Riccardo Milani fu tra i primi ad intercettare certe problematiche che stavano vivendo alcuni ragazzi di periferia e punk, una generazione quella piuttosto alternativa che guardava altrove. Con “La Guerra degli Antò”, film che nasce dagli scritti di Silvia Ballestra (recuperate i suoi libri!), saltano fuori una serie di immagini e consuetudini tra fanzine di settore, acconciature futuristiche e modi di fare piuttosto approssimativi e ruspanti, ma comunque coerenti con lo stile di vita a cui si ispiravano. La voglia di imporsi in ambienti completamente avversi al contesto che li circondava non dà i frutti desiderati ed il risultato è da dimenticare, il ritorno a casa fu disastroso: così nel film. Dopo qualche fuga fuori città tra l’Italia e l’estero, la loro piccola bolla underground si sgonfia sul nascere: assistere impietriti ad un misero balletto di gruppo tra andamenti goffi e catenine d’oro al collo è un sacrilegio troppo grande da affrontare.
Fortunatamente una parte di questa generazione è stata invece protagonista e catapultata in un successo quasi del tutto inaspettato. Succede infatti negli stessi anni che dei generi mai passati sotto l’occhio del grande pubblico improvvisamente ricevono consenso, l’audience impazzisce, le radio di settore ne fanno una bandiera, la tv aiuta e – insomma – il percorso è spianato. Luca De Gennaro, personaggio da decenni centrale per la musica italiana con una biografia immensa che passa da Radio Rai, MTV, Radio Capital a chissà quant’altro, attraverso il suo ultimo lavoro “Generazione Alternativa” pone sotto i riflettori il periodo storico che si rifà a quella immensa rivoluzione musicale e di costume avvenuta nell’arco di tempo che va dal ‘91 al ’95.
Si allunga lo sguardo verso gli Stati Uniti ci si tiene aggiornati intuendo che forse quello sia il momento giusto per porre le basi ad un futuro completamente nuovo e da riscrivere; da lì in avanti molto cambierà e parole chiave come grunge, hip hop, clubbing, rave, crossover attireranno su di sé critica e consensi popolari con numeri notevolissimi ed una notorietà improvvisa quasi difficile da gestire. A conferma di questo grande “trambusto” musicale, anche i media generalisti di casa nostra si scomodano. Lo fanno approfondendo superficialmente, come spesso accade, un passaggio generazionale, offrendo un ritratto pieno di luoghi comuni che non interpreta fino in fondo il messaggio di cambiamento e crescita che certi ambienti stavano affrontando in quegli anni così fertili e vivi.
Per analizzare fare il punto e passare sotto la lente di ingrandimento un momento così prezioso quanto irripetibile, non potevamo che chiamare in causa l’autore del libro: una sorta di guida di chi quegli anni li ha vissuti, e nel vortice del cambiamento si è trovato a dirigere il traffico in prima persona.
Facciamo il punto. Siamo nel 1991, un anno fondamentale per quella che sarà una bella svolta musicale: ecco, se dovessimo fermare il tempo quali erano i riferimenti musicali dell’epoca?
Il libro precedente che ho scritto, “Pop Life”, si fermava all’86. Ho sempre pensato che raccontare un decennio intero sia piuttosto complesso, considerato che tutto si evolve in maniera rapida e succedono talmente tante cose in mezzo che non ha tanto senso dire “gli anni ’80” o “gli anni ’90“. Se si pensa agli anni ’60, ad esempio cominciano con i Beatles che quasi non esistono ancora e finiscono, invece, con la loro divisione: ma in mezzo hanno praticamente dominato quell’arco di tempo. Ora c’è sempre un numero minore di anni che contano per definire un fenomeno. Agli anni d’oro del pop, argomento del mio lavoro precedente, segue un periodo di restaurazione, i cinque anni che precedono l’inizio di quanto racconto nel mio nuovo libro si caratterizzano per un sound piuttosto rassicurante che vede protagonisti Whitney Houston, Mariah Carey, George Micheal, così come alcune boy dand come i New Kids on the Block. Non succedono cose particolarmente interessanti, se non lo sviluppo di certe cose che si erano formate prima – per esempio sono anni in cui esplode la house music. Nel mondo del pop e del rock è un periodo invece un po’ di restaurazione in cui ci sono ancora dei retaggi del glam anni ’70 molto pomposo e radiofonico, senza grandi picchi creativi. Ad un certo punto invece arriva questa cosa che mi ha spinto a raccontare proprio quell’epoca (dal ‘91 al ’95), una bella rivoluzione che rimette tutto in discussione. Basta vedere la classifica del 1990 e confrontarla con quella dell’anno dopo: ci sono delle cose che non esistevano proprio, e c’è appunto questo fenomeno della musica underground che diventa improvvisamente la musica mainstream dominando le classifiche con suoni che fino a pochi mesi prima avremmo tutti definito molto di nicchia.
Questa trasformazione che avviene quasi per caso si genera perché il mercato è talmente saturo e c’è voglia di guardare oltre, o semplicemente perché ci fu una generazione di artisti talmente talentuosa con contenuti diversi difficile da catalogare?
Sicuramente c’era voglia di qualcosa di nuovo: una lenta trasformazione che aveva già preso piede verso la fine degli anni ’80, se si pensa ad i primi album dei Nirvana. Questo cambiamento succede parallelamente su due ambiti che sembrano molto lontani tra di loro ma che sono contemporanei: la dance e il rock. I Nirvana sono quelli che aprono la porta del successo per quanto riguarda il rock, secondo me per due motivi fondamentali: primo perché Kurt Combain è bellissimo, disperatissimo, giovanissimo, ha tutte le caratteristiche per essere un personaggio che piace anche alle masse per la sua capacità di scrivere canzoni, la seconda è che le stesse canzoni che possono apparire come melodiche le esprime invece con una certa rabbia, intercettando perfettamente la gioventù dell’epoca che diventa di conseguenza alternativa. Un’innovazione che colpisce anche la dance: l’house music infatti già dall’88 viveva un periodo di grande prestigio, confermato poi con la diffusione anche in Europa e non più solo relegata ai confini statunitensi. Un fenomeno talmente di ampia portata che c’è bisogno di nuovi posti per contenere queste enormi masse di giovani in pellegrinaggio verso nuove prospettive musicali: ed ecco che nascono i rave, in Inghilterra in un primo momento e poi a macchia di leopardo un po’ ovunque, fino ad arrivare ovviamente anche da noi.
Il New Music Seminar di New York rappresenta forse il trampolino di lancio di tanta musica alternativa in quel momento. Avendo partecipato alle prime edizioni, ti rendevi conto che stavi vivendo un momento importante per la tua carriera da divulgatore musicale?
Fino in fondo secondo me uno non può rendersi conto mai del fatto che quello che sta vivendo è qualcosa che cambierà le sorti della musica… Ci si pensa sempre in prospettiva. Adesso noi possiamo dire che dieci anni fa è successo qualcosa che ha lasciato il segno: ma quando questa cosa succede, non lo sappiamo se lascerà il segno. La ragione per cui io frequentavo il New Music Seminar ed un sacco di gente ci andava, era perché parliamo della prima invenzione di un appuntamento annuale di una settimana destinato ai professionisti della musica. Ci andavo esclusivamente per il lavoro che facevo, il dj radiofonico: mi sembrava essenziale essere tra quelli che portavano le novità agli utenti. All’epoca non c’era internet, bisognava che ci fossero i filtri, ovver noi dei media, che tornavamo in Italia e scrivevamo l’articolo sulle riviste oppure facevano il programma alla radio dicendo “Ragazzi lo sapete che a New York c’è questa nuova cosa che si chiama House Music ? Oppure questo nuovo fenomeno che si chiama Grunge?“. Era sostanzialmente una mia necessità di fare bene il mio lavoro frequentando un posto del genere, che effettivamente era il primo – da lì in avanti sono nati il South by Southwest ad Austin, L’ADE ad Amsterdam, giusto per fare qualche nome. Nella fine del primo capitolo del libro c’è proprio un riferimento legato a tutta questa storia, con una mia amica che mi dice “Sai che ad Amsterdam pare che vogliono fare una cosa solo sulla dance music?“: erano fondamentalmente tutte cose che nascevano in quegli anni lì, ed è per questo che ci andavo. Era quello che io chiamavo “un pieno di benzina“, dove in una settimana facevo il carico per tutto l’anno. Quando molti anni dopo fui chiamato dal Comune di Milano per mettere insieme quello che si chiama Milano Music Week, di cui sono stato curatore artistico per cinque anni, l’ho fatto in quell’ottica lì, pensando alle mie esperienze passate vissute in prima persona.
Parallelamente al New Music Seminar, un altro canale di diffusione e snodo centrale per la musica di quegli anni – anche professionalmente – furono le radio da una parte, BBC Radio 1 con la nuova visione artistica di Matthew Bernister, e successivamente le tv con MTV. Qual è stata la marcia in più messa in atto in quel periodo dai media?
Bernister è stato un innovatore. È molto difficile quando sei dentro un “ministero” come la BBC, con una tradizione così forte, poter ammodernare. Lo definirei eroico, una scelta assolutamente non facile, anzi, una scelta difficilissima da mettere in piedi: prendere la radio principale, “the nation favourite“ come veniva comunemente chiamata, andare lì, scardinarla dalle basi dicendo “Ragazzi adesso dobbiamo conquistare un pubblico giovane. C’è tanta di quella musica interessante in Inghilterra e nel mondo che noi dobbiamo essere quelli che trascinano il pubblico verso la consapevolezza della nuova musica, segnando così una cesura netta con il passato“. Quella fu una cosa decisamente coraggiosa che ha fatto sì che lui Bernister stesso scegliesse delle nuove voci: nel libro faccio riferimento a Steve Lamacq e Jo Whiley, che erano ragazzetti che lavoravano nelle radio indipendenti e che furono subito ingaggiati come nuove voci per BBC Radio 1. Ovviamente questo grosso cambiamento portò la perdita di tanti ascoltatori abituati ad un prodotto completamente diverso. Trovarsi per esempio il sabato sera Pete Tong che mixava live musica house ribaltava completamente il solito slot con la classifica dei dieci album più venduti. Poi si ovviamente gli atri riferimenti che faccio nel libro sono legati all’America con MTV. Lì le radio arrivano sempre a rimorchio, è raro che negli Stati Uniti la radiofonia lanci dei fenomeni, tutto è piuttosto commerciale. Il vero media che ha trascinato tutta una nuova generazione è appunto MTV, capendo prima di altri che era assurdo spendere cifre assurde per video paludati e patinati, meglio invece andare alla ricerca di qualcosa di più immediato ed efficace, cambiando così completamente le regole del gioco e facendo sì che la musica arrivasse a tutti in forma differente rispetto a quello che avveniva abitualmente.
Altra novità sono stati i crossover tra generi: come avvenne questa metamorfosi che indirettamente stravolse il modo di approcciarsi alla musica per tanti artisti da lì in avanti?
Non c’è dubbio che il crossover sia stato uno dei suoni caratterizzanti di quegli anni li. Ricordiamoci che lo stesso giorno in cui esce “Nevermind” dei Nirvana, il 23 settembre 1991, esce anche “Blood Sugar Sex Magik” dei Red Hot Chili Peppers che è l’album crossover per eccellenza, la fusione perfetta di rock, metal, punk e rap. Tutti generi che sembravano molto lontani che invece all’improvviso si uniscono. La ragione poi per cui ho chiamato il libro “Generazione alternativa” è proprio perché in quell’anno lì, nel ’91, nasce il festival Lollapalooza voluto da Perry Farrell dei Jane’s Addiction che conia proprio lui la forma “Alternative Generation“. Lollapalooza è festival in cui le band vengono tutte da generi diversi: è proprio il contesto che fa sì che nasca il crossover, e che rende possibile che si diffonda così come lo abbiamo visto negli anni a venire. Il fatto è che gli artisti che si trovano a suonare in certe situazioni di fronte a questo pubblico di “generazione alternativa”, sono poi naturalmente portati a collaborare, iniziano a sentire un senso di comunità, dell’avere una missione simile. Gli artisti hip hop si mischiano al rock per esempio, basti pensare che solo pochi anni prima c’era stato il brano tra i Run Dmc e gli Aereosmith con “Walk This Way”, si approfondisce sempre più questa forma mentis aperta. Non solo tra rock e rap, ma anche tra tutto il resto, si pensi anche ad un gruppo come i Mano Negra che vengono fuori in quegli anni mettendo insieme musica latina, patchanca, punk tutto un grande crossover che è e rimane una delle grandi novità dell’epoca.
Anche l’acid jazz, con Gilles Petterson e Eddie Piller personaggi chiavi del movimento, può essere catalogato come un vero crossover. In una Londra sempre più ancorata ai suoni piuttosto dritti legati alla club culture come si diffusero queste nuove sonorità?
Londra viveva in quegli anni un momento così elettrizzante di esplosione della club culture che anche il jazz riuscì a finire nel calderone delle attività notturne e a ritrovare un momento di estrema “coolness” presso i giovani. Una moda che partiva dal ballo, in locali come Dingwalls e Wag dove si ballava il northern soul, e finiva nei negozi di dischi frequentati dai dj (come Black Market), in cui improvvisamente apparivano vecchi 45 giri jazz funk recuperati da qualche cantina dei genitori, rispolverati e rivenduti a prezzi alti. In questo scenario così fertile due menti brillanti come Eddie Pillar e Gilles Peterson hanno saputo farsi strada con grande intelligenza e nuove produzioni musicali che si rifacevano ad atmosfere del passato. Nel libro racconto appunto dell’incontro con Peterson a Camden, quando lui aveva appena ricevuto la proposta di fondare una etichetta, che poi sarà la Talkin’ Loud, una delle più influenti di quell’epoca.
(Le epiche session al Dingwalls; continua sotto)
In casa nostra invece due furono i generi che più di un certo rock e indie-rock in quegli anni ebbero un’evoluzione maggiore: parliamo dell’hiphop e della techno. Com’è andata in quel caso ?
Si tratta sempre del grande concetto di “generazione alternativa”, che in Italia si sviluppa tanto quanto si sviluppa in America, in Inghilterra e nel resto del mondo. In Italia la musica alternativa, che ad un certo punto era una musica di cui i ragazzi avevano davvero bisogno, oltre ad essere quella internazionale ad un certo punto diviene anche, finalmente, prodotta in Italia. In prima fila i due filoni che citavi (hip hop e techno), più ancora dell’indie rock che si sviluppò invece più tardi (volendo dare una data, direi di stare verso il ‘96: anno in cui uscirono gruppi come Bluvertigo, Subsonica, Afterhours, e il loro successo coincide con l’arrivo di MTV in Italia). Si sviluppano così nuovi spazi come i rave, i festival, ma anche i centri sociali di casa nostra diventano improvvisamente fondamentali anche per la musica: da luoghi di discussione politica e di aggregazione diventano posti di diffusione di nuova musica alternativa. L’hardcore punk era il genere per eccellenza che sonorizzava i centri sociali dell’epoca; quando si sgonfia un po’ tutto quel filone, sarà l’hip hop a prendere il sopravvento. Nel momento in cui ci si rende conto che c’è una gioventù antagonista e che il rap può essere fatto in italiano, senza dover avere una preparazione musicale canonica, e funziona anche con un messaggio che arriva attraverso il ritmo, allora si sta cambiando per davvero. Il rap diventa così un media vero e proprio per esprimere le posizioni politiche avverse, l’hip hop militante diventa una cosa importante. Talmente importante che dopo un po’ se ne accorge anche l’industria musicale delle major. L’aneddoto su Frankie Hi Nrg che c’è nel libro è un momento importante. Lui era un ragazzo impegnato che aveva esordito con una canzone che parlava della mafia, della strage di Bologna, di Gladio, di Ustica: “Fight Da Faida”, che nonostante tematiche profonde era anche facile da ascoltare ed accessibile al grande pubblico. Per questo motivo lui come anche altri artisti (99 Posse su tutti) verranno successivamente corteggiati dalle grosse case discografiche. Nella techno poi il discorso è in realtà surreale, nel libro approfondisco per bene tutta la faccenda legata a Lory D: un passaggio, quello, pazzesco in cui un sound piuttosto oltranzista che non concedeva nulla alla facilità di ascolto veniva improvvisamente corteggiato da una grossa major, chissà con quanta consapevolezza. Un racconto divertente. Impossibile pensarlo adesso. Un racconto in cui addirittura programmi televisivi mainstream si interessavano al fenomeno, ed infatti da lì il mio ruolo di divulgatore musicale che difende certi ambienti (rave su tutti) da certe facili approssimazioni giornaliste. Nei rave ci ho lavorato e l’ho fatto quasi come una sorta di addetto stampa al contrario: tenendo fuori i media ed invitandoli a non parlarne, proteggendo il mondo rave da quello che avrebbero potuto dire i media tradizionali.
Da Aprilia a Borgo Ottomila, da Lory D a Frankie Knuckles, ci sono due mondi che si incontrano: quello house e l’altro techno. Questa storica diatriba tra i generi come venne accolta in quel periodo?
Il fenomeno dei rave era diventato così enorme che era naturale si creassero fazioni contrapposte all’interno della stessa scena: era come se fossero correnti dello stesso partito, o tifoserie di squadre diverse dello stesso sport. Per un certo periodo la contrapposizione tra house e techno fu veramente netta, specialmente nell’area di Roma, con il pubblico della house che comprendeva anche i ragazzi della “Roma bene” mentre la techno era seguita da fan più hardcore. Spesso però gli uni avevano bisogno degli altri. Nel libro racconto infatti di quando, per avere più gente al grande rave con Frankie Knuckles, celebrazione massima della house music, dovettero inserire nella line up la techno estrema di Lory D per attirare anche il suo pubblico, cioè diverse migliaia di persone in più. E comunque, nella migliore tradizione romana, la si buttava un po’ in caciara… La metafora “Bresaola contro Nuvolette”, con l’invenzione della figura mitologica dell’ “Ombrellaro” che difende l’umanità dalla minaccia delle nuvolette, era molto romana e decisamente esilarante.
In conclusione per salutarci in musica una mini playlist con quattro brani che ben raccontano l’arco di tempo 91-95: un brano grunge, brit-pop, hip hop e techno).