Figlio della scuola genovese del rap, figlio dei palazzi con le crepe, figlio delle strade, figlio della forza della scrittura: Guesan, al secolo Walter Macrillo, è questo e molto altro. Insieme a Tedua, Ill Rave, Izi e Vaz Tè appartiene al collettivo della Wild Bandana, gruppo hip hop formatosi a Genova nel 2008. La parola nel cantautorato ligure è sempre stata molto importante per i temi sociali che ha creato. La vicinanza con la Francia, da dove arrivavano i primi canzonieri, ha contribuito a conferire a questa città un’onda poetica che Guesan cavalca perfettamente. Il nuovo disco “Vietato Morire”, uscito a gennaio, segna l’inizio di una nuova storia personale, fatta di originali elaborazioni sulla sua città e di importanti riflessioni sul suo percorso artistico. Quattro anni dopo “Nuwanda”, Guesan racconta a cuore aperto la genesi del nuovo disco. È un progetto figlio di tante rinunce, sofferto e voluto. In questi mesi ha pensato tante volte di mollare tutto, ma l’amore per il rap lo ha tenuto in piedi. Un album insomma denso di cocci di vita dove inserisce tutto senza filtri: “Voglio arrivare al cuore delle persone”. E per farlo, trova forza nell’essenzialità del suo personaggio: la sua penna, profonda e consapevole, traccia un’identità matura e coerente, simbolo della terra che ha cullato la sua nuova generazione artistica.
C’è un proverbio inglese che dice “Talk the talk, walk the walk” e si usa per affermare quando una persona supporta quello che dice con le proprie azioni. Lo trovo perfetto per raccontare il tuo percorso e per descrivere “Vietato Morire”. Cosa ne pensi? Come è nato il titolo del disco?
Guarda, se avessi conosciuto questa frase probabilmente l’avrei utilizzata! Non la conoscevo prima. Effettivamente è vero. Credo che sia anche ribaltabile, nel senso che scrivo quello che vivo perché vivo quello che scrivo, vedo che c’è la stessa linea coerente. Il titolo, “Vietato Morire”, nasce perché un giorno, non so per quale motivo, stavo pensando al fatto che oggi tutto è “vietato”, ci sono un sacco di cose che non puoi più fare. Allora mi è venuta in mente questa frase che di fatto è “Ma se è tutto vietato, allora è anche vietato morire!”, come dire “Allora vietiamo anche quello, no?”, che ovviamente è pura utopia, è un paradosso. Nel tempo, poi, ha preso un’altra forma perché nella gestazione del disco c’è stato un momento in cui non ho fatto musica per sei mesi: non ho più scritto, non volevo più andare in studio, non volevo più fare niente. Ma mi tornava sempre questo titolo nella testa e mi dicevo “Vietato Morire”, inteso come “Vietato Mollare”.
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Nel 2013, con Izi, tu pubblichi “Macchie di Rorschach Mixtape”. Che effetto ti fa sapere che questo progetto oggi sia diventato una pietra miliare per l’Hip hop genovese?
Penso spesso a questa cosa. Credo nella regola per cui, quando fai le cose con spontaneità, restano nel tempo. Quel mixtape è stato fatto senza criterio, cioè… apriamo il beat, scriviamo, andiamo in studio, racimoliamo i soldi – proprio a livello di monete! – per pagarci lo studio e fare quello che dobbiamo fare, stop. Poi, riascoltandolo, credo che sia stato anche un progetto di livello rispetto a quello che usciva ai tempi, ma rispetto anche a tante cose che escono adesso! Quindi, credo che se lo sia meritato a modo suo questo spazio, questa rilevanza. Questa roba qui ci ha dato grande visibilità a Genova ed era il primo progetto per entrambi, anche se entrambi avevamo già fatto musica. Questa esposizione ci ha permesso di fare date ogni weekend, sempre nello stesso posto. Ci fermava già la gente per strada, e diciamo che questa cosa ci ha un po’ viziati. Soprattutto, se devo dirti la verità, ha viziato me. Nel senso “Okay, ma quindi il livello non è più zero, è già un qualcosa!”. E invece poi è sempre un tornare a zero per dare di più.
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Nel 2014 con Tedua, nella traccia “Sangue” in “Orange County Mixtape”, scrivi: “I pische rubano le bombolette al ferramenta/ scrivono Wild Bandana, sanno che li rappresenta”. Qual è il tuo rapporto con il mondo del writing? Cosa significa per te rappresentare la Wild Bandana?
Il rapporto con il writing, in realtà, non è mai finito: nel senso che ho sempre il pennarello con me, perché è proprio una malattia. Secondo me, ad un certo punto, diventa davvero proprio una malattia! Prima anzi era molto più forte. Andavo a disegnare una volta a settimana e, se era possibile, andare a fare i treni, facevo i treni, sì. Non ne ho fatti tanti, però cercavo di farli perché mi piaceva proprio quella roba là. Col tempo poi cresci e inizi ad avere più responsabilità. Sono stato arrestato a diciott’anni appena compiuti. Questa cosa non ha poi avuto conseguenze… Lì sai… Non avevo niente. Oggi ho una casa, sono sposato da poco: quindi metto a repentaglio più cose. Allora penso “Forse è meglio darsi un attimo una regolata”. Per me, comunque, è come se fosse sempre una scimmia che ho sulla spalla costantemente. In realtà ho visto anche tanti della nuova generazione avere questa passione. Ad esempio Drefgold è uno che fa i graffiti e questo mi gasa di brutto! È una cosa che mi piace, che mi tiene saldato alla strada perché lo fai proprio in strada ed è la prima disciplina con cui sono entrato in contatto. Invece il rapporto con Wild Bandana negli anni è un po’ sbiadito. Non il mio in particolare, ma credo proprio in generale, perché ci sono delle distanze geografiche e, mi vien da dire, anche sociali. Nel senso che c’è chi ha di più, c’è chi ha di meno, e quindi son due mondi che iniziano ad incontrarsi un pochino meno. È una cosa che a me spiace tantissimo. È una cosa che ai fan sento che dispiace, soprattutto chi segue magari più me. Mi fa un po’ soffrire, perché sono sempre viziato dal fatto che eravamo tutti insieme. Poi vabbè, ognuno ha le sue responsabilità. Io ho avuto la mia responsabilità di non trasferirmi a Milano quando dovevo farlo. Siamo in cinque, ognuno ha una visione diversa. C’è stata da parte mia, e, in realtà, c’è tutt’ora la volontà di fare un disco tutti insieme. E c’è sempre! Poi ovviamente, tra il volerlo fare, il poterlo fare e realizzarlo, il processo è infinito. Per come sono fatto io, si fa domani; per come sono fatte altre persone no, ecco. Ill Rave è nel disco, ci becchiamo, Vaz anche, quindi il rapporto con tutti c’è. Rappresentare Wild Bandana prima era più un orgoglio, oggi diventa, a tratti, più un peso: perché la gente magari si aspetta qualcosa. Banalmente esce la tracklist del mio disco e la gente mi scrive “Ma Tedua, Izi, Vaz?”: e tu come glielo spieghi che non è fattibile? E che non è neanche colpa tua? Quindi, si… È un po’ un peso perché ovviamente poi la gente ti riconosce come tale ed è come andare da uno e dire “Guarda che non è più così”, “Mamma e papà non stanno più insieme”, e magari il tipo ci rimane pure male, capito? Per come me la vivo, diciamo che è un po’ così. Però è anche vero che mi vivo le cose in maniera un po’ pesante. Potrei andarci molto più leggero, no? Sono uno che si lega le cose al dito, che ci fa caso. E poi è difficile che ci passi sopra.
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“Guesan è una penna della Madonna”: è un concetto condiviso da molti, compreso me. Il tuo flow è autentico e si sente, lo testimonia anche “94Mixtape” dove ti diletti su alcune basi iconiche del rap italiano. In cosa, se c’è qualcosa, vuoi ancora migliorare tecnicamente? Ci sono progetti in cantiere o arenati a cui vuoi dare ancora una chance?
Su cosa vorrei migliorare, ti dico che vorrei essere più per tutti. Nel senso che mi rendo conto che io parlo dei cazzi miei, sostanzialmente. Però facendo io una vita abbastanza normale, sono i cazzi di tutti! Sono anche fan di un altro genere di musica: ad esempio sono mega fan di Cremonini e di Max Pezzali, e ti confesso che a me piacerebbe molto avere la capacità di scrivere in quel modo. In quel modo che arrivi a tutti, cioè. Sembra una stronzata, perché uno dice “Ma se tu sai scrivere in maniera più complicata, sai scrivere anche così!”. E invece no! Perché nella testa si creano dei meccanismi incredibili. Attualmente però sto lavorando ad un progetto con un ragazzo di Genova che si chiama Kiddo. Lui viene dal rock e dal metal, ha una bella penna, sa produrre, sa cantare, sa suonare, ed è successo che ci siamo beccati un paio di notti in studio e stiamo scrivendo questo Ep, che è un po’ indie-rap. Se ti serve una definizione, è molto simile a quello che hanno fatto Coez e Frah Quintale. Senza sapere nulla, noi abbiamo iniziato le nostre registrazioni leggermente prima. Proprio una settimana dopo che abbiamo iniziato a lavorare, esce il loro disco. Però, in realtà, sono stato contento: perché vuol dire che magari è una wave da seguire, e lì mi sono lasciato un po’ più andare, nel senso che sono diventato molto più tranquillo nell’essere semplice nella scrittura e più alla portata di tutti. Questo è un obiettivo che vorrei raggiungere perché mi rendo conto che tante cose sono belle, ma sono troppo impegnate, troppo complicate: tanta musica da cameretta e poca musica da cantare. Musica da cameretta intendo che te la senti solo nelle cuffie e ti fai tutto il viaggio, però musica da cantare ne ho né poca, ed è un difetto che ho sempre avuto. Poi io sono uno che quando fa il disco, quello che canta è quello che ha tenuto. Il resto è cancellato e non esiste più. E quindi, per rispondere alla tua domanda, l’unico progetto in cantiere è questo qui, che in realtà è anche a buon punto.
Torniamo al disco. “La provincia è una condizione” canti in “Vent’anni” con Ill Rave. Che rapporto hai con lui? “Vietato Morire” esisterebbe senza la vita in provincia?
Credo che non esisterebbe. Perché con “è una condizione” intendo che effettivamente ti tiene su un altro piano. Fai delle considerazioni sulla vita che magari, se vivessi in centro o in una condizione più agiata, assolutamente non faresti. Anche scelte politiche. Di cosa dire e di quando dirlo. Certe cose non le fai se non le vivi… Quindi, no, il disco non esisterebbe. Esisterebbe magari un disco da classifica. Il rapporto con Rave c’è, nel senso che ci supportiamo a vicenda. Io rompo il cazzo a lui, del tipo che deve andare in studio e fare le cose con costanza, così come lui rompe il cazzo a me. Come quando non volevo più fare musica: è stato forse l’unico a dirmi “Bro che cazzo dici?!”. In più, anche con lui vorrei fare un disco. Da tempo ne parliamo. Non abbiamo ancora scritto nulla. A livello di gruppo siamo forse i due più simili. Ho sempre pensato che unire le forze non fa mai male, e che dire la stessa cosa in due è più forte che dirla da solo.
Cosa è cambiato, in te, da quando hai pubblicato “Bené” e “Buscapé”? Che fotografia fai di quel momento? A Genova c’è una “Cidade de Deus”, visto che il riferimento cinematografico è bello chiaro in questi due pezzi?
Le due ispirazioni non derivano tanto dal contesto sociale del film, quanto proprio dai due personaggi. Il discorso che c’era attorno a Buscapé era il fatto che lui vivesse in quel quartiere. Non spacciava, però era lì dentro. Era con quelle persone, viveva in quella condizione, ma se ne stava fuori e ci faceva invece le foto: quindi ne faceva arte! Diciamo che guardando il film mi ci sono rivisto. Perché anche io sono lì dentro, però non faccio uso di sostanze. Non ho mai spacciato in vita mia, però sono stato con gli spacciatori. E quella roba là, questa condizione, anche io l’ho presa per farne arte: cioè scriverla nei testi. Quindi io mi sono rivisto in Buscapé. Il discorso è “potevo fare Benè e invece ho fatto Buscapé”. La “Città di Dio” qua a Genova? Si. Potrebbero essere i quartieri popolari effettivamente. Ci sono tanti posti che sono abbandonati a se stessi. Come dice Vaz Tè in un pezzo “case popolari, non c’è manco un ristorante”. Se ci pensi, magari per un’altra persona è normale dire che in un paese ci sia almeno un’osteria, ma lì non c’è niente. Non c’è nemmeno un tabacchino. Quindi si! I nostri quartieri popolari sono la nostra Città di Dio.
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“Rispetto poche persone, rispetto Zero e Sayf (my G)” dici in “Patrimonio”. Come vi siete conosciuti tu e Zero, e come è nata questa collaborazione?
Allora, io e Zero ci siamo conosciuti una valanga di anni fa, non ti saprei dire quando. Potrebbe essere nel 2010, perché mio cugino, che faceva rap e che mi ha introdotto anche alla cultura hip hop, lo conosceva già: Io, che ero ragazzino, gli facevo sentire della roba. Loro per me erano già degli idoli, inizialmente il rapporto era questo. Poi nel tempo abbiamo preso a formare un vero e proprio il sodalizio io e Zero, e a lavorare insieme, direi nel 2016, quando abbiamo fatto “Blu”. Entrambi ci siamo poi sentiti di dire “Okay non siamo loro, che stanno facendo la trap a Milano, però non siamo neanche la preistoria che c’era prima!”. Eravamo una via di mezzo. Ci sentivamo soli entrambi, e quindi è diventato “Okay proviamo a creare qualcosa di forte assieme”. A tratti sembrava anche che ci fossimo riusciti, chissà… Magari qualche seme in giro lo abbiamo lasciato!
Ho trovato che mettere Sayf in “Ammore” sia stato super azzeccato, così come in tutte le precedenti collaborazioni, e mi sembra che con lui tu abbia davvero un rapporto fraterno. È così? Da quanto tempo lo conosci e come mai hai deciso di chiamarlo anche per questa traccia?
Sì, è così. Ci siamo conosciuti in studio da Zero. Non so come fosse finito a registrare nel suo studio, perché lui è di Santa Margherita. Però era finito lì. Zero, i primi tempi che aveva aperto lo studio, siccome avevamo fatto questa cosa di “Blu”, voleva creare una nuova corrente. Mi proponeva delle collaborazioni con artisti emergenti dicendomi “Oh proviamo a tirare in mezzo sta gente!”. Già io sono una persona che non ha fiducia nel futuro e quindi, qualsiasi cosa lui mi proponesse, per me era un “No!”. Un giorno però insiste e mi dice “Guarda che c’è sto Sayf che secondo me spacca…” e mi fa sentire la sua roba. Effettivamente lui era mega acerbo, però aveva un’impronta al microfono e un modo di fare che non avevo mai visto prima. Da lì, è nata nella maniera più spontanea un’amicizia, che poi è diventata effettivamente un legame fraterno. Io e Sayf ci vogliamo veramente tanto bene. Inizialmente lui doveva essere in “Liricista”, solo che non gli andava, giustamente, di dire “Mi mandi il pezzo e faccio la strofa”; allora ci siamo trovati un giorno in studio e io gli ho detto “Bro, io ho questo beat e ci ho già scritto su qualche frase”. Volevo fare qualcosa di diverso, creare una sorta di poesia. Lui l’ha sentita e ha cominciato subito a pensare alle parole. Ci siamo dati una mano, e così poi è nato il pezzo. È uno dei miei pezzi preferiti per come è nato e, secondo me, è super azzeccato per quello che è Sayf e per quello che siamo io e lui insieme.
In “Nonègucci”, traccia stupenda a mio avviso, citi Fabri Fibra di “Turbe Giovanili” con “Dove fuggi? Dove fuggi?”: quanto ti ha influenzato questa fase dell’hip hop italiano e, in generale, con cosa sei nato dal punto di vista musicale?
Ti ringrazio, sono contento che ti piaccia. “Nonègucci” è la mia traccia preferita e, tra l’altro, è l’ultima che ho scritto e registrato. Sulle influenze ti dico che io ho ascoltato fin sempre rap italiano. Ho ascoltato pochissimo rap americano, invece. O meglio, l’ho approfondito dopo, proprio mentre facevamo “Blu”, perché Zero mi aveva dato due riferimenti: Kanye West e Jay-Z. Approfondendoli ho capito il loro potenziale. “Blu infatti, ricorda vagamente “Watch the Throne”. L’idea era di fare una cosa del genere. Tornando al rap italiano, ho ascoltato un sacco di merda perché da ragazzino mi ascoltavo, con tutto il rispetto, gli Assalti Frontali e questa roba qua, ripeto, con tutto il rispetto, tecnicamente però non mi ha insegnato nulla… Ho fatto poi un lungo periodo in cui mi ascoltavo il rap fatto per il rap: Bassi Maestro, Mondo Marcio, Kaso & Maxi B, cose del genere. Ero andato a pescare delle roba che nessuno oggi ascolta più. Finché poi ho scoperto i Dogo, e con loro ho iniziato a dire “Okay questi parlano di quello che vedo, di quello che vivo, e mi piace questa roba qua!”. Ho approfondito tutta la Dogo Gang, Marracash su tutti. Più che un’influenza, Marra lo vedo proprio come un antagonista, nel senso che io dico “Voglio fottere solo con lui!”. Io sono dell’idea che, se uno approfondisce, trova le similitudini e quando ascolto la sua roba è l’unico che voglio fottere. Gli altri li sento, dico “Bravi!”, ma… li ho già fottuti per me.
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“Kandinskij” racconta tante cose. In “Sakura” però tu dici: “Poi mi sono accorto che lo stadio era gremito/ proprio quando avevo smesso di farmi il tifo” Chi ti ha supportato quando non volevi più fare musica? Perché avevi deciso di smettere?
Il momento in cui avevo deciso di smettere fare musica coincide con la rottura di un’amicizia, quella con il mio migliore amico. Per motivi miei, si è rotta: un’amicizia che andava avanti da 15/16 anni. Quindi ad un certo punto mi sono trovato senza alcun punto fermo. Nel tempo, poi ho stretto nuove amicizie belle e profonde. Una tra queste è Kiddo. Siamo anche diventati colleghi. Lui e altri ragazzi hanno proprio insistito sul fatto che dovessi continuare a fare musica. Diciamo che erano persone esterne a questo mondo, e mi hanno dato un’altra linfa. Sono poi quelle che mi hanno aiutato a fare la copertina di “Vietato Morire” e a fare tutti i reel su Instagram. Ho pensato un’altra volta che le persone che mi aiutano non sono quelle che “dovrebbero”, quelle che in teoria sono del giro, ma sono prima di tutto le persone normali. Mi sono accorto che c’era gente che credeva in me, “Che lo stadio era gremito”, e da lì mi sono detto che si poteva fare. Ridimensioniamoci, magari, ma si può fare! Magari l’obiettivo non è più fare doppio disco di platino, ma è fare un bel disco ed essere contenti… Ho rivisto quali erano i miei obiettivi, le mie priorità. Ho capito qual’era la mia posizione, smettendo di fare capricci su alcune questioni. Poi, in quel periodo avevo conosciuto Alda (ndr cantante con la quale collabora in “Sakura”). E tutto questo coincide con la mia ripresa, perché sono andato a Milano con uno di questi ragazzi, Gae, che ha realizzato la copertina. Eh si! A ben vedere “Sakura” potrebbe essere il pezzo con cui sono rinato.
Il ritornello di “Pretese” lo concludi dicendo: “Dietro alle mie stories leggi Sangue (Guesan) in tutte le stazioni”. Una volta per conoscere qualcuno bastava salire su un treno. Oggi con i social è cambiato tutto. Com’è cambiato il racconto che si fa della strada? Trovi che abbia perso credibilità?
Non voglio fare il classico discorso da vecchio, ma… sì! Ha perso. Il tutto ha perso credibilità Io ho questo brutto vizio: quando faccio i lavori in casa metto le playlist di Spotify. Oggi mi stavo ascoltando “Novità Rap Italiano” per vedere cosa fosse uscito e stavo ascoltando un pezzo di non so chi (comunque penso che fossero dei ventenni), e il pezzo diceva “Quando avevo vent’anni..”: ma ne avrai ventidue oggi! Cioè, che racconto mi stai facendo?! C’è tutta questa necessità di raccontare un passato turbolento quando tu, in realtà, il tuo passato lo stai vivendo! È il tuo presente, capito? Tutta questo roba della mamma, per la mamma ad esempio… Ti dico, più che essere magari fake, il fatto è che è la storia di tanti, e si dà la possibilità a tutti di raccontarla, diventando così monotona. Di conseguenza perde credibilità, anche quando è vera. Io, se ti racconto una cosa, non ti dico che ho le prove, però te la racconto così tanto nitida che ti dici “Questa è la sua versione di quella roba là”. Adesso, in cinque minuti potrei scrivere il testo X del mio amico che spaccia e che vuole uscire dal quartiere, una roba standard. Si, ma raccontami la tua visione, invece! Perché tu vuoi uscire dal quartiere? E non può essere perché avete tutti sta mamma che dovete salvare…
(Guesan fotografato da Alex Pear; continua sotto)
“Vietato Morire” trovo che sia anche un inno al coraggio. Vedi coraggio oggi in questa nuova generazione di rapper?
Hanno coraggio a metterci la faccia. Nel senso che io non sono tanto una persona che ci mette la faccia. Non mi promuovo tanto. Non sono su ogni piattaforma. Quindi, sotto quel punto di vista, hanno un sacco di coraggio perché riescono a mettere da parte la loro dignità pur di farcela. È un tipo di fame che un po’ invidio. Allo stesso tempo, è un po’ figlia della nostra società. C’è un rischio di perdita di valori. Per esempio, se uno per promuovere il disco si ficca un dito nel culo mentre canta e tu provi a dire “Sì, fa ridere, però… Cosa cazzo stai facendo pur di farcela?!”, la loro risposta è che ti dicono che quello col dito ce l’ha fatta, e tu no. È davvero così? È 50 e 50. La verità sta nel mezzo. Hanno tanto coraggio perché si buttano parecchio. Mi impongono la loro scelta. Ma allo stesso tempo non esistono modi migliori per farlo, questo è vero. Forse qualcuno dovrebbe dargli degli esempi. L’Italia è un Paese in cui, se ce la fai, sei uno stronzo. È proprio insito nella nostra cultura. L’Hip hop una volta che entra nella vita di tutti i giorni, se ce la fa, ha sbagliato. Ti faccio un altro esempio: io sono sempre stato fan di Achille Lauro. Da sempre. Quando la gente lo ha visto a Sanremo, lo ha odiato. Nessuno ha pensato di andare a vedere cosa avesse fatto prima o da che background arrivasse. Solo dopo esserti documentato sul suo percorso artistico, puoi dire mi piace o non mi piace. Ma giudicarlo male solo perché ce l’ha fatta ad avere visibilità non è solo stronzo, è folle! È proprio una cosa culturalmente italiana.
Genova in latino significa “porta”. Una porta divide il dentro e il fuori. La scuola genovese dei cantautori, di cui anche tu parli nel documentario “La Nuova Scuola Genovese”, che valori ha fatto entrare e radicare nel suo territorio? Sei fiero del lavoro che è stato fatto per realizzare il documentario?
Si, sicuramente ha fatto entrare dei valori, il cantautorato storico. La cosa più evidente che emerge è il fatto che ci hanno lasciato sia un’eredità sia positiva, sia, allo stesso tempo, una croce che ti devi portare: perché Genova è una di quelle città in cui, se fai l’artista, ancora adesso, ma soprattutto ai loro tempi, la gente ti dice che devi andare a lavorare. Qua per dimostrare che sei un’artista e che sai fare questo mestiere, ti devi impegnare dieci volte tanto prima di avere la credibilità dalla gente. In fondo è una città di portuali dove i lavoratori si fanno il culo, camallano (ndr i camalli erano gli scaricatori del porto di Genova) la roba e di te che scrivi le poesie, le rime e le filastrocche non gliene frega niente. E hanno ragione, per la loro visione! Quello che ci hanno lasciato i cantautori è questo secondo me: un livello base alto. Non partiamo da zero noi. Noi rapper questo lo abbiamo capito col tempo, e Genova ti porta poi a scrivere in questo modo, se vuoi rispettarla. Per quanto riguarda il lavoro fatto per il documentario, sì! Sono fiero. Sicuramente siamo usciti mega bene, nel senso che non c’è la pretesa di dire che noi siamo come De André o Tenco, però il documentario dà un buon proseguimento alla loro storia. Le conferisce proprio una sua giustizia.
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Sempre all’interno del film “La Nuova Scuola Genovese” il cantautore piemontese Gian Piero Alloisio dice: “Quando è nata la canzone d’autore, è stata rivoluzionaria quanto il rap. Perché è un movimento antiborghese e cantava, in fondo, le periferie di allora, come il rap denuncia le mutazioni delle città oggi”. Quanto vedi il filone cantautoriale percorrere, a livello sociale, la traccia del rap, fino ad avere continuità con quello che ascoltiamo oggi?
Sicuramente meno di una volta. Loro hanno creato una rottura e avevano più impatto: De André che parlava delle puttane non è come me che parlo delle puttane. Lui, come tutta quella generazione, ci ha conferito la libertà di poter dire e fare determinate cose perché esistono, non perché te le sei inventate. Quindi è come se ci avessero dato un via libera. Hanno creato una vera ed effettiva spaccatura. Oggi anche il rap potrebbe farlo ma, secondo me, non lo fa. Fa sempre il solito tipo di denuncia che, ad un certo punto, non vale neanche più, non ha più un peso. Anzi… forse fa il giro, e diventa un auto-ghettizzarsi per essere fiero, e di conseguenza non è più di rottura come lo era una volta. Per nulla
La tua città ha ispirato cantautori e poeti. Caproni le ha dedicato una litania. Bruno Lauzi e Paolo Conte cantavano “Genova per noi”. De André, in una delle sue ultime interviste, la individua come il luogo dove sarebbe bello morire. Tutti questi elementi li troviamo nella tua “Genova”, outro del disco. Perché questa scelta? Ti senti responsabile nei confronti della tua città?
È un pezzo a cui sono legato tantissimo. Sì, sento la responsabilità della città. Era una vita che volevo fare un pezzo su Genova, solo che non trovavo mai il tappeto adatto. Un giorno sono andato in studio da Zero con il testo scritto senza beat e gli chiesto di fare solamente un giro di piano. Volevo solo quello. La stesura era quella, mi sembrava perfetta! Per quanto riguarda la litania di Caproni, l’ho conosciuta con il documentario di Claudio Cabona. Non la conoscevo prima. Avevo già l’idea di scrivere questo brano e non appena l’ho letta mi è venuta subito l’ispirazione. “Genova per noi” l’ho citata perché volevo che arrivasse a tutti i genovesi, non solo a chi ascolta il rap. Invece l’intervista di De André l’ho voluta inserire perché nel disco ci sono tanti riferimenti alla morte, intesa anche come morte artistica. Quindi ho voluto metterla come outro proprio per dire che è l’ultimo treno, cioè… il campionato del mondo è finito! Inserendola come outro l’ho voluta intendere così, mi dava proprio una bella immagine del finale.
Come sarà il Guesan del futuro? E se il tuo futuro fosse una traccia del disco, quale sarebbe?
Bella domanda. Non credo che sia una traccia di questo disco. Ci sono tanti brani scritti verso la fine che, musicalmente parlando, mi rappresentano di più, come ad esempio “Patrimonio” e “Nonègucci”. La verità è che non ti so dire quale sia, anche perché ho tante idee. Io sono uno che fa un po’ quello che gli pare. Poi però questa cosa, in realtà, mi si ritorce sempre contro. Si, è così. Umanamente sono un adulto a tutti gli effetti. Mi sento quasi più di avere gli sbatti da adulto che gli sbatti da rapper. È un dualismo che non so spiegare… Forse non c’è una risposta. Potrei stare ore ad analizzarmi e non dare una risposta, però… sì! È comunque una bella domanda.