In un panorama spesso troppo artisticamente stagnante, dove pare molto più apprezzato stare nei canoni predefiniti piuttosto che prendersi dei veri rischi (a parole rischiano tutti e tutti sono creativi, sì, ma nei fatti…), Isolée è una felice eccezione. Una felice, strana eccezione. Avrebbe potuto monetizzare molto di più il successo che gli è arrivato ancora a fine anni ’90 col suo esordio su Playhouse, la fantastica “Beau Mot Plage”. Avrebbe potuto battere il ferro finché era caldo, o almeno tiepido; avrebbe potuto entrare in tutta una serie di fantastici giri, Ibiza e Cocoon in primis giusto per darvi un’idea, dove questo suo pezzo era ed è un inno, un assoluto inno – sappiamo tutti quanto spesso e volentieri basti un brano azzeccato per poi vivere di rendita per anni, in un mondo – quello più marcatamente dance – dove lo spirito critico è ancora gracile ed immaturo, sommerso dal piacere dell’edonismo (perché alla fine alle serate ci divertiamo tutti, no?). Alla fine conta spesso più il nome del contenuto, ecco, e il nome te lo fai spesso e volentieri grazie ad una traccia azzeccata, o a un pugno di esse. Ma queste sono dinamiche da cui Isolée, aka Rajko Müller, è distantissimo…
“Le strutture compositive della musica dance sono piuttosto immediate e di facile accessibilità, questo è il motivo per cui mi piace usarle. Io però non sono un dj, non lo sono mai stato e non è mia intenzione al momento diventarlo. Ecco che quindi il mio rapporto con la galassia della club culture è solo parziale. Ne prendo i canoni estetici, ma non mi è mai venuto in mente di abbracciare il pacchetto intero – di andare nei circuiti alla Ibiza, per intenderci, immergermi nel clubbing, eccetera eccetera, anche se so che la mia musica lì ci circola abbastanza spesso. La mia visione della musica incorpora la club culture, ma non si limita ad essa”.
A proposito di strutture compositive, un tuo marchio di fabbrica in questo ultimo album, “Well Spent Youth”, sono come e più del solito alcune stranezze, vedi ad esempio il basso inserito in “Paloma Triste”…
“Guarda, non vorrei imbarcarmi in una dissertazione troppo specifica su come costruisco le mie tracce. Alla fine sapere o non sapere certe cose non cambia più di tanto quello che è il punto principale per l’ascoltatore – trovare piacere nell’ascoltare la musica che creo. Tuttavia l’esempio che fai è pertinente e significativo: quel basso lì in “Paloma Triste” da molti viene visto come una specie di ostacolo senza senso nell’economia complessiva della traccia, qualcosa da rimuovere, lì dove altri invece amano proprio questo inserimento apparentemente bizzarro, perché trovano dia molta più personalità al tutto. Ecco, questo dimostra come siano molte le verità, visti dalla prospettiva di chi ascolta: per qualcuno gli elementi bizzarri sono un fastidio, per altri la marcia in più”.
Ma complessivamente sei contento del risultato artistico finale?
“E’ troppo presto per dirlo. Ma vale un principio generale, quello per cui è meglio non avere rimpianti: riascoltando una traccia finita ti viene sempre in mente che certe cose avresti potute farle in altro modo. Ma appunto: la traccia è finita, chiusa. E tu ragionevolmente parti sempre dal presupposto che hai fatto del tuo meglio, mentre lavoravi in studio. Inutile quindi ripensarci”.
Però un po’ di pressione l’avrai sentita, non negarlo: da molti sei considerato un vero e proprio caposcuola, uno dei pochi veri geni in circolazione… non ci credo che tu sia del tutto impermeabile a questo.
“La vera pressione l’ho avuta addosso con “We Are Monster”: alle spalle avevo “Beau Mot Plage” e il mio primo lp, “Rest”, successi oltre ogni previsione. Avevo quindi tutti gli occhi puntati addosso per capire se ero in grado di ripetermi o se avevo solo imbroccato un paio di cose… Fortunatamente “We Are Monster” è andato come è andato, ha entusiasmato un sacco di gente, quindi da lì in poi non ero più in dovere di dimostrare niente a nessuno. Ho lavorato con grande tranquillità al materiale di “Well Spent Youth”, te l’assicuro”.
Hai anche lavorato senza più la Playhouse come label alle tue spalle…
“La mia strada e quella di Playhouse si sono separate nel 2007. Ho iniziato quindi a lavorare a questo disco già sapendo che non sarebbe uscito con lei, ma non è che avessi in mente delle alternative. Non mi ero proprio posto il problema. L’idea di farlo uscire per la Pampa, l’etichetta del mio amico Stefan ovvero Dj Koze, è nata solo in un secondo momento. Noi due ci conosciamo da anni, viviamo entrambi ad Amburgo, ma soprattutto mentre lavoravo al materiale che poi è diventato “Well Spent Youth” ci siamo scambiati un sacco di idee ed impressioni – ed è proprio grazie a questi rapporti sempre più intensi e frequenti che ad un certo punto ci è venuto in mente che forse proprio la sua etichetta era l’approdo più giusto per il mio nuovo disco. Lo ho, anzi, lo abbiamo capito in corso d’opera”.
A proposito di capire le cose: che rapporto hai con la stampa e il sistema mediatico attorno alla tua musica?
“Beh, il giornalismo musicale spesso è, come dire?, uno sforzo innaturale, perché in teoria si tratterebbe di trovare dei metri di valore universali per giudicare il valore di quanto creato: una via senza uscita, perché il valore della musica e l’intensità con cui essa viene apprezzata dipende da troppe variabili essenzialmente soggettive – il gusto di ciascuno, il contesto in cui si ascolta, l’umore del momento… Come fai a pensare di trovare in questo oceano di soggettività un metro di misura universalmente valido e ripetibile? I giornalisti credono troppo spesso di risolvere questo dilemma creando delle categorie stilistiche più o meno artificiose per poi giudicare il valore di un’opera a seconda che entri più o meno nei canoni di queste categorie. Però c’è da dire anche un’altra cosa: il lavoro di un giornalista, soprattutto quando hai fatto la tara ai suoi gusti e alle sue inclinazioni, può al tempo stesso essere fondamentale per orientarsi meglio nel mare di uscite che ci sono oggigiorno”.