Difficile immaginare due festival più diversi di Nameless e Terraforma. Davvero difficile. Anzi: molti fan di Terraforma saranno indignati per questo accostamento; mentre il 99% degli aficionados di Nameless si chiederà “Terraforma? E che è?”. Unica cosa in comune: entrambi si svolgono questo weekend, e sono non distanti tra loro: a Milano (Terraforma, quest’anno diventato EXO – poi vi spiegherem), in Brianza (negli sterminati pratoni di Annone, Nameless).
Su queste pagine abbiamo sempre trattato (ed amato) entrambi: vedi qui e qui. Nameless perché è stato rivoluzionario e coraggioso (sì, si può essere coraggiosi anche scegliendo inizialmente la strada dell’EDM), perché ha cresciuto una nuova generazione di imprenditori ed addetti al settore di altissima qualità, perché buttando a mare ogni snobismo e settarismo ha saputo costruire un festival dove stai da dio, perché l’entusiasmo delle persone che lo popolano è reale, non autoindotto (…e non ha assolutamente bisogno di additivi psicotropi), e incontri i ventenni di tutti i giorni, non quelli ansiosamente hipsterosi, che li hai scippati dallo stare davanti al portatile ed allo smartphone per tirare fuori, invece, la vita che c’è in loro. A tutti gli snob che storcono la bocca di fronte alla line up di Nameless (prima costruita sull’EDM, poi allargatasi all’urban) rispondiamo sempre in un modo molto semplice: andateci, vivetevelo almeno per un giorno, poi ne riparliamo. Si possono – e si devono – fare tutti i discorsi sulla musica e sulla ricerca ad essa connessa, ma resta cruciale il clima umano che si crea, in un festival; e il clima umano a Nameless è semplicemente meraviglioso. Meraviglioso per naturalezza, meraviglioso per entusiasmo, meraviglioso per mancanza di altezzosa sofisticazione. Quando il mainstream è questo, ed esula comunque dalla messa cantata della melodia nazionalpopolare, del pop da cantare-tutti-insieme, dalla mera programmazione standard radiofonica, per noi è comunque una vittoria. E comunque alcuni set (pensiamo alle varie apparizioni di Kayzo, o a Malaa, giusto per nominarne un paio) sono stati comunque epici anche per orecchie, conoscenze e competenze più sofisticate da clubbing, senza contare quanto è sempre stato fatto negli stage più club-culture-oriented.
Su Terraforma invece si vince facile. Si vince facile perché fin dall’inizio è stato un festival costruito da profondissimi appassionati e conoscitori della materia musicale, in perfetto equilibrio tra ricerca, sperimentazione, pulsioni da dancefloor. Fin dall’inizio è stato un festival “da intenditori”, e fin dall’inizio ha rifiutato le logiche più commerciali che innervano ormai da oltre un ventennio la club culture, cercando una propria identità netta. Si è distinto per lo spirito, per le intenzioni, per la location (i giardini di Villa Arconati: un festival davvero immerso nel verde, in spazi che sembrano dare vita ad un non-luogo, ad una ieratica ma intensa TAZ), per tutta una serie di scelte (a partire dalle architetture delle strutture), per la capacità di attrarre immediatamente un pubblico straniero, cosa ancora molto rara per un festival italiano, e che ti riesce davvero solo se nel tuo hai una marcia in più. Terraforma, la marcia in più, l’ha evidentemente avuta dal giorno uno.
Insomma, due bellissimi festival. Due eccellenze. Stanno magari agli antipodi tra loro, effettivamente è così: per attitudine, per obiettivi, per numeri. Ma uno sguardo non settario bensì onnicomprensivo può e deve e considerarli entrambi, se si vuole fare il punto su cosa c’è in Italia, su cosa c’è di bello, forte e significativo in Italia.
…eppure, entrambi in questo 2024 hanno dovuto passare una “evoluzione della specie” per nulla facile. E raccontare tutto questo può essere molto interessante per quelli che pensano che “Fare un festival” sia una cazzata, sia solo questione di mettere insieme dei nomi in una line up come fossero figurine, e più son belli questi nomi – per il proprio gusto personale – più un festival è forte ed inscalfibile. Beh: balle. Il mercato dei festival è diventato un settore ad altissima sofisticazione e ad altissima difficoltà. Così tanto che due riconosciute eccellenze – ciascuna nel suo campo – come Nameless e Terraforma sono obbligate ad un adeguamento difficile, rischioso.
Partiamo da Nameless. La scelta di essere al 100% inclusivi (partire dall’EDM per aprire via via il ventaglio di proposte, parlare ad un pubblico di nicchia così come a quello più generalista, creare un festival che sia una vera e propria festa aperta a tutti, comprensibile a tutti) implica infilarsi in un mercato dove la grandi cifre e le grandi economie di scala oggi, per le dinamiche che ha preso il mercato nell’ultimo decennio, non è più una scelta ma un obbligo. Se decidi di ampliare il ventaglio e di giocare su ciò che attrae molte persone, entri in un tritacarne lavorativo dove l’unica via obbligata è la crescita continua, pena l’essere disarcionati dal convoglio del business e della sostenibilità economica. In tutti questi anni, ad ogni edizione Nameless è riuscito a crescere: come numeri, come strutture, come varietà dell’offerta musicale, come spazi, come servizi offerti allo spettatore. Ogni anno Nameless dal suo stesso successo e dalla sua stessa voglia di entusiasmare è stato obbligato ad essere “Il più grande Nameless di sempre”. Questo ha portato quest’anno allo sfondamento di un “soffitto di cristallo” in cui sono entrati, in line up, due nomi davvero nazionalpopolari, vedi Annalisa ed Angelina Mango. Funzionerà? Chiaro, sarebbe sbagliato ricondurre l’edizione di quest’anno sempre alla loro presenza (il cartellone è ricchissimo, in primis dal lato dance, va dalla Defected a Dj Snake, al sempre bravissimo Boys Noize fino agli headlineroni Justice), e in realtà le vere novità e le vere chicche sono quelle più dal punto di vista della user experience (i pagamenti solo con carta di credito, l’implementazione delle aree food e hospitality, la gestione dei parcheggi), ma il punto è che Nameless è naturaliter obbligato alla crescita continua in sede di progettazione e presentazione al pubblico, almeno per ora, e questa sfida è davvero molto complicata. Anche perché – e il team che porta avanti il festival è sempre stato piuttosto attento a questo – deve andare di passo col trattare con rispetto i suoi frequentatori, senza trasformarli mai in polli da spennare il più possibile, cercando sempre di mantenere su tutto un tocco umano ed artigianale. Tutto questo è una quadratura del cerchio che ad oggi, con qualche intoppo e mille invece cose bellissime, ha sempre funzionato. Ma davvero, essere costretti ogni anno ad essere “…l’edizione più grande di sempre” è dura. Vale la pena stringersi attorno al festival, allora: perché insieme a Kappa e Decibel è l’evento open air più grande che abbiamo in Italia, perché è nato – al contrario di tutti gli altri – percorrendo delle strade in Italia che quasi nessuno stava percorrendo, perché ha cresciuto una nuova generazione di grandissimi operatori del settore fuori da giochi e giochetti di potere (che invece hanno infettato il clubbing “tradizionale” in modo pesante).
E poi perché ci si diverte sempre tanto. Ma tanto. Si sta davvero bene.
(La line up di quest’anno: tanta tanta roba, per mille gusti e persone che se la vogliono vivere bene; continua sutto)
Terraforma, invece? Non dovrebbe avere di tutti questi problemi. Non è alla ricerca del mainstream. Non è alla ricerca della crescita continua. Non ha di suo, per come è stato progettato e pensato e finanche sviluppato, l’ansia e/o la necessità di diventare sempre più grande. Eppure quest’anno si spezza uno dei legami che più ha caratterizzato il festival: quello con Villa Arconati e il suo immenso giardino. Di più: per esserci, Terraforma quest’anno ha scelto e voluto un cambio di pelle radicale, immergendosi nel centro di Milano che più centro non si può, ovvero gli spazi del Parco Sempione e del Castello Sforzesco. Sei in Iinea d’aria a un chilometro dal Duomo, da Via Torino, a meno ancora da Cadorna che è lo snodo dei pendolari. Per mantenere la propria specificità e la propria unicità è andato comunque a pescare, in questo perimetro, spazi storici e unici come la Triennale, la Torre Branca, il Teatro Burri. Per la parte più clubbing però non si poteva stare lì: il “distaccamento notturno” è affidato a quella realtà interessantissima che è Gatto Verde, l’ennesima novità di una Milano sempre vitale e sempre in grado di rinnovarsi che, per quanto riguarda clubbing, ha abbandonato la liturgia dominante per un decennio intero de “Grande guest straniero + qualche resident a fare da riempitivo da far suonare a sala semivuota” per fare invece ricerca vera, chiamare nomi fuori dalle solite dinamiche da agenzia.
Threes Production, la realtà che ha creato e fa vivere Terraforma, ha poi intessuto una ramificata ed elaborata architetture di collaborazioni con progettualità a respiro europeo (TIMES, Shape+: progetti nati direttamente progetti UE) e comunque anticonvenzionali (Circa.Art, Princess Kira Of Prussia Foundation). Sono collaborazioni che danno significati (e risorse) in più a quello che si fa, ma che non è mai facile trovare, conoscere, coinvolgere. Farlo porta via tempo ed energie.
(Il solito grande gusto, la solita grande competenza, la solita voglia di ricerca intelligente, anche in questa neonata edizione EXO; continua sotto)
Artisticamente e come ricerca Terraforma, anche in questa versione EXO (che sta appunto a significare che si “esce” dai luoghi d’origine, andando a cercarne altri da infettare con ricerca, arte, sperimentazione in un approccio ibrido e de-centralizzato al concetto di “festival”), continua a offrire livelli altissimi, da Robert Henke a Hundebiss, passando per DJ NOBU e Slipmode e mille altri: potete affidarvi ad occhi chiusi, non sarete traditi. Come sempre. Di sicuro però cambiare completamente il baricentro del festival non è stata una scelta facile e nemmeno indolore. Ma evidentemente anche un congegno apparentemente perfetto come Terraforma-così-come-era aveva in realtà le sue difficoltà d’essere: perché anche nello stagno della sperimentazione e del clubbing più colto non ci sono magari le dinamiche da speculazione iper-capitalista del mainstream, ok, ma comunque gli appetiti sono cresciuti e il peso del banchetto è fatto ricadere in ultima istanza anche in questo caso sui promoter, a rischio di mandarli con le gambe per aria, o comunque di fargli passare la voglia di fare le cose.
È normale che se siete fan di Nameless non ve ne freghi nulla di Terraforma, e se siete fan di Terraforma Nameless vi faccia un po’ perplessità un po’ orrore. Ok. Non vi condanneremo certo per questo. Ma vorremo veramente capiste come si tratti di eventi che fanno parte dello stesso ecosistema e che, in questo ecosistema, hanno avuto fin dalla nascita il grande merito di fare le cose al di fuori di dinamiche consolidate, perché credevano fortemente nella loro idea, diventando così eccellenza. Non basta però questo coraggio, e nemmeno i riscontri di critica e pubblico, per vivere tranquilli. Perché il mondo dei festival è diventato una popolatissima, inflazionatissima, cattivissima giungla: sta a noi adottare le specie viventi a cui più ci sentiamo vicini, che più ci ispirano simpatia, perché hanno davvero bisogno del nostro sostegno.
Sennò torneremo alla merda. A quello che c’era dieci, quindici, vent’anni fa: quando tolto Dissonanze e poi un Club To Club ancora ai primi passi era necessario andare all’estero per vedere festival di spessore, o comunque non da Strapaese. Oggi in Italia siamo pieni, letteralmente pieni di festival belli, bellini, bellissimi: ma è un ecosistema fragile. Molto fragile. Anche creature consolidate e rigogliose come Terraforma e Nameless non hanno vita tranquilla. Questo fine settimana sta a voi non farli sentire soli, e non darli per scontati.
Perché qualora non l’aveste capito: mainstream o ricerca che sia, chi ha intenzioni trasparenti e buone idee non ha comunque vita facile, oggi, nella cinica industria musicale così come si è strutturata anche con le musiche “nuove”. La guerra vera è col cinismo del capitale, non con quello o quell’altro indirizzo musicale. Quest’ultime, sono bagatelle da adolescenti, magari adolescenti di cinquant’anni rimasti ai primi anni ’90 – il cuore della questione è ben altro.