Il ricordo è divertente: c’è stato un momento in cui, fra interviste e concerti, c’era capitato di vedere Amp Fiddler tipo tre volte in meno di un mese. Alla terza – si era a Milano, all’Alcatraz, alla fine di un suo concerto – ci si era salutati e lui aveva fatto, dopo un momento di pausa: “Ma… dove siamo? In che città siamo? Parigi?”. Stiamo parlando di molti anni fa, quando la sua carriera pareva in decollo e, soprattutto in Europa, veniva accreditato come una delle voci migliori del soul della nuova generazione, quello più sofisticato ed illuminato. Calendario serrato in una Europa che – vista da Detroit – sembrava ancora un magma indistinto, ci sta perdere l’orientamento…
Ma in realtà Amp Fiddler aveva lasciato moltissime tracce in patria, seminato proprio in maniera profondissima. Leggenda vuole che sia stato lui il primo a regalare un AKAI a J Dilla (e ad insegnarli come usarlo, e a presentarlo poi a Q-Tip ed agli A Tribe Called Quest); di sicuro Moodymann lo ha sempre considerato una personalità cruciale, un mito, un esempio, e ha mantenuto questa convinzione ospitando quando necessario Amp Fiddler nella sua label personale, la Mahogani (vedi “Amp Dog Knights”, 2017, quando già Fiddler poteva essere considerato un artista con un grande futuro dietro le spalle).
Quel che è certo è che poi, nonostante collaborazioni illustri (da Jamiroquai a Prince) ed una fiducia iniziale dell’industria (come dicevamo però più europea che americana), la carriera di Fiddler non è mai decollata davvero. A rendere il tutto ancora più difficile per non dire impossibile una brutta malattia, che lo ha colpito pesantemente un anno fa. Sono state lanciate diverse sottoscrizioni per pagargli le cure mediche, e tra l’altro proprio una settimana fa – il 10 dicembre – nella sua Detroit era stato programmato l’evento Amped Up For Amp, il cui incasso sarebbe andato tutto a finanziare le costose cure mediche di cui necessitava.
Ora purtroppo non serve più. Resta un artista che ha portato avanti in tempi non sospetti – sì, davvero sfortunato nel tempismo – la bandiera di una musica soul urbana e contemporanea ma non paracula e sfacciata. Troppo sofisticato per funzionare in America, troppo in anticipo sui tempi per i terreni europei, perché il momento di massima esposizione è arrivato quando dalle nostre parti l’attenzione e la considerazione verso la musica black era al minimo, appalto solo di pochi carbonari (parliamo di metà anni 2000, potete recuperarvi gli album “Waltz Of A Ghetto Fly” ed “Afro Strut””), non come oggi che l’attenzione hipsterica va da Drake a Kamasi Washington più tutto quello che ci sta in mezzo.
Poi chiaro, lui probabilmente era troppo alla mano e bonario – e pure un po’ svagato, come rivela l’aneddoto che ci ha riguardato direttamente – per lasciare una traccia veramente profonda e vincente nel mercato. Ma in tanti lo porteranno nel cuore, e proveranno a ricordare quanto sia stato un adorabile “unsung hero” della musica black degli ultimi decenni.