Continuiamo il nostro viaggio alla scoperta di chi ha collaborato a “La commedia”, unendo le forze con Donato Dozzy, Eva Geist e Pietro Micioni. Con Stefano Di Trapani sono venute fuori cose notevoli, a livello di concetto; qua potreste restare spiazzati nel pensare che esiste un trait d’union tra questo (all’epoca una hit capace di ottenere una successo mainstream-pubblicitario gigantesco, brano della madonna comunque) e l’immaginario composto, scuro e rigoroso del Quadro. Però c’è, eccome se c’è, e si chiama Max Bottini: per i giga-appassionati di blues quello che ha accompagnato per qualche annata molto feconda Roberto Ciotti, uno dei più grandi bluesman italiani, per i giga-appassionati di jazz quello che spesso figurava in alcune delle migliori edizioni dei progetti di Roberto Gatto, da molti considerato il miglior batterista jazz in assoluto. Questo giusto per fare due esempi. Ad un certo punto però, complice come ci racconta il cazzeggio (e l’incontro con Filippo Clary), sono nati appunto i Gabin. Quello che doveva essere uno “scherzo da studio” si è tramontata in un’avventura artistica anche duratura – passato l’epocale successo in Italia con la hit “Doo Uap, Doo Uap, Doo Uap” (quella del link poco più sopra) in realtà il loro successo e la loro competenza si sono riverberati a lungo all’estero, in posti anche imprevedibili tipo la Russia. Molto alla mano e scanzonato, ed è l’ennesima riprova che quello che ruota attorno al Quadro Di Troisi è interessante artisticamente ma soprattutto molto denso umanamente, Max parlando con noi ricorda quest’esperienza ma soprattutto allarga il fuoco d’analisi, parlando della sua collaborazione ne “La commedia” ma anche di molto, molto altro.
Insomma, Max, come sei finito in mezzo alla “Commedia”?
Io sono molto amico – e c’ho condiviso lo studio almeno per vent’anni, assieme al mio ex socio Filippo Clary – con Pietro e Paolo Micioni. C’era questo studio in zona Prati: metà era nostro, metà era loro. Ma è come se fossimo stati sempre assieme. Questo, appunto, per vent’anni. Quando poi è finita questa esperienza con Paolo e Pietro siamo rimasti amici, siamo rimasti sempre in contatto, anche se magari ci vediamo meno spesso di prima; però appunto proprio Pietro ho avuto modo di rivederlo qualche anno fa mentre suonava dal vivo – col Quadro di Troisi. Donato Dozzy invece lo conoscevo chiaramente di fama, in origine, ma è solo tre anni fa che ci siamo finalmente incontrati di persona. E questo per un motivo piuttosto divertente…
Vai.
Credo che proprio Pietro gli avesse regalato un basso elettrico, e lui dietro consiglio venne da me a chiedere qualche lezione: parlando scoprimmo pure che abitavamo a 50 metri di distanza l’uno dall’altro, era tutto perfetto! Venne due, tre volte con questo basso… e basta.
(Max Bottini in azione da bassista; continua sotto)
E basta?
E basta! Infatti quando ci siamo rivisti dopo un po’ gli ho detto “Ehi, ma hai mollato col basso!”.
E lui?
“Eh, è difficile”…
Come l’hai presa?
Gli ho detto: “È difficile sì, il basso, ma ti devi applicare!”. (risate, ndi) Per quanto riguarda il mio contributo a “La commedia”, è venuto chiedendomi se potevo lasciare una linea di basso, visto che gli serviva per una traccia. Sono andato a casa sua, dove lui ha uno studio perfettamente attrezzato per registrare, e ho realizzato quello di cui c’era bisogno. È stato molto divertente!
Sì?
Sì. Perché lui arriva da un mondo che mi piace un sacco.
(In quello che, a parere di chi scrive, è uno dei dischi jazz italiani più eleganti di sempre, c’è più di un tocco di Max; continua sotto)
Ecco, proprio su questo volevo indagare un po’. Perché il tuo background, che arriva a leggere il tuo CV da blues e jazz, è diverso da quello del clubbing. Sono alfabeti in teoria lontanissimi tra loro.
Ma vedi, in ogni ambito in cui ad un certo punto mi sono ritrovato sono sempre stato quello borderline. È la storia della mia vita! E se vuoi, anche la sua tragedia! (risate, ndi) Per dire, quando ero molto organico alla scena jazz – ci ho suonato intensivamente davvero per tantissimo tempo – sapessi le litigate durante i viaggi ad esempio con Roberto Gatto…
…uno dei più grandi batteristi jazz italiani…
…già. Lui e il resto del gruppo voleva sentire John Coltrane, io Prince.
Ecco! (risate, ndi)
Sono molto curioso, molto aperto. Sono uno di quelli che ritiene che la musica si divide essenzialmente in due generi: quella bella, e quella brutta. Anzi, ora che mi ci fai pensare, dopo aver registrato la mia parte per il Quadro avevo anche intenzione di chiedere a Donato un paio di dritte, sto infatti facendo delle cose dove c’è un po’ di elettronica, anzi, magari gli chiedo proprio una mano.
In questa tua curiosità ed apertura, che impressione ti ha fatto il materiale de Il Quadro Di Troisi quando ha iniziato ad incrociare i tuoi ascolti?
È qualcosa di veramente, veramente interessante. Già lo sono le cose di Donato da solista, in assoluto, l’avevo sempre pensato anche prima di conoscerlo: potevi sentirci l’avanguardia, la contemporaneità, ma al tempo stesso – sarà un fattore di età? – potevi comunque sentire tutta una serie di riferimenti, di background che pure a me sono sempre piaciuti un sacco – e che nel Quadro sono sviluppati con enorme cura ed attenzione, lavorando per sottrazione. E poi, c’è la melodia: il Quadro è un progetto che nasce magari elettronico, ok, ma dove la melodia è davvero qualcosa di fondamentale. E questo dà davvero un quid prezioso, particolare. Un quid che funziona alla grande. Poi la ragazza che canta, Andrea, è bravissima. Non solo per la voce, ma in generale per tutto l’appeal artistico che mette nel progetto. Però ti dirò: quando Donato mi ha chiamato sono rimasto un po’ spiazzato. Mi dicevo: “Sì, bello, grazie, ma che c’entro io? Davvero avete bisogno di un basso elettrico?“. Invece è stata una esperienza davvero interessante.
(Foto di Pino Mannarino; continua sotto)
Ti è stato detto chiaramente cosa dovevi fare o, una volta arrivato in studio, hai avuto libertà nel dire la tua?
Ci sono situazioni, e il mio intervento nel disco del Quadro è stata una di queste, in cui la libertà viaggia su un filo molto sottile rispetto a quello che vuole e ha bisogno l’autore del pezzo. Certi pezzi te lo chiedono semplicemente loro, cosa devi fare. Tu devi solo obbedirgli. Abbiamo fatto qualche prova, ho proposto delle linee, Pietro e Donato mi hanno dato delle indicazioni, ma in realtà è stato tutto molto veloce e naturale. Senza sforzo o imposizioni da parte di nessuno.
Ecco. Quanto è difficile per uno strumentista bravo e navigato – e tu lo sei – mettersi al servizio di qualcun altro, di musica fatta da altri? Quanto bisogna mettere da parte il proprio ego?
Nella domanda c’è già la risposta: mettere da parte l’ego. Guarda, non voglio fare il santone, ma veramente credo sia una sorta di “crescita spirituale” quella che ti aiuta ad avere l’atteggiamento e l’equilibrio giusto, mettendoti al servizio di ciò che serve davvero, e non di te stesso e, altra faccia della medaglia, nemmeno passivamente al servizio di qualcun altro. Puoi insomma preservare la tua libera espressione senza per questo dover per forza importi. Quando tutto è naturale e si arriva con l’attitudine giusta, succede.
Parlavamo prima di Gatto, una delle tue più importanti esperienze nel campo della scena jazz vera e propria, ma non certo l’unica. La segui ancora, come scena?
Proprio da poco ho collaborato su una cosa molto figa assieme a Stefano Di Battista – vedi, io e lui siamo praticamente come dei fratelli. Ha un unico difetto, Stefano: è della Lazio! (risate, ndi) Una delle cose meravigliose sue è che è sempre molto attento alle nuove leve, sta aiutando un sacco di ragazzi che stanno muovendo i primi passi nel mercato. Ad esempio, i fratelli Cutello, Giovanni e Matteo, bravissimi, due mostri. Ha prodotto lui il loro disco e, tra le varie cose, ha scelto in tracklist anche un mio vecchio pezzo che avevo scritto per i Gabin. È stata un’ottima esperienza, mi ha aiutato a capire al meglio l’aria che tira adesso nel jazz. C’è una generazione di nuovi talenti che è pazzesca. Ecco, lì ti poni la domanda su che sorte avranno… Però mi piace pensare che a furia di continuare a fare musica di qualità prima o poi riusciremo ad essere meno schiavi del mainstream. È una lotta quotidiana. Ed è una lotta che riguarda me per primo.
Beh, all’epoca della esplosione dei Gabin tu e Filippo eravate finiti proprio in bocca al mainstream, volenti o nolenti… L’avete frequentato e ne siete stati adottati eccome. Ve lo aspettavate?
Ma certo che no. Chi poteva crederlo. Io e Filippo lavoravamo assieme in studio, e giusto nei tempi morti ci divertivamo a fare qualche esperimento. Tutto qui. I Gabin insomma sono nati non dico per caso, perché il caso non esiste, ma sono stati un po’ una concidenza fortuita: considera che praticamente tutti i pezzi del primo disco hanno origine da questi provini nati per gioco.
E il gioco è diventato subito serissimo.
Sai cosa, in America o in Inghilterra è più facile trovare della pop music ascoltabile, interessante. Prendi Dua Lipa: mi piace un sacco. Abbiamo in Italia qualcuno che nel mainstream si prenda rischi musicali di questo tipo? Che scelga un posizionamento simile, fatto di pop intelligente, ricercato, contemporaneo, non formulaico? In Italia pare esserci solo la trap, e una musica pop che boh…
Secondo te Il Quadro Di Troisi è un progetto pop?
Potrebbe benissimo esserlo.
Potrebbe. Ma non lo è?
Che cosa è “pop”? È, alla fin fine, qualcosa che diventa popolare. Anche un genere o una traccia assolutamente non pop in origine, se all’improvviso per qualche motivo diventano popolari, si fanno “pop” pure loro. Questo ti fa capire che il pop non è un genere specifico, ma piuttosto una posizione nel mercato. La domanda chiaramente è: potrebbe mai un progetto così prezioso e ricercato come il Quadro diventare pop? Difficile. Ma, in teoria, non impossibile.
Chi è oggi Max Bottini?
È un musicista che ancora cerca disperatamente – e sottolineo disperatamente – di divertirsi con la musica. C’è sempre il lato oscuro, quello che quando entri in studio pensi “Sì, però quello che sto facendo deve aiutarmi a pagare le bollette, le spese per i figli…”: per evitarlo la cosa importante è ricordarsi sempre quanto sia importante il divertimento. Anche quando mi capita di prendere delle committenze un po’ così, perché ovviamente succede, cerco sempre di dargli un sapore un po’ particolare, qualcosa che insomma mi faccia sentire divertito ed inorgoglito nel farlo.