“If you still like to party, then do”: è fulminante e perfetta questa punchline che il dj Finn Johannsen ha usato nel post, sul suo profilo Facebook personale, in cui riporta la notizia del Watergate che per bocca del team che lo guida annuncia la chiusura definitiva entro la fine dell’anno della venue, notizia che ha messo a rumore un po’ tutte le bacheche di chi bazzica le robe di clubbing.
Non poteva essere altrimenti: piaccia o meno, il Watergate è sempre stato uno dei posti iconici del clubbing berlinese (anzi, prima che nascesse il Berghain – perché esiste un tempo prima del Berghain, sissignori – era il posto dove andare, nella capitale berlinese, anche se chi vi scrive ha sempre più avuto più predilezione per WMF e Maria). Scoprire che entro la fine dell’anno il Watergate chiuderà definitivamente i battenti, per decisione diretta di chi lo gestisce, è effettivamente una notizia abbastanza epocale, in ottica berlinologica. E ha generato alti lai, disperazioni e lamenti.
In qualche caso però si tratta di lacrime di coccodrillo. Molti di quelli che rimpiangono il Watergate e ne lamentano la chiusura hanno in realtà passato gli ultimi anni a dire quanto fosse diventato un posto del cazzo, invivibile, inutile, essenzialmente pieno solo di turisti dozzinali e basta; del resto, lo stesso Ulrich Wombacher, un terzo del triumvirato che guida il club di Falckensteinerstrasse, ammette in un’intervista che il numero di stranieri in serata spesso e volentieri poteva oscillare tra il 50 e il 70%. Ok. Ma al di là della provenienza degli avventori, effettivamente il Watergate da tempo non era (più) il posto dove andare a cercare il nuovo, l’alternativo, la sorpresa. Non era più quello di New Kids On Acid (chi sa, sa).
Molti di quelli che rimpiangono il Watergate e ne lamentano la chiusura hanno in realtà passato gli ultimi anni a dire quanto fosse diventato un posto del cazzo, invivibile, inutile, essenzialmente pieno solo di turisti dozzinali e basta
Nell’intervista citata prima, Wombacher cita vari fattori per la scelta di chiudere: ad esempio la pandemia, non tanto per le chiusure in sé ma per quanto possa aver cambiato le abitudini delle persone; l’aumento dei costi fissi, per colpa in primis dell’aggressione russa all’Ucraina e conseguente conflitto, così come dell’inflazione; l’evoluzione di Berlino, che è diventata negli ultimi anni molto meno una meta turistica accessibile e low cost (ed in effetti se provate ad andare ora, nella capitale tedesca, i voli costano di più e dormirci costa abbastanza uno sproposito). In questo modo pure un club “commerciale” (mettiamo le virgolette, ma ci capiamo, no?) quale era diventato il Watergate, con una line up spesso infarcita di “soliti noti” e che spesso rappresenta un incasso sicuro altrove, faceva e fa fatica a stare a galla.
Last but bot least va introdotta la figura di Gijora Padovicz. Brillante e spregiudicato palazzinaro, negli anni ha fatto razzia di edifici pubblici rilevandone la proprietà nel momento in cui la città di Berlino, per sopperire a un deficit di bilancio mostruoso, svendeva la qualunque. A due lire si è portato via così un sacco di edifici, e ha aspettato piano piano che si rivalutassero di pari passo col modo in cui Berlino tutta si stava rivalutando come meta turistica di massa e in generale come città “desiderabile”. Ora – anche giustamente, dal suo punto di vista – inizia a pretendere degli affitti a prezzi di mercato attualizzati, non quelli “idilliaci” degli anni ’90 e primi 2000. Le mura del Watergate sono sue; ma lo sono, per dire, anche quelle del Renate, così come di molti spazi in Revalerstrasse o in Boxhagener Platz, la prima storico epicentro sociale (più o meno) alternativo, la seconda passata in un decennio da zona carina ma semi-abbandonata a turbinio di locali, ristoranti, gentrificazione di massa.
(Una cosa rimpiangeremo del Watergate di sicuro – il panorama dalle vetrate. Continua sotto)
Abbiamo fatto tutto noi, quindi. Abbiamo rivalutato le proprietà di Padovicz o, nei casi peggiori, ne abbiamo tenuto alto il valore. Sì, siamo stati noi: lo abbiamo fatto con le nostre scelte, i nostri gusti, i nostri city break, la nostra passione per un certo tipo di Berlino. Una Berlino su cui il Padovicz Group è intervenuto non brutalmente e all’improvviso, scacciando e spianando appena diventato proprietario degli spazi (…e avrebbe potuto farlo), ma con pazienza cinese ha invece aspettato che posti ed aree si rivalutassero con la nostra presenza, la nostra voglia di consumo socio-culturale e il nostro apprezzamento. Un colpetto di aumento di affitto di qua, uno di là, fino ad arrivare a livelli di mercato.
La via giusta col senno di poi l’hanno presa quelli del Bar 25, notoriamente non dei mostri di simpatia, che alla fine si sono costruiti loro la propria cittadella, senza dover affittare mura a nessuno (anche se i piani di riqualificazione complessiva della Mediaspree non lasciano dormire sonni tranquilli nemmeno a loro).
La verità? Dobbiamo arrenderci all’idea che un certo tipo di Berlino non c’è più e, se c’è stata, se è esistita, forse è proprio perché aveva vissuto “leggera” sull’irresponsabilità di non porsi il problema del domani, e della difesa dalle dinamiche del mercato immobiliare e del turismo di massa.
Anzi, di più: ad un certo punto si è nutrita sia dell’uno che dell’altra, la “nostra” Berlino. Sia del mercato, che di un certo tipo di turismo. Visto che è stato il mercato a risollevare la capitale tedesca dal collasso economico rendendo possibile un funzionamento regolare delle strutture socio-logistiche cittadine, punto numero uno; ed è stato il turismo di massa delle nuove generazioni a rendere il clubbing un business profittevole e che a più di qualcuno ha garantito, da un certo punto in avanti, una vita di benessere (…mi ricordo ancora la personale, divertita sorpresa a scoprire che negli uffici della Ostgut, ai tempi d’oro, c’erano le sessioni di yoga a domicilio, direttamente in ufficio: bella la vita). Era però solo questione di tempo prima che la cosa si ritorcesse contro.
La verità? Dobbiamo arrenderci all’idea che un certo tipo di Berlino non c’è più e, se c’è stata, se è esistita, forse è proprio perché aveva vissuto “leggera” sull’irresponsabilità di non porsi il problema del domani
Lamentarsi ora del Padovicz Group (che ripetiamo, avrebbe potuto far sloggiare Watergate e Renate ben prima, togliendoci anni ed anni di ottimo clubbing) o di come Berlino non sia più quella di prima, da un lato è umanamente comprensibile ma dall’altro – da un punto di vista più razionale – fa quindi molto, molto, molto sorridere. Così come fanno appunto sorridere le lacrime sul Watergate, dopo che per anni si è fatto il tiro al piattello su di esso, sulle sue scelte, sul suo progressivo posizionamento verso il clubbing più immediatamente fruttifero.
La soluzione sta tutta nella punchline di Finn Johannsen messa ad inizio articolo: “If you still like the party, then do”. Lo spazio per resistere ed esistere, c’è. C’è – se lo si vuole davvero.
L’impressione infatti è che il maggior numero di lacrime sull’andazzo della chiusura di club e discoteche lo stia spendendo, oggi, chi a ballare non ci va quasi più. È come se pretendesse che i posti restassero aperti per fargli un favore, per fare un favore a suoi bei ricordi di gioventù ruggente. Sarebbe molto più onesto dire – e più di qualcuno lo ha fatto, sia chiaro – “Il Watergate da anni non mi piaceva e mi era irrilevante, mi spiace per chi perde il lavoro ma culturalmente e socialmente non è più una grande perdita per la città”. Così come sarebbe più interessante capire se Berlino, oltre a celebrare se stessa in un modo che si sta pericolosamente avvicinando alla retorica ed al luogo comune, sia in grado di rinnovarsi: di generare altri posti, di rendere il clubbing centrale nella vita delle persone che la città la abitano, e non (solo) di quelli che prendono un easyJet o un Ryanair per spaccarsi ammerda in un weekend. Questi sono i veri punti.
Ovvio: una città fatta di Padovicz e di altri palazzinari, che mirano ad alzare clamorosamente il costo della vita e dell’immobiliare, rende molto più difficile si sviluppi qualcosa del genere. Da che mondo è mondo, i più interessanti movimenti artistici e culturali nascono lì dove il costo della vita è basso, dove l’esistenza quotidiana è un’avventura instabile e complicata, dove la “persona media” avrebbe (…ed ha!) qualche remora ad avventurarsi. È così da decenni, se non proprio da secoli: piaccia o non piaccia, difficile sfuggire da questa dinamica. E ad un certo punto vince sempre chi ha i soldi.
Forse sarebbe il caso di iniziare ad usare le nostre energie non per rimpiangere una Berlino che non c’è più e che quasi sicuramente non tornerà (come del resto molti di noi sempre più spesso iniziavano a dire), ma per invece cercare – all’ombra della Porta di Brandeburgo o altrove – nuove scintille, nuove pratiche, nuova voglia di uscire dalla fredda e cinica asetticità del mercato e della quotidianità più convenzionale. Gente così cazzuta da riuscire a metterla in quel posto alle mosse dei vari Padovicz in campo.
Lamentarsi della Berlino-che-non-c’è-più è consolatorio e ci fa sentire persone migliori, più sagge e più esperte, ma alla fine rischia di essere più sterile di quel che sembra a prima vista
È quasi un bene quindi che il Watergate chiuda. È un ennesimo segnale preciso ed inequivocabile della fine di un’era, era iniziata con la fine degli anni ’90 e terminata quando Berlino ha iniziato ad avere le stesse identiche dinamiche di costo e simili modalità di vita di altre capitali europee. Del resto già la Berlino del Watergate, del Berghain e prima ancora del WMF era vista come una “svendita” rispetto al piglio duro&puro che si era sviluppato tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 con le occupazioni diffuse e sistematiche, col primo Tresor, col Tacheles, eccetera eccetera. Possiamo piangere su quello che non c’è più o sta per scomparire, lamentandoci del capitalismo brutto e cattivo (dimenticandoci che spesso proprio questo capitalismo è alla base dei nostri consumi culturali e sociali); possiamo invece cercare di capire oggi cosa si potrebbe fare, cosa si dovrebbe fare, cosa potrebbe essere rilevante. Magari a Berlino, magari anche altrove: mica esiste solo Berlino.
Dixon avrebbe preferito restare a vita resident del primo Tresor a cinquanta marchi tedeschi a dj set, invece di diventare il dj che oggi chiede ventimila euro a data e si veste con capi firmati? E questo non per colpevolizzare Dixon, sia chiaro!, ma per fare un esempio fra tantissimi. Al posto suo potremmo fare molti altri nomi. Chiaro che è molto più romantico e bello pensare di stare in un posto sotterraneo, dove l’ingresso costa pochissimo, dove a divertirsi sono pochi “iniziati” illuminati, dove non ci sono turisti-per-caso, dove la musica è cazzuta e controcorrente; per carità, per primo chi qua vi scrive preferirebbe e preferisce una cosa così – o almeno è affascinato dall’idea. Ma dobbiamo ricordarci che aprire, gestire o anche solo scoprire posti così costa fatica, costa ricerca, costa insicurezza, costa scomodità. Siamo pronti a pagare questo scotto in prima persona all’infinito? O quanto è onesto che pretendiamo che lo paghino invece altri, per il nostro safari nella cultura alternativa, nella vera techno?
“If you still like to party, then do”: Finn Johannsen ha un succosissimo appuntamento regolare in un posto che si chiama Paloma. Lo aveva a Watergate aperto, speriamo continuerà ad averlo a Watergate chiuso. Andiamo lì. Lamentarsi della Berlino-che-non-c’è-più è consolatorio e ci fa sentire persone migliori, più sagge e più esperte, ma alla fine rischia di essere più sterile di quel che sembra a prima vista: non stiamo combattendo per la cultura, stiamo combattendo per la comodità dei nostri ricordi, e delle persone che ci piacerebbe ancora essere (ma che forse non siamo più). Largo al nuovo. Largo a chi prova a fare altro. Largo a qualcosa che magari nemmeno apprezziamo, purché sia autentico e viscerale. D’altro canto, Berlino è diventata magica proprio perché non si è mai guardata alle spalle, reinventandosi ogni volta. Noi siamo in grado di fare lo stesso?