Alla fine, buona (solo?) l’ultima. Sì: perché è solo col concerto dei Massive Attack, atto finale di un’edizione di Todays nata e cresciuta quest’anno fra radicali cambiamenti e mille (prevedibili, giustificate) polemiche, che si è avuto esattamente e finalmente quello che si doveva avere, almeno nelle idee e nei desideri degli assessori Purchia (alla Cultura) e Carretta (ai Grandi Eventi), i primi motori aristotelici del golpe contro la precedente gestione del festival che tanto ha fatto parlare la città e gli appassionati da tutta Italia.
Ovvero: è coi Massive e solo coi Massive che si è avuto una band di livello mondiale con uno spettacolo imponente e maestoso, un’area concerti piena e suggestiva (con quella Basilica di Superga che fa capolino…), un pubblico attentissimo, preparato ed entusiasta (raramente abbiamo visto ottomila persona in religioso silenzio ad un concerto, e non per noia, ma per spasmodica attenzione e reale emozione verso quello che stava accadendo sul palco ed attraverso i videowall ai lati: ieri a Torino è successo, ed è stato davvero raro, emozionante). Benissimo. Un effettivo salto di livello, per portata numerica e produttiva, e probabilmente anche emozionale nel senso più vasto, rispetto alle edizioni precedenti del festival. Evviva, evviva.
(Un palco così Todays non l’ha mai avuto; continua sotto)
Ma le buone notizie, tuttavia, finiscono qui. Perché il resto è invece tutto un gioco di specchi che parla la lingua delle miserie della politica quando, in Italia, prova ad entrare nel “nostro” settore: facendolo sempre con ignoranza, superficialità, supponenza. E creando buchi e momenti tristi.
Che siano gli organizzatori del “nuovo” Todays a cantare vittoria e a parlare di edizione di gran successo, nei comunicati stampa celebrativi post evento, ci sta, è nell’ordine delle cose: sono parte in causa, loro. L’oste parla sempre bene del suo vino, ci sarebbe da stupirsi del contrario. A Torino poi c’è una consolidata tradizione di gonfiare a dismisura i numeri (da Traffic a certe edizioni di C2C, dove anche se passeggiavi prendendo il gelato a chilometri di distanza dagli eventi eri conteggiato come pubblico), per rassicurare i partner istituzionali. Che siano però Carretta e Purchia a dare fiato alle trombe e a parlare nelle dichiarazioni ufficiali nero su bianco e con entusiasmo di «bilancio positivo», di un «siamo soddisfatti della buona riuscita degli eventi», con la chiosa infine del «la scelta di sperimentare è stata vincente», sa un po’ di presa in giro sperando che (quasi) nessuno se ne accorga; oppure – altra faccia delle stessa medaglia – sa invece di tentativo di nascondere i danni che loro stessi hanno combinato col loro intervento sgraziato (in primis dell’assessore Purchia) per cambiare, a colpi di bando, il team che stava dietro al festival fin dal suo concepimento – e che al festival aveva dato indiscutibilmente un’anima ed un’identità, come del resto il bando stesso ammetteva e sottilineava.
Cambiare ci stava, per carità. Il Comune a Todays versava (e versa) tanti, tanti soldi: è nell’ordine delle cose che dia poteri di indirizzo e che dica anche che, a suo parere, per quanto veniva dato in termini economici, il “vecchio” Todays, dal suo concepimento al 2023, non restituisse abbastanza alla città, ma esisteva solo grazie alle bombole d’ossigeno economiche delle istituzioni senza fare troppi sforzi per respirare, finanziariamente, almeno un po’ da solo. Opinabile ma lecito, con delle oggettive pezze d’appoggio numeriche.
Da lì in poi però è stato sbagliato tutto, e vi diamo un elenco preciso: la coda di paglia (perché questo è…) del voler mantenere lo stesso nome, lo stesso indirizzo artistico e finanche lo stesso logo alla manifestazione; la non chiarezza stile ti-lascio-ma-non-te-dico con la vecchia compagine alla guida del tutto; i bandi fatti partire troppo tardi (già oggi sarebbe troppo tardi per far partire il bando per l’edizione 2025, coi tempi dell’industria della musica live: figuriamoci averli calendarizzati come esito quattro mesi prima del festival); le idee confuse su cosa sia un festival (obbligare a spalmare tutto su oltre una settimana è un cappio al collo di chi vince il bando, o il segno di una confusione in testa nella differenza tra «festival» e «rassegna», pensando che in fondo siano la stessa cosa ed implichino sforzi e concettualità simili). Un errore dietro l’altro, frutto di approssimazione, presunzione o chissà che altro.
L’idea di partorire un festival che fosse “…come il vecchio Todays, ma meglio e molto più grande”, il senso era palesemente quello, esplicitata nel bando e nei suoi termini d’assegnazione gonfiando i giorni e pretendendo i numeri, ha partorito alla fine una creatura zoppa e sghemba. La nuova compagine alla guida di Todays ovvero la Fondazione Reverse – esperta, sì, ma su tiri artistici differenti, tiri meno indie e molto più mainstream – è stata più o meno esplicitamente obbligata a travestirsi da quello che non è, per imitare ciò che c’era prima (un’identità che è stata costruita negli anni, con attenzione, gusto e cocciutaggine). Ci si è messa d’impegno, e non ha fatto male sotto certi punti di vista: bel colpo i Massive Attack, bellissimo colpo gli LCD Soundsystem, Arlo Parks e Jesus & The Mary Chain erano nomi che stavano benissimo anche nelle line up del Todays gestione precedente quindi figuriamoci se ci si può lamentare, notevoli anche un po’ di scelte sui nomi minori in cartellone (Tangerine Dream, Nation Of Language, English Teacher, C’mon Tigre, A Toys Orchestra).
Ma nel chiedere col bando tanto di più, e il tutto in molto meno tempo, per giunta su un terreno su cui la Fondazione Reverse – che per vari motivi forse “doveva” vincere, una lettura attenta del bando e di certe valutazioni girateci in camera caritatis lo fa sospettare – non ha uno storico, con l’idea che bastasse il (nutrito!) contributo delle istituzioni a far stare in piedi tutto, ecco, nel fare così si è sbagliato parecchio. Errori proprio di fondo, nati dalla sottovalutazione di una serie di aspetti In primis: nel fare così, non è stata data la minima possibilità di creare un’identità, un rapporto, un discorso strutturato con il pubblico, processo che non aveva il tempo materiale di svilupparsi e che, soprattutto, è stato sabotato fin dall’inizio, fin dalle sue radici. Si pensava: bastano i soldi, e noi ne diamo tanti, poi tanto al pubblico va bene tutto. Eh.
(Reality vs. social: questa la foto “ufficiale” del set degli Overmono, scattata dal bravo Matteo Bosonetto; continua sotto)
Risultato? Senza girarci attorno, e pazienza se ci faremo odiare dagli uffici stampa degli assessori, è stato un Todays andato molto male in termini di affluenza di pubblico. Ripetiamolo: molto male. Con l’unica eccezione appunto della serata finale coi Massive Attack, andata sold out con oltre 8000 paganti e capace, da sola, di attirare più di un terzo (ma forse proprio la metà) degli spettatori complessivi di una rassegna lunga undici giorni. Ma Overmondo, Arlo Parks, Tangerine Dream, Jesus & The Mary Chain, Fast Animals Slow Kids ed anche altri hanno suonato di fronte a poche centinaia di persone. Su un palco gigantesco, da mega produzione. Immaginatevi la desolazione.
(Reality vs. social, parte 2: questa invece la foto, scattata da un nostro amico, sempre durante l’esibizione degli Overmono; continua sotto)
Ok, i numeri non sono tutto, ci mancherebbe. Ma né la città né la più larga comunità di appassionati indie in tutta Italia hanno avuto modo (e tempo) di percepire il “nuovo” Todays come qualcosa a cui legarsi, da supportare, come un’entità autentica ed organica. E a ben ragione: visto che è stato fatto tutto con fretta e malagrazia. Torino è una città particolare, sulla musica leggera di alta qualità. E questo Purchia e Carretta evidentemente non lo sanno, o lo sottovalutano. C’è sul campo una “intelligenza diffusa” per cui particolari che altrove sono irrilevanti, sotto la Mole diventano decisivi. È un pubblico esperto, che non si fa prendere in giro e che tiene d’occhio testi e contesti. Non è un caso che sia la città che esprime il più alto numero di giornalisti musicali di livello, da decenni. Ed è un contesto particolare anche la “bolla indie” che ha caratterizzato, plasmato e sostenuto fin dalla nascita Todays: anche qui, l'”intelligenza diffusa” di cui sopra la fa da padrona.
Se non fosse stata cambiata gestione al festival, infatti, LCD Soundsystem (concerto strepitoso, il loro: che fortuna averli avuti) e Arlo Parks, giusto per fare due nomi, avrebbero raddoppiato se non triplicato il loro pubblico: statene pur certi. Di sicuro anche Jesus & The Mary Chain sarebbe andata meglio. E se al “nuovo” Todays fosse stato dato il tempo di strutturarsi e raccontarsi (senza obbligarlo ad essere, per motivi di opportunità politica e di ipocrisia della Giunta, una implementazione di ciò che c’era già, ma ripartendo da zero con una identità dichiaratamente diversa) anche mosse controverse, come l’inserimento di Mahmood in cartellone, sarebbero state più comprese ed apprezzate; esattamente come negli anni passati un altro brand torinese forte nel mondo dei festival come C2C – grazie una identità costruita con perseveranza e maniacale attenzione anno dopo anno – aveva potuto inserire in line up nomi come Ghali e Dark Polo Gang senza che nessuno avesse avuto niente da ridire, anzi, mietendo lodi per il coraggio nello scompaginare gli schemi più prevedibili.
Altra cosa. Non bisogna farsi ingannare dai dati, rivendicati con orgoglio nel comunicato stampa finale della manifestazione, che parlano di un 40% di arrivi fuori Torino e in un 70% di presenti che “scopriva” Todays per la prima volta: in apparenza sono dati positivi, te li vendono come tali, beata innocenza, però la verità è che dicono due cose, per nulla felici: la prima, che la città non ha assolutamente risposto (perché lo ripetiamo, l’affluenza è stata davvero gravemente deficitaria in molte serate: il 40% di pochissimo resta pochissimo); la seconda, che la comunità storica di appassionati attorno a Todays (che c’era, e mieteva sold out dopo sold out negli anni passati) ha voltato per principio le spalle alla nuova edizione, alla nuova gestione. Non ci pare un grande bilancio. Ci pare, semmai, un grande pasticcio. Dove le scelte politiche hanno obbligato Fondazione Reverse a lanciarsi in una missione (quasi) impossibile, che infatti si è rivelata tale.
E quest’ultima, come va giudicata? Quest’ultima ha fatto il possibile, muovendosi in territori che non aveva granché frequentato e dovendo trovare in pochi mesi band il cui planning di solito si fissa con minimo un anno anticipo (e che comunque dovevano essere più o meno coerenti coll’indirizzo artistico storico di Todays). Ha allestito bene il Parco della Confluenza (ottimo il palco, eccezionale l’impianto audio: bravi); ha cercato di coinvolgere quei – non tanti, non tanti – operatori culturali cittadini e regionali che avevano accettato di essere coinvolti in questo Todays 2.0 dove cinicamente e in modo sgraziato veniva fatta fuori la vecchia direzione, quella che lo aveva fatto nascere e gli aveva dato un’identità, facendo finta che non fosse successo niente di che.
(Il vero highlight dell’edizione 2024 di Todays: gli LCD Soundsystem, bravissimi; continua sotto)
Di più, per certi versi, Fondazione Reverse non poteva fare. Onore al merito. Non era facile. Di meno, però, poteva stare attenta a non fare errori da dilettanti (i manifesti con scritto “LCD Sounsystem”, una comunicazione sui social un po’ sbrigativa e un tanto al chilo su certi dettagli) che, per carità, capitano a tutti, ma proprio quando hai tutti gli occhi addosso dovresti stare doppiamente attento a non fare; e di meno poteva fare anche quanto fatto su certe interviste, dove – magari anche per la pressione del clima negativo che gravitava sulla faccenda – si è fatto un po’ scioccamente i ganassa (…ripetiamo, non lo prendi in giro, il pubblico indie di Torino, non è come altri in Italia: se parli di cose che non sai del tutto e lo tratti da scemo e/o inesperto ti tana subito. Non siamo mica a Stupinigi a fare i rapper che passano per Sanremo o le vecchie glorie trasversali del pop rock per famiglie – quello è un altro sport, ed un’altra audience).
La colpa comunque, ricordiamocelo, è prima di tutto di chi l’ha messa, Fondazione Reverse, in queste posizioni scomode. E la colpa prima di tutto è di chi, pensando di dare un taglio agli sprechi, ne ha generato di ancora più grandi, dissipando esperienze e identità consolidate all’inseguimento di un uovo che è costato, mettendo insieme pubblico e privato, il triplo, ma ha incassato più o meno lo stesso e ha fatto più o meno gli stessi numeri degli anni passati se non molto di meno (se guardiamo non al dato totale ma alla media per giornata). Questo succede, quando intervieni con l’eleganza di un elefante in una cristalleria in contesti di cui conosci poco, di cui ignori le dinamiche più profonde, ma tanto pensi che tu c’hai il potere, tu c’hai i soldi, tu sei quello veramente ganzo, quindi la gente abbocca e non si fa troppe domende. Questo sono i risultati. Perché a Torino, le domande, se le fanno. E in certi contesti musicali un po’ più ricercati idem.
…e lo si è capito proprio dal comportamento dei presenti al concerto dei Massive, come dicevamo. Mai, mai, mai abbiamo visto così tante persone in un silenzio così religioso ed attento. Mai. Un pubblico raro. Un pubblico che fin dall’inizio si è voluto immergere, con devozione, attenzione e rispetto, nel pugno nello stomaco audio/video confezionato da 3D e soci, dove la band – ottima, come da anni – è stata definitivamente messa in secondo piano rispetto ai messaggi lanciati sul megaschermo. Non nascondiamo un po’ di delusione, in realtà, e scusate se spezziamo il coro unanime di entusiasmo: tutto molto bello e molto forte, sì, ma la comunicazione dei Massive Attack da intelligentissima e sofisticata è diventata un po’ retorica. Il materiale video aggiunto negli ultimi anni se da un lato poneva con forza cause giustissime (la questione palestinese in primis), dall’altro lo faceva utilizzando un sarcasmo e una forza critica un po’ didascalici e sfiatati, per quanto “telefonati” ed indignati/bidimensionali. Anche una bella e stimolante idea come inserire, con un effetto notevolmente straniante, citazioni esplicite di “In My Mind” di Gigi Dag (all’inizio ed alla fine) e di “Levels” di Avicii, che era in teoria un modo per perculare la nostra garrula quotidianità europea divertentista mentre attorno a noi si sollevano guerre e quesiti fondamentali per l’umanità, inserito in una cornice in cui tutto è troppo dichiarato e troppo urlato sapeva più di predica che di stimolo a riflettere.
Insomma: la cosa giusta fatta nel modo giusto, se inserita nel contesto sbagliato intriso dirigismo “predicatorio”, riesce nel suo intento solo a metà, se non addirittura peggio. E a pensarci bene, questo è il riassunto dell’edizione 2024 di Todays.
Ora vediamo quali fantastiche sorprese ci riserverà il bando per l’edizione 2025. Buon senso vorrebbe che, se proprio si è fatta una scelta, si continuasse con quella almeno per tre edizioni, che è il lasso di tempo minimo per dispiegare l’identità e le potenzialità economiche di un progetto-festival. Ma ovviamente al Comune non la vedono così. Questa edizione doveva disarcionare il “vecchio” Todays per darlo in mano a Fondazione Reverse (che si è preso una polpetta avvelenata: infatti c’ha perso dei soldi e manco pochi anche perché – onore al merito, davvero – ha voluto fare le cose a modo), piacesse o meno alla città ed stragrande maggioranza degli operatori del settore. E così è accaduto. La prossima, però, chissà: dipende dal bando! Si riparte da zero!
Mah. Veramente: mah.
Forse era meglio fare solo Gigi Dag. Quello vero.
Che è pure di Torino.