ma resta una cartina di tornasole tremendamente efficace su alcune dinamiche e su alcune macro- o micro- visioni del mondo. È bastato che il sottoscritto generasse un post che intendeva più che altro magnificare Brian Eno come persona dallo spessore umano e sociale semplicemente eccezionale, mettendo in campo il paradosso di come da artista magari si possa anche discutere ma come pensatore ed essere umano no (…perché sì, è un paradosso: la storia della musica contemporanea ha già sancito oggettivamente quanto Brian Eno sia rilevante come artista, punto), che subito c’è chi si è attaccato all’incipit “Come artista Eno si può anche discutere” del post per inneggiare, indignato e/o infastidito, alla lesa maestà. Potete leggere voi stessi nei commenti.
Della serie: Eno non si tocca, è talmente genio da essere incriticabile, come osi anche solo scrivere il contrario in un post del cazzo, allora ti meriti i trapper, eccetera eccetera. Va bene.
Sarebbe bello che queste Vestali di Brian avessero occasione di parlare col loro idolo (…sì, usiamo “idolo” non a caso): sarebbe probabilmente il primo a smontarli, e a chieder loro di abbassare i toni e le venerazioni.
È questa tra l’altro una costante di molte interviste di Eno, che non a caso svicola spesso e volentieri sugli aspetti tecnici del suo lavoro per non autoglorificarsi e non mettersi in primo ed unico piano allargando invece sempre lo spettro della conversazione. E questo lo si è visto plasticamente proprio ieri, nella cerimonia di consegna del Leone D’Oro alla carriera avvenuto alla Biennale Musica di Venezia, in una edizione che già sta regalando tante soddisfazioni dopo i primi giorni. “Mi chiamano genio, ma io non sento di esserlo” è stato infatti l’esordio del suo discorso di accettazione nella Sala delle Colonne del Palazzo Ca’ Giustinian. Più chiaro di così.
Non era un vezzoso mettere le mani avanti. Non era un “Non chiamatemi genio” per ottenere il roseo controcanto corale del “Ma sì che lo sei, ma sì che lo sei!”. Eno ha dato una spiegazione profonda e ragionata su questa sua posizione, criticando dalle fondamenta le dinamiche che stanno attorno alla definizione di “genio” (una figura, spiega, molto legata a un certo modo bianco, occidentale e “dominante” di vedere la cultura e la società) ed affermando come dal suo punto di vista ogni persona di valore deve questo suo valore non solo ai suoi meriti, ai suoi talenti ed alle sue capacità, ma anche e soprattutto all’”immergersi” nella società, all’intelligenza collettiva, a un network di spunti e di relazioni.
Che è un modo bellissimo di vedere le cose.
Questo discorso si sviluppa poi in modo davvero interessante pochi passaggi logici dopo, e qui ritorna in campo Facebook con le sue polarizzazioni e i suoi “guardiani della morale e dell’estetica”: “Il problema è che viviamo tutti ostaggio delle manie di una serie di adolescenti mai cresciuti che operano nella Silicon Valley e che hanno inventato i social: ovvero entità che – proprio come entità costitutiva e per come sono stati disegnati i suoi algoritmi – sono fatte per dividerci, per polarizzare”. Anche immaginarsi dei “geni soli al comando”, aka la mitologia dei “self made men” dai talenti al di sopra di ogni giudizio, è parte di questa dinamica di polarizzazione, spiega Eno. Che poi prosegue con meravigliosa pacatezza facendo l’elogio dell’istruzione pubblica e degli istituti culturali che operano anche in contesti non sempre semplici (“Io per primo sono stato beneficiario di questa cosa”, ricorda), così come sottolinea l’importanza, anzi, la necessità di una cultura che sia diffusa e non elitaria, non ostaggio di cerchie ristrette.
Un discorso di sinistra? Un discorso di sinistra. Ma non un discorso di sinistra radical-chic. Ad un certo punto infatti scandisce chiaramente come il vero compito dell’arte non sia épater les bourgeois, creare insomma qualcosa che sia per forza “contro”, radicale e contestatorio, quanto piuttosto in generale immaginare e costruire degli “altri mondi possibili”, per dare a tutti la possibilità di vedere l’effetto che fa: è lì che per Eno l’arte illumina davvero, e trova il suo senso più autentico. Un senso generoso, aperto, non dogmatico. Di nuovo: è l’ennesima dichiarazione di libertà di un artista che per mille motivi ha lasciato un segno pazzesco nella musica degli ultimi decenni, ma non vuole essere ingabbiato né vuole ingabbiare i colleghi in formule predeterminate, in direzioni dall’alto (o da lato) sancite.
C’è qualcosa di molto sbagliato nel trattare Eno come un santino, come un Uomo Superiore in mezzo alle miserie della musica commerciale, come un genio incommensurabile di fronte a cui ci si deve solo inchinare ebbasta, manco fosse Sfera. E pensiamo di poter dire: non è tanto e non è solo la nostra opinione questa, è proprio quello che ritiene lui per primo.
Per mille motivi si è ritrovato in mezzo ad alcuni crocevia fondamentali degli ultimi decenni con un ruolo da assoluto protagonista: la trilogia berlinese di Bowie dopo gli inizi coi Roxy Music, le gemmazioni più geniali e/o del post punk newyorkese (a partire dalle cose incredibili create con David Byrne), la codificazione dell’ambient music ma anche contestualmente l’incontro coi canoni sonori non-occidentali, l’ultimo grande sussulto degli U2 – e questo solo per fare un elenco superficialissimo, che in realtà dovrebbe essere lungo dieci volte tanto e comprendere i suoi progetti non solo musicali.
È poi colui che più e meglio ci ha fatto uscire dalla monodimensionalità della musica-suonata-con-strumenti iniziando ad utilizzare nastri magnetici prima (“Che scoperta pazzesca: puoi invertire lo scorrere del tempo, fermarlo, farlo andare a ritroso, semplicemente fissando su nastro la musica”) e l’elettronica poi: quindi chiunque stia leggendo Soundwall ed ama la club culture – fosse anche solo per inseguire notizie su Peggy Gou – dovrebbe essergli grato.
C’è qualcosa di molto sbagliato nel trattare Eno come un santino, come un Uomo Superiore in mezzo alle miserie della musica commerciale, come un genio incommensurabile di fronte a cui ci si deve solo inchinare. E pensiamo di poter proprio dire: non è tanto e non è solo la nostra opinione, è proprio quello che ritiene lui per primo
Il punto è che riuscito a fare tutto questo, e molto altro, non perché sia un “genio”, una “entità superiore”, una persona dal talento tecnico fuori scala: ma perché si è approcciato con umiltà e curiosità rare, sfavillanti ed adamantine alla musica ed alla “intelligenza collettiva” che la circonda. Su tutto il resto, Eno non è un virtuoso di nulla. Ed è anche un compositore pop-rock con un bel tocco, sì, ma non un’eccellenza, non un creatore di canzoni immortali, così come nel campo della musica di ricerca è un illuminato teorizzatore più che un geniale ed iper-tecnico esecutore/compositore.
Questo ci fa arrivare al “Si può criticare Eno come artista”. La sua esibizione alla Biennale, una riedizione live di “Ships” con una vera e propria orchestra in un contesto magico come il Teatro La Fenice, prima mondiale assoluta, è stata sì molto bella e suggestiva ma se molti hanno gridato al capolavoro, ad una esperienza incredibile e pazzesca, sinceramente chi vi scrive ha qualche tonalità di entusiasmo in meno e qualche piccola critica in più. Si può? Si può.
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Proprio questa resa live orchestrale di “Ships” ha mostrato infatti oltre alle qualità anche i punti leggermente deboli di Eno e del suo artigianato musicale: intendiamoci, il livello è altissimo, nel suo complesso la serata è stata di una suggestione, potenza ed eleganza notevoli, ma più di un passaggio ad orecchie allenate su un certo tipo di musica (classica / di ricerca) è risultato negli arrangiuamenti un po’ scolastico, o comunque diciamo non del tutto rivoluzionario o sofisticato. Del resto Eno è un compositore sui generis: come detto prima, più un incredibile teorizzatore – e un solido autore/produttore pop-rock – che uno scintillante esegeta delle declinazioni più intricate ed estreme della contemporaneità sonora. E in un contesto “colto” come la Biennale Musica e La Fenice questa cosa almeno un minimo salta all’orecchio, se non si è abbacinati dal “santino” e dalla voglia di porlo al riparo da ogni osservazione non laudatoria.
Dire questo non significa però dire “È stata una merda, Eno è un bluff”. No.
Se si arrivava a teatro “già convertiti”, ovvero già con l’idea che ascoltare Eno con un’orchestra è una life time experience che non può che essere perfetta e superiore, allora chiaro che osservazioni in senso contrario non attaccano e non sono ricevibili, vengono cioè viste come una contestazione irrispettosa e ad alzo zero, “…come ti permetti tu di criticare Eno con tutta la merda che c’è in giro”. Ma a lui piacerebbe questo atteggiamento? Lo vorrebbe, lo vuole? Siamo abbastanza convinti che la risposta sia: no.
Siamo convinti che gli piacerebbe leggere di come la sua collaborazione con la bravissima Baltic Sea Philarmonic (orchestra molto giovane e versatile) potesse essere sfruttata ancora meglio, facendo gigioneggiare di meno il direttore d’orchestra Kristjan Järvi e lavorando un po’ di più con l’elettronica (senza esagerare, senza destrutturare, ma immettendo degli elementi a sorpresa in più). Siamo convinti che troverebbe interessante sentire come il momento più intenso ed emozionante sia stato il bis finale, quello più coraggioso e “sporco” a livello musicale, seppure inserito nei canoni ambient (canoni in cui lui è, lo ripetiamo, assoluto caposcuola, ma non per forza l’interprete più estremo o virtuoso – non lo è secondo noi mai stato). Siamo convinti che non si offenderebbe se dicessimo che un vero valore aggiunto alla faccenda sia stato da un lato il contesto, La Fenice, dall’altro il lavoro sulle luci, davvero appropriato e suggestivo anche nell’interagire con l’architettura del teatro.
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Tutte questo sono piccole critiche ad uno spettacolo che, nel suo complesso, è stato comunque emozionante, intenso, suonato benissimo, con momenti di commozione autentica (“Ships” è un lavoro importante, ed Eno si è tra l’altro misurato anche come cantante venendone fuori benissimo), e che pure se non aveva la complessità musicale e la ricchezza tecnica della musica classica – contemporanea o meno – propriamente detta (perché no, non ce l’aveva, e va detto), ha comunque colpito nel segno.
Sì. Brian Eno si può criticare. Ma è forse la persona e l’artista che più e meglio ha fatto per aprire le menti delle persone appassionate di musica dagli anni ’70 ad oggi, niente di meno, nessuno meglio di lui ad unire punti e contesti popolari vs. colti e ad inventarsi nuovi emozionanti scenari; ed è anche persona ed artista che negli ultimi anni ha trovato un nuovo equilibrio, tra il grande concettualizzatore venerato da un lato ma dall’altro anche l’artista capace di incidere dischi interessanti e fare collaborazione stimolanti oggi, nel tempo presente.
Il torto maggiore che gli si potrebbe e può fare è trasformarlo in feticcio, in Madonna Pellegrina, per i meriti acquisiti tra gli anni ’70, ’80 e, in parte, ‘90. Lui, a occhio, non ha la minima intenzione di avallare ed assecondare questo gioco. È il primo a prendersi meno sul serio e a dissacrare la sua figura, ogni volta che si esprime pubblicamente; e, assicura chi ci lavora, e abbiamo almeno un paio di fonti dirette, nemmeno quando lavora in studio.
Lunga vita, ed infinita gratitudine, a Brian Eno. E brava la Biennale Musica ad omaggiarlo del Leone D’Oro, e a spingerlo ad imbarcarsi in questa nuova avventura orchestrale.