Certo: sarebbe facile partire al tiro al piattello contro Grimes per la figuraccia epocale fatta l’altra sera a Coachella. In pratica: ad un certo punto il suo ricercatissimo, ehm, “dj set” è impazzito, coi brani sparati a velocità supersonica. E lei che è andata completamente nel pallone. Se volete un video che testimoni il tutto, ecco ad esempio questo:
La spiegazione sul perché sia successo quanto sopra l’ha data – con ammirevole trasparenza, volendo – Grimes stessa, cinguettando, pardon, x-ettando dal suo account X:
Tutta colpa di un Rekordbox curato alla cazzo prima di salire sul palco? Indubbiamente può essere. Giustificazioni o meno, sta di fatto che attorno a Grimes si è scatenata una cagnara. La cagnara che potete immaginarvi: è tutta fuffa, non fa niente sul palco, non è capace, è solo chiacchiere e distintivo in salsa femminista-fuffista, eccetera eccetera eccetera. Cagnara che peraltro doveva scatenarsi molto tempo fa, quando aveva iniziato – chi andò ad esempio a vederla a Milano al Magnolia dal vivo lo sa, anno 2016 – a fare dei live set che non erano nient’altro che dei garruli karaoke, praticamente una versione 2.0 di “Grease” rifatto durante un GREST da dei volenterosi adolescenti. “Eh, ma sono i tempi moderni“, si diceva, “oggi i concerti si fanno un po’ così, non possiamo restare alla vecchia retorica delle chitarre, del sudore e della gente-che-suona come unico metro di valutazione possibile“. Sì, può essere. Ma non sempre i tempi moderni sono i migliori tempi possibili (come del resto, occhio, non lo sono manco per forza quelli passati: le cose sono sempre un po’ più complesse). Sta di fatto che cercare delle scorciatoie nell’esibirsi dal vivo e rendere più semplici, sostenibili e teatrali le suddette esibizioni è una cosa che Grimes ha sempre fatto, sempre. Niente di nuovo sotto il cielo. Nemmeno ora che non più compagna di Elon Musk gorgheggia felice per metà dei Tale Of Us, baciata da un successo mainstream molto diverso da quello circoscritto ed intellettual-chic-ironico degli esordi.
In realtà il commento migliore sulla faccenda l’ha fatto A-Trak. Uno a cui si può dire qualunque cosa, anche di essersi un po’ venduto al successo “facile”, ma non che non sappia mixare ed usare un giradischi (o un cdj).
Ha colto infatti uno dei punti più interessanti della questione. Senza infierire – perché non è il caso di infierire, in fondo – ha evidenziato un tic linguistico curioso nel post giustificatorio della collega: parlare di “outsourcing” manco fossimo ad un panel di Confindustria (“A tweet that looks like a corporate memo sent to employees” il sagace commento) fa capire quanto l’ingrandire di scala che sta vivendo certo mondo musicale rischi di allontanare sempre più dall’essenza delle cose: “We’re talking about mixing records, here“, chiosa A-Trak.
Coachella è ormai da anni il trionfo dell'”industria”, e mettiamo le virgolette perché intendiamo la parola nel senso più lato e vasto. Senza nessuna vergogna ha imboccato la strada della massimizzazione dei lati industriali del prodotto-festival, dopo gli inizi invece (un po’) più felicemente romantici. Non è un caso che Coachella sia diventato il festival più citato dalle riviste di moda&costume e più imbottito di influencer veri e presunti: è solo il frutto di precise scelte da parte del team che guida il l’evento (come ad esempio la scelta ancora anni fa di ammollare accrediti e facilitazioni a chi può testimoniare di avere x follower sui social, questo in tempi ancora non sospetti, quando di influencer in Italia si parlava appena ammesso e non concesso se ne parlasse: gli addetti ai lavori più accigliati inorridivano, i più scafati dicevano “Questo è il futuro” – avevano ragione entrambi).
Questo posizionamento strategico – molto appunto da “piano industriale” – ha regalato al festival californiano un boom trasversale a livello di notorietà; boom che Coachella è stato bravo non solo a cavalcare ma anche a monetizzare, perché quando arrivi ad un successo e ad una popolarità così trasversale, beh, i brand sgomitano per esserci; e comunque la stessa presenza di vip, vippini, influencer, influencerini ha fatto da moltiplicatore mediatico sul media più importante emerso nell’ultimo ventennio – i social network.
Industrialmente, in apparenza è stato fatto tutto bene.
Peccato che dopo un po’ musica ed industria iniziano a non andare d’accordo. Restano due faccende non perfettamente sovrapponibili. Avremo modo in futuro di parlare in modo più circostanziato di ‘sta faccenda ma ora, stando al punto, diciamo che: i più attenti se ne saranno accorti, il sentiment attorno a Coachella sta iniziando a segnare delle inversioni di rotta. Anche chi era entusiasta fino a pochi anni fa del festival, colpito consciamente o inconsciamente dalla sua comunicazione ultra-pop e furbetta, ora inizia a trovare conveniente dire “Ah, ma che baracconata, non è una cosa seria, ormai è solo una fiera delle vanità“. L’abbiamo sentito da più e più persone. E lo sputtanamento di Grimes rientrare in questa wave.
Per andare alla ricerca della moltiplicazione dei numeri e dei fatturati, Coachella ha finito col trascurare il suo core business: la musica, nel senso più autentico e focalizzato del termine. Non è infatti più il festival con questa o quella identità musicale, è il festival con questa o quella celebrità fra il pubblico – o almeno queste due cose stanno in equilibrio fra loro (…e si nutrono a vicenda). Sul breve questa scelta ha pagato, aumentando il bacino d’utenza e d’attenzione a dismisura attorno a sé; ma sul lungo mmmmh, iniziamo già a vedere i primi scricchiolii. E i primi backlash negativi.
Grimes alla fine non ha fatto nulla di così male: ha voluto creare una versione magniloquente di dj set con una produzione degna di un kolossal hollywoodiano (né più né meno di quello che fanno tantissimi dj grandi-numeri oggi) e, nel farlo, ha fatto quello che fanno tutti in tutte le mega-produzioni: ha delegato la parte tecnica. Peccato che al primo imprevisto non abbia saputo salvare la situazione. “We’re talking about mixing records, here“: in fondo, non ci sarebbe voluto tanto, ad essere un minimo del mestiere, no? Ma se il tuo mestiere oggi è più creare spettacolo ed hype che canalizzare emozioni ed idee attraverso la musica, tutto può diventare maledettamente più complicato. E puoi perderti in un bicchiere d’acqua. O in un Rekordbox caricato male.
Quando tutto andava bene, e il discorso vale anche per Coachella, ci si sarebbe fatta una risata sopra. Oggi, mugugni e dileggi diffusi. Occhio. Qualcosa sta cambiando.