Dal debutto nei club di Amburgo alle collaborazioni con la Deutsches Symphonie-Orchester di Berlino, nello spazio di dieci anni (o poco più) David August ha lanciato la sua impronta nel panorama club, elettronico e sperimentale in uno dei modi più versatili e distintivi possibili.
I motivi potrebbero essere semplici da spiegare: un repertorio classico con il pianoforte iniziato a suonare già da bambino, un acclamato debutto in Boiler Room, poco più che ventenne, una serie di produzioni che hanno sempre spaziato dai ritmi club alle dimensioni più mentali di ambient, drone e IDM. In tutto questo, però, la curiosità per la scoperta e la passione per le diverse sfumature dell’arte, in generale, sembrano rimanere il cuore pulsante della sua ricerca musicale.
Le sue radici, da parte materna, sono Italiane, mentre la sua casa rimane Berlino, uno dei simboli di una crescita artistica già parecchio matura, ma che sembra ancora destinata a sorprendere. Sarà presto in Sicilia, in lineup ad Ortigia Sound: dagli esordi ai recenti lavori, ne abbiamo approfittato per farci raccontare la sua storia.
Tra poco tornerai ad esibirti in Italia, ma vedo che sei in giro già da un bel pezzo, con diverse date tra Europa e America. Come sta andando?
Sono state delle settimane un po’ intense, con una parte del tour che è arrivato anche negli Stati Uniti, esatto. Adesso inizierò a lavorare sugli show di agosto, con in mezzo qualche sessione in studio per nuovi progetti e nuove collaborazioni, che verteranno su materiale ancora inedito.
Tra tour e nuova musica in cantiere, lo scorso autunno è uscito “VĪS”, il tuo ultimo album, che è anche, in un certo senso, un macro-progetto, con un lavoro che va dalla grafica alla coreografia, da un lightning dedicato allo show a molto altro, ad accompagnare la musica che contiene. Come nasce e che tipo di storia sta raccontando, dal vivo e fuori?
È un capitolo iniziato l’anno scorso, e che vedo come un veicolo trasformativo per un nuovo periodo creativo. Lo show ha diversi formati, che portiamo in giro dalla sua nascita: quello principale, con una coreografia di Franka Marlene Foth, scenografia di MFO e con l’apporto del percussionista Andrea Belfi, è stato eseguito live circa una decina di volte, tra diverse tappe in Europa. Poi esiste anche una versione A/V curata solamente con MFO alle luci, che sarà anche lo show che vedrete ad Ortigia. Ed è realizzato con una scenografia fatta appositamente per connettersi all’animo del progetto.
Tutto studiato per dargli una dimensione a sé, quindi.
Sì, non lo vedo e non l’ho mai percepito come il classico disco seguito da un tour, che poi rimane lì. È come un veicolo, un nuovo spazio creativo in cui io mi metto un po’ in secondo piano.
Cosa è cambiato rispetto a quanto avevi scritto in passato?
Di solito nella musica elaboro un percorso personale, qualcosa che possa riflettere una mia esperienza di vita. Avendo vissuto un periodo piuttosto introspettivo tra il 2019 e il 2022, mi sono posto nuove domande. Ero molto ispirato dall’idea di una universalità in tutto ciò che ci circonda. Sono temi esistenziali ai quali non ci sono risposte, solo una ricerca continua per avvicinarsi ad una verità.
Ho cercato di instaurare un dialogo con una dimensione incognita. A livello consapevole, penso che il progetto rappresenti un approccio più impersonale al mio processo creativo: mi sono posto come canale per qualcosa che va oltre il mio “io individuale”. Si tratta di un concetto che, pur non essendo religioso, percepisco come parte di una dimensione “altra”, quindi non completamente percepibile. È un passo fondamentalmente diverso, rispetto al mio passato.
E possiamo dire che per farlo hai agito quasi da regista, oltre che come compositore. Perché si tratta di un progetto che coinvolge interpreti e creatività del tutto particolari, dall’alfabeto immaginario creato da Hiba Baddou, poi il già citato lavoro a livello di visual art di Marcel Weber (MFO), che abbraccia anche le coreografie di Franka Marlene Foth per lo show. Mi sembra insomma che tutto questo si differenzi parecchio da altri tipi di lavori “preconfezionati” che può a volte offrire il panorama elettronico-sperimentale oggi.
Perché ho capito innanzitutto e fin da subito che questa visione poteva realizzarsi solo grazie al contributo di altre persone. Ho accolto diverse idee e riconosciuto l’importanza di integrare varie discipline, menti e forme creative. Un regista, forse, sì, o meglio un direttore d’orchestra che dà una direzione verso qualcosa che da solo non potrebbe intraprendere. Il mio obiettivo è stato far emergere il linguaggio che abbiamo creato, evitando che l’ego interferisse. E la mia priorità è servire la musica, ascoltare e comprendere ciò che desidera esprimere.
Facendo un passetto indietro sul tuo percorso, mi sembra che “Times” sia stato il momento chiave per maturare alcune delle idee di cui stiamo parlando, ed anche “D’Angelo” aveva già fatto percepire come le tue influenze artistiche potessero maturare e cambiare. Per dire che, nonostante tu abbia iniziato con radici più orientate al club che si mescolavano a studi classici, hai sempre cercato di integrare una visione d’insieme nei tuoi lavori. Quanto pensi sia cambiato David August durante questi anni?
Penso che ci sia stata una trasformazione personale che inevitabilmente ha portato anche ad una trasformazione musicale. Per chi pratica un’arte—nel mio caso, la musica—c’è sempre una continua ricerca di crescita, una necessità di evolversi personalmente ed artisticamente. Credo fortemente che il cambiamento sia una forma di movimento necessario, un concetto che abbraccia il futuro e permea ogni aspetto della nostra esistenza. E lo fa a livello microscopico e macroscopico, se vogliamo esplorare un livello più filosofico e profondo del discorso.
Cambiamento che nel tuo caso somiglia proprio ad un mantra: dal debutto in Boiler Room si passa ad esibizioni al Barbican, poi a collaborazioni con l’Orchestra Sinfonica di Berlino e il Coro Polifonico di Palestrina, la città di origine di tua madre, poco fuori Roma. Hai sempre navigato tra mondi così diversi, riuscendo a integrar però tutti loro nella tua esperienza, in modo naturale. Anche se per te potrà sembrare normale, sai che questo non è qualcosa che tutti riescono a fare?
Ti dirò che potrebbe sembrare che tutto avvenga senza sforzi, ma è chiaro che ogni processo creativo ed ogni traguardo del genere comporta delle difficoltà, richiede tempo ed energia: materializzare la propria visione per un artista può rappresentare un sfida da superare. È vero, mi sento a mio agio sia nel club che nelle collaborazioni con forme più classiche. Ma credo, aldilà del resto, che sia proprio questa diversità a mantenermi vivo.
A proposito di club, i quattro brani di “Workouts”, EP uscito recentemente sulla tua 99CHANTS, rappresentano proprio il continuum sul dancefloor della visione dettata da “VĪS”. Torniamo alle differenti dimensioni e al cambiamento, ma in fondo torniamo anche (e di nuovo) al tuo animo artistico in costante movimento.
È qualcosa che mi permette di riconnettermi al movimento fisico, in nuove forme, di trovare piacere anche in questo contesto. Nonostante “VĪS” avesse, appunto, un carattere più “cinematografico” o “teatrale”. Ho sempre avuto una passione per la club culture e negli ultimi anni ho trovato nuove ispirazioni per approcciarla di nuovo. Avere accesso a questa diversità di… colori, direi, è una grande fortuna, una gioia. Mantiene il mio lavoro stimolante e ispirato. Ciascuno di noi ha dei limiti, ma nel mio percorso proverò sempre a creare musica in diverse forme. Non potrei mai fermarmi all’espressione di un unico linguaggio.
Trasformazione di cui parlavi anche in riferimento alla dimensione club, in una recente intervista, in cui dicevi sembri avvicinarsi sempre più al pop, con i confini tra pista e mainstream che si stanno facendo molto sottili. È un’evoluzione positiva, che trascinerà artisti meno esposti verso grandi festival e grande pubblico, o qualcosa che può, al contrario, farci perdere quella naturalezza ed autenticità che hanno sempre definito il suo lato più viscerale, più underground?
Penso che il pop abbia sempre attinto all’underground per ispirazione e innovazione, spesso in maniera furba. Gli artisti da classifica si sono rivolti di frequente alle strutture e alle tendenze dell’underground per rimanere freschi e rilevanti. Certo, questa dinamica può aver creato uno squilibrio di potere, in cui i grandi nomi hanno avuto i mezzi per sfruttare le tendenze emergenti senza necessariamente restituire o supportare adeguatamente le scene da cui attingono. E la vicinanza attuale potrebbe portare a una perdita di quella naturalezza e autenticità che caratterizzano l’underground. Ma credo, allo stesso tempo, ci sia anche un’interessante possibilità che questa evoluzione porti ambienti sperimentali, al contrario, a un pubblico più ampio, in grado di arricchire la sua scena. La chiave sarà trovare un equilibrio tra l’innovazione e il rispetto per le sue radici, per le sue origini.
Però forse sta avvenendo anche un po’ il contrario, no? Adesso anche l’underground sembra voglia pescare dal pop, attirarlo verso sé, sperimentare con le sue dinamiche dall’interno.
Credo che l’underground sarà sempre una subcultura che continuerà a crescere, che saprà mutare. Anche se può diventare più “commercializzato”, anche se la tecnologia ha reso tutto più accessibile, conterrà in sé un dialogo in continua trasformazione. Ed anche con il pop, appunto. Su questo secondo me si potranno fare delle considerazioni un po’ più mature tra qualche anno, quando magari guardando indietro capiremo meglio ciò che è successo. Con un occhio attento al passato si può imparare molto sul presente. E non so esattamente cosa ne diremo, ma a livello di contaminazione culturale e musicale credo stiamo vivendo un periodo molto interessante.
In questo senso come vedi lo scenario della musica sperimentale e in generale il movimento club in Italia, rispetto a quello che riesci ad osservare a livello globale? Siamo finalmente “più uguali” al resto del mondo o si percepisce ancora un certo—classico, storico—gap?
Sinceramente non ho seguito molto le tendenze in Italia ultimamente, se non con qualche eccezione, perché non sono stato molto lì per suonare ed è difficile averne un giudizio preciso. Anzi, l’esperienza di Ortigia sarà molto preziosa in questo senso, per permettermi di vedere più da vicino cosa succede in questi contesti, ad un evento che viene peraltro trainato da una curatela che io ho sempre apprezzato molto.
Per il resto le mie impressioni attuali sono più influenzate dalle esperienze che faccio in altri luoghi, tra Berlino o più occasionalmente Londra o New York. Seguo la scena musicale di Roma e Milano, un po’ anche quella di Palermo e Napoli, ed ho diversi legami con collaboratori italiani come Andrea Belfi, VISIO (Nicolò Tirabasso), Heith ed altri. L’Italia è molto vicina a me a livello emotivo, ma per quanto riguarda una concreta percezione del suo panorama ci dovrei ripassare più tempo. Sono passati ormai due anni da quando mi sono trasferito di nuovo a Berlino da Roma.
Per quanto, c’è da dire, nomi come Caterina Barbieri, Lorenzo Senni, Daniela Pes, tra gli altri, dimostrano che la scena sta vivendo una fase decisamente interessante, che in certi ambienti (e sì, con riconoscimenti all’estero ma soprattutto, appunto, nel nostro stesso paese) non attecchiva forse da Battiato e dall’ultimo sussulto creativo di fine anni Settanta. Ovviamente, soffermandoci ad un discorso sul grande contenitore di musica “altra”.
Sì, ma la cultura italiana ha sempre prodotto figure iconiche che hanno saputo esprimere qualcosa di profondamente radicato nella storia. Esiste una lunga e ricca tradizione di innovazione artistica (in tutti i campi) che ha influenzato artisti a livello globale. Ad esempio, leggevo di recente un articolo su Lucio Battisti, proprio qui su Soundwall, che metteva in luce la sua influenza sulla nascita dell’house. Insomma, è un paese con una storia di chiara e grande ispirazione e creatività, e credo che ci sia ancora molto potenziale inespresso. Spero vivamente che questo patrimonio emozionale e passionale, che è il suo vero punto di forza, riceva anche maggior riconoscimento e visibilità in futuro. Tempi politicamente oscuri sono anche momenti di nuove sorgenti e forse, proprio adesso, rappresentano un’occasione per osservare cosa succede all’orizzonte creativo.
Si legge sul sito del progetto 99CHANTS, la tua etichetta, che arriverà a 99 release esatte, per poi “implodere”. È tutto vero? E intanto, ce n’è già qualcuna in pentola, per l’immediato?
Sì, ci sono alcune novità in arrivo, anche se è ancora presto per parlarne. Ufficialmente posso anticipare che stiamo preparando un album di reinterpretazioni di “VĪS”, in uscita in autunno. Ho invitato 13 artisti a creare nuove versioni del disco, per realizzare ulteriori rielaborazioni individuali e uniche dei brani. Ci sono anche altre sorprese che comunicheremo in futuro, poi vedremo come si evolverà la visione. E sì, vedremo anche se raggiungeremo mai il traguardo delle 99 release.