Un Sam Paganini ad alzo zero. Il decennale di “Rave”, una hit epocale che ha travalicato i confini della scena techno per diventare una traccia da decine di milioni di play sulle varie piattaforme, non lo ha ammorbidito. Anzi: l’esatto contrario. Oltre a far uscire una sua riedizione e organizzare una serie di date celebrative per l’occasione un po’ in tutto il mondo (domani 5 ottobre si tocca l’Italia, a Torino, al Supermarket: se siete in zona non mancate), Sam ha deciso di fare piazza pulita di ogni prudenza e di ogni ipocrisia. Ancora più di prima. Ecco che qua parliamo a ruota libera e senza filtri di Drumcode, di Adam Beyer, di Afterlife, Tale Of Us, di derive da cui non si sente minimamente rappresentato. Soprattutto, parliamo di musica. E soprattutto, parliamo del ruolo etico del dj oggi. Un ruolo che il successo sta annacquando in modo micidiale. Con la possibilità che, alla fine, crolli tutto. In separate stanze, nelle chiacchiere da backstage, lo dicono in tanti; Paganini è uno dei pochi che lo dice pubblicamente. Come del resto già aveva fatto quest’estate, in un post su Instragram che aveva fatto veramente molto rumore. Se già la nostra precedente chiacchierata era stata densissima, questa davvero è a livelli enormi.
Allora: prima di farci questa chiacchierata ero andato a rivedermi l’intervista che ci eravamo fatti l’altra volta. Era un mondo completamente diverso: eravamo ancora in fase pandemica, non era del tutto chiaro se, quando, quanto le cose sarebbero ripartite. Ma a parte questo, il titolo che avevo messo all’intervista alla fine era stato “La responsabilità del privilegio”: che, ed è una interessante coincidenza, riassumeva anche un po’ il senso del tuo post fatto quest’estate, che era diventato parecchio virale, quello sulla responsabilità dei dj headliner, che non possono permettersi di suonare roba dozzinale, perché appunto – hanno il privilegio di essere molto in vita, molto popolari. Insomma: quello della “responsabilità” è davvero un concetto cruciale per te, mi pare di capire.
Assolutamente. E ti dirò la verità: mi sto proprio demoralizzando.
Sì?
Eh sì. In giro continuo a vedere sempre più che si inseguono solo le vie più semplici, solo quelle. Le cose invece di migliorare peggiorano. Non vedo più ricerca. Non vedo più nulla, niente. Davvero: non so cosa pensare, e ne faccio colpa appunto soprattutto agli artisti più in vista, perché sono quelli con le maggiori responsabilità. Sai qual è la cosa divertente? Dietro le quinte, quando se ne parla, sono tutti d’accordo con me: a partire dai promoter, che sono i primi a lamentarsi della qualità musicale che c’è in giro. Poi però quando gli fai notare che sono loro i primi a far suonare gente che non sta facendo grandi sforzi per alzare il livello, beh, allargano le braccia. E ti dicono che, insomma, loro prima di tutto devono far quadrare i numeri. Eppure basterebbe provare a fare qualche sforzo in più, alternando magari ai “soliti” headliner qualche artista più giovane, più coraggioso. Che in realtà, è qualcosa che era anche successo, era una dinamica che era puro partita.
Dici?
Sì, sì. Subito dopo il Covid. Anche perché si era scoperto questo nuovo El Dorado di artisti giovani che facevano techno molto spinta, costavano poco, piacevano tanto. Lì c’è stata una grande ascesa di nomi nuovi, di forze fresche. Però da lì questi stessi artisti hanno iniziato a chiedere sempre di più e la gente, passato l’effetto novità, a venire invece sempre di meno a ballare nei club. Siamo così tornati al punto di prima. Non dappertutto, sia chiaro: recentemente sono stato in un festival in Olanda e lì c’era un bilanciamento davvero azzeccato fra grandi nomi e giovani talenti, tra gente in ascesa ed artisti sempre validi anche non più al massimo dell’hype. Risultato? Per tutta la serata, una vibe stupenda! Quasi nessun telefono a riprendere, praticamente solo gente che pensava a godersi il momento… E lì capisci: è possibile. Si può fare, sì. Ti capita magari di suonare al Blitz, a Monaco, che non è un club particolarmente grande o particolarmente ricco ma ha gusto, ha polso: e lì i telefono in pista non li vedi praticamente mai. Sarà un caso? La verità possono ancora esserci dei posti dove la gente arriva per ballare, per stare bene, per “entrare” nella musica, e non per altro. Non sono mica scomparsi. Non è che li abbiamo persi per sempre. Guarda, arrivo giusto da quattro giorni di Ibiza, sono andato lì per una breve vacanza con la famiglia…
…e?
Ormai è diventato una barzelletta, lì. Ogni anno, sempre peggio. Gente che entra cinque minuti nei locali per farsi un selfie e poi basta, si sente già soddisfatta e se ne va. In questo modo, tutta la cultura attorno al clubbing muore.
Lo sai vero che dicendo tutto questo ti stai precludendo la possibilità di suonare ad Ibiza.
Guarda, già quest’anno non ci ho suonato più. Neanche da dire che guadagni una infinità ad andare a suonare lì, ormai, e che ti perdi chissà quale opportunità economica: col fatto che hanno preso piede gli accordi “landed”, ovvero per cui sei tu dj che alla fine ti paghi i voli e gli hotel, e nel frattempo sia gli uni che gli altri durante l’estate hanno iniziato ad avere dei prezzi siderali, il guadagno si è assottigliato brutalmente. E allora ti dici: vale la pena andare a suonare in un posto dove al 90% l’atmosfera non sarà granché, e manco ci guadagno chissà cosa? Ma tanto vale stare a casa con mia moglie e mia figlia quel weekend allora. Tanto abbiamo pure la casa al mare, a Jesolo… Io, sinceramente, sono in una fase della mia carriera in cui voglio andare a fare solo le cose che veramente mi entusiasmano, che so che mi daranno delle emozioni forti, sincere. Punto. Dovrei andare a fare delle date che non ho voglia di fare per quale motivi, dimmi? Per guadagnare altri soldi? Per farli guadagnare ad un tot di altre persone? Ecco, scusa, fammi sottolineare una cosa…
Prego.
Non vorrei passasse il messaggio che non vado più a suonare ad Ibiza perché non mi pagano abbastanza: perché non è quello il punto. Di offerte buone da lì me ne arrivano. Nemmeno poche. E di sicuro sono tutte superiori a quello che mi può dare il Blitz a Monaco. Ma alla fine è al Blitz che voglio andare, e quindi è al Blitz che vado, che dico di sì. Perché so che è lì che alla fine so che sto bene.
(Il famigerato e viralissimo post di Sam Paganini su Instagram; continua sotto)
Bene, ottimo. E ti dirò: non sei il primo a cui sento fare questi discorsi, sul fatto che bisogna tornare a scelte radicali, a valori essenziali, sfuggendo ai meccanismi del “circo”. Grandi applausi, grandi complimenti sui social, ricondivisioni, ovazioni – ma poi nella realtà dei fatti, guarda un po’, non cambia un cazzo.
Già. Non cambia niente. Non sai quante volte mi è capitato di vedere colleghi che mi applaudivano e supportavano per queste mie posizioni, quando le esprimevo sui social; poi però, vedendo i loro calendari, notavo che invece continuavano ad inseguire lo stesso andazzo commerciale, quello da cui a parole dicevano di volersi allontanare. Quindi chiedo molto sinceramente: ma senti, mi stai prendendo in giro? Se davvero la vedi come la vedo io, e dici di essere molto d’accordo con me, perché non fai almeno qualche piccolo sforzo per aiutare a creare una rete un po’ diversa, dove ci sia ancora un po’ di carica ideale, un po’ di valori, un po’ di sostanza? A me si può dire tutto, ma credo di aver sempre dimostrato di aver cercato di perseguire un certo tipo di integrità, di suono, di attitudine. Poi posso piacere o meno, per carità, liberi tutti nei gusti, ma io ho sempre provato a lanciare dei segnali, ad indicare delle direzioni. Credo che questo accada perché, al contrario di molti in auge adesso, io arrivo da una lunga gavetta. Una gavetta nella club culture in cui se tu cercavi di fare il furbo o cercavi determinate scorciatoie eri subito rimesso in riga o, semplicemente, emarginato. È giusto che ci siano delle regole, dei valori fondanti: Sennò si arriva alla situazione di oggi, in cui vale tutto, in cui un artista può dire di essere underground per però operare in contesti e secondo dinamiche che sono assolutamente mainstream. E non c’è nessuno che dice niente. Nessuno che critica. Non c’è più niente o nessuno che abbia l’autorevolezza di fare da filtro, o anche solo da opinione.
Mmmmmmh.
Quindici anni fa se facevi certe cose usciva un articolo su Resident Advisor, XLR8R o Mixmag, e venivi massacrato. Ma-ssa-cra-to. Oggi?
Si fanno spallucce. Ammesso e non concesso che la gente ancora legga, e non si limiti ai titoli.
Ecco, in questo modo si manda a puttane tutto quanto. Ma la prima responsabilità è nostra, di noi artisti. Ci lamentiamo che stiamo perdendo la generazione che ha reso il clubbing un fenomeno importante, quelli di 40, 45 anni, che oggi preferiscono stare a casa a guardarsi Netflix. Va bene. Ma se aprono i social, cosa vedono? E non parlo solo di loro, attenzione, perché molti ventenni di oggi non sono mica scemi, se avessero avuto vent’anni negli anni ’90 avrebbero dato un contributo enorme alla scena, anche solo da fan; ma oggi? Cosa vedono? Cosa vedono tutti? Oggi vedono su TikTok e su Instagram delle cose da circo, da luna park, questo vedono. Delle semplici pillole che servono solo a catturare attenzioni distratte ed effimere. Dimmi in quale modo puoi sperare che si possano appassionare in maniera matura e consapevole a questa cosa del clubbing, sia i vecchi che hanno mollato che i ventenni più consapevoli… Passano giustamente oltre, entrambi. Anche perché ricordiamolo: chi ha vent’anni oggi, è reduce da due anni in cui è rimasto chiuso in casa, proprio nell’età in cui di solito scopri quanto è bello scoprire di voler far parte di una scena, di una cultura, di un movimento dai contorni e contenuti netti e definiti… Qui, ci stiamo dando tutti la mazza sui piedi. Dj che fanno tutto meno che i dj perché ora sono dei performer; gente che in console balla, fa spinning… Fanno tutto, tranne che fare una ricerca musicale – e far capire che questa ricerca musicale può essere qualcosa di bello, nobile, appassionante, esaltante, aspirazionale.
(Sam in posa; continua sotto)
Ora però devo fare l’avvocato del diavolo: c’è chi potrebbe dire che proprio tu sei tra i “colpevoli”, perché ad esempio in campo techno una label che è spesso accusata di essere stata lei fra le prima a dare vita ad una deriva pessima è la Drumcode – e tu con Drumcode hai più di un legame. Anzi: la scusa per cui oggi ci siamo trovati qua a registratore aperto è il decennale di “Rave”, la tua traccia più famosa, una traccia che veramente ha realizzato nel tempo numeri incredibili ed è diventata iconica, trasversale. Traccia che, guarda un po’, era uscita esattamente su Drumcode: l’etichetta che, secondo molti, ha “avvelenato i pozzi”. Come rispondi a tutto questo?
È molto interessante questo discorso. Nel 2024 cade appunto il decennale di “Rave”, uscita nel 2014, e io avevo iniziato a collaborare con Adam Beyer e con la Drumcode ancora tre anni prima, nel 2011. Anni in cui la Drumcode mi piaceva parecchio, lo dico molto serenamente, perché aveva una linea techno assolutamente seria pur essendo comunque funzionale alla pista. Era musica fatta bene, pensata attentamente, con artisti di spessore; e Adam aveva la qualità di saper guardare molto, molto avanti, intuendo non tanto e non solo dove sarebbe andato il mercato ma anche e soprattutto dove era possibile scoprire i talenti migliori, lanciandoli poi nella fascia nobile della scena. Quando è arrivato “Rave”, io ero già al terzo EP con Drumcode; tra l’altro, la cosa divertente è che quella traccia era all’interno di un album, non era nemmeno originariamente pensata per essere una release di punta… Ad ogni modo, io con lui avevo firmato un contratto di cinque anni. Quindi, ora del 2019 potevo già riprendermi tutti i master. In realtà per gratitudine e rispetto glieli ho lasciati ancora per un po’, rinegoziando di anno in anno, ma quest’anno – con la scusa del decennale di “Rave” – ho deciso di riprendermi tutto. Entro fine anno tutto il mio catalogo su Drumcode passerà sulla mia Jam. Ma ok, non ti preoccupare, non voglio eludere la questione…
(“Rave”, efficace oggi come dieci anni fa; continua sotto)
Ah ecco! Ero già pronto a dirti: “Sì, ma Drumcode e le sue ipotetiche colpe? Mi rispondi?“.
In realtà è un discorso collegato: perché sì, in questo momento storico effettivamente non mi sento rappresentato da ciò che la Drumcode fa e ciò che la Drumcode è. Dieci anni fa, aveva perfettamente senso che “Rave” uscisse lì; ma da un po’ di tempo a questa parte Adam ha intrapreso una via che per me è, sinceramente, difficile da comprendere. Resta un dj di altisssimo livello, e comunque economicamente parlando ha sistemato non solo sé ma forse anche le quattro generazioni successive dei suoi eredi: non riesco quindi a capire bene perché abbia deciso di scegliere un certo tipo di direzione.
Descriviamola, questa direzione odierna, su.
La ritmica resta Drumcode, però sopra ci sono queste melodie che rimandano veramente tanto al mondo Afterlife: quello che viene fuori, alla fine di techno non ha praticamente più nulla. Perché l’ha fatto? Le persone al solito parlano, pensano di sapere le intenzioni degli artisti, delle persone, “Eh, ma l’avrà fatto per i soldi, figurati”. Io sinceramente non credo. Cioè, pensaci: non è che facendo così Adam sia salito come cachet a livelli decisamente superiori, tipo David Guetta per intenderci, che allora dici “Ok, lo capisco, voleva fare il salto“. Niente di tutto questo. Forse semplicemente oggi ha voglia di fare così. Forse semplicemente si è stufato di fare quello che faceva prima, e oggi si fa ispirare di più da cose più pop, più morbide. Perché escluderlo? Ne ha il pieno diritto.
Mi viene in mente la svolta di Umek, per dire.
Esatto. La mia è una critica assolutamente non malevola. Lui ha tutto il diritto di scegliere cosa fare. Io per lui ho solo rispetto e gratitudine e, tra l’altro, resta un grande dj. Dico solo che attualmente ciò che è Drumcode non mi rappresenta in alcun modo. Che poi, prima ti accennavo che “Rave” era giusto una traccia dell’album, no? Però un giorno è successo che suonavamo nella stessa serata io e Adam Beyer, io dopo di lui, e avevo aperto il mio set proprio con “Rave” e la reazione della gente era stata pazzesca. Lui rimase a bocca aperta. Ma ti dirò – io per primo non avrei mai immaginato quello che poi si è scatenato attorno a lei… E dura ancora oggi: quando è venuta fuori la notizia della ristampa, il brano è subito tornato in classifica. Una cosa assurda.
Come mai secondo te sta reggendo così bene il test del tempo?
Per essere una traccia techno, è una traccia lenta. Ma all’epoca più o meno si stava sui 125 bpm, se ci pensi anche “Subzero” era a quella velocità lì; al massimo ci si spingeva fino ai 128, 130. Oggi? Oggi si arriva anche ai 140. Col risultato che “Rave”, che è una traccia abbastanza minimale, è stata adottata dal circuito melodic techno, la suonano veramente molto spesso un po’ tutti. E questo mi fa piacere, ovviamente. Ma…
…ma?
Ma mi fa anche pensare: veramente siamo messi così male che dobbiamo suonare una traccia di dieci anni fa? Davvero c’è una tale carenza di novità? Figurati quanto la amo, “Rave”, quanto le sono affezionato, non può che farmi piacere che sia ancora così popolare anche fra le nuove generazioni; però dai, è una traccia di dieci anni fa, nel frattempo è uscito di tutto e di più, ma se in certi circuiti devi andare a pescare lei, beh, forse in quegli stessi circuiti in questi anni di musica buona non ne è uscita così tanta.
Peraltro il paradosso è che “Rave”, per come la vedo io, è una traccia molto scura. Non granché “melodic”, insomma.
Ma lo è assolutamente. Molti avevano provato ad associarla ad “Alive” dei Daft Punk, pensando arrivasse un po’ da lì, ma invece – e l’ho già detto altre volte – l’ispirazione originaria arriva da “The Search”, release uscita a nome Trancesetters. Traccia che passati i 2000 non si ricordava già più nessuno, ma io con lei ci aprivo i miei set, negli anni ’90. Dopo un po’ però ho smesso pure io di suonarla: semplicemente perché non impattava più granché bene in pista, è una di quelle release che non regge bene il test del tempo per colpa delle sonorità non particolarmente curate. Se le mettessi oggi in un set ammazzerei il dancefloor. Però un giorno in studio stavo giochicchiando col synth, col Juno 106, con vari effetti, e ad un certo punto è venuta fuori quella cadenza lì che mi ha subito portato col pensiero a “The Search”. Al che mi sono detto: ehi, forse può venire fuori qualcosa di interessante. E mi sono messo a lavorare sulla stesura. Oddio, inizialmente quella traccia è rimasto allo stadio di tool per un po’, per un bel po’. Poi un giorno mi sono detto “Ma dai, lavoriamoci ancora sopra un po’, rendiamola una traccia compiuta, una di quella che se la gente la sente poi se la ricorda quando torna a casa dopo la serata, proviamoci”. Ho aggiunto un giro che, ti dirò, lì per lì ero anche un po’ perplesso, era molto melodico infatti, forse troppo, e stavo per cancellarlo.
(L’ispirazione originale per “Rave”; continua sotto)
Davvero?
Giuro! A me capita spesso di fare, e poi cancellare. Non sarebbe stata una novità. Sono uno che lavora molto per sottrazione. Però ecco: lì alla fine mi sono detto “Ma no dai, proviamo a tenerlo ‘sto giro, va’”.
Proviamo, massì.
Di lì a poco dovevo suonare a Sofia, in un evento piuttosto grande, in un palazzetto. Era tipo febbraio 2014 – la traccia è uscita molti mesi dopo, verso settembre, ottobre. Ad ogni modo la suono lì al palazzetto, ‘sta traccia, e vedo il promoter che corre da me: “Ma cos’è ‘sta roba? È fantastica! Dimmi cos’è! Dimmi cosa diavolo è!”. Lì ho pensato che ok, forse c’era davvero del potenziale… (sorride, ndi) Prima di quel momento, te l’assicuro, non pensavo che come traccia avesse chissà quale potenziale. Ma iniziando via via a suonarla, una volta completata, ho notato che la gente andava veramente via di testa. E la parte più melodica non ne ammosciava l’intensità, anzi, le era perfettamente funzionale.
Ecco, dicevi che la gente andava via di testa. Il dancefloor oggi è ancora un giudice così attendibile e reattivo?
Eh. Fino a un paio d’anni fa, se mettevi un disco e vedevi la gente che tirava fuori i telefoni era un buon segno: voleva dire che quella traccia li aveva colpiti, e cercavano di capire via Shazam o altro quale fosse. Oggi, boh? Oggi hai sempre il dubbio se stanno tirando fuori i telefono perché vogliono scoprire il titolo della cosa che stai suonando o perché semplicemente stanno facendo una story su Instagram e della musica non gliene importa granché… Sai perché sono particolarmente arrabbiato?
Vai.
Perché quando “Rave” è diventata una hit, nel 2014, la cosa sembrava essere più una colpa che un merito. Era un periodo interessante per me, quello: le cose iniziavano a girare, già da qualche anno facevo delle belle date in giro per il mondo, ero rispettato dai colleghi, dalla scena, anche perché avevo fatto delle uscite solide, che erano piaciute… Arriva “Rave”. Diventa un successo senza senso, travalica i confini della scena, in giro vedi immagini di Moby che la suona, cose così… Improvvisamente, sembrava quasi che avessi “tradito” qualcosa o qualcuno. Se prima i media alla Resident Advisor mi supportavano, improvvisamente dopo “Rave” ero diventato troppo commerciale per loro – e per un certo tipo di intellighentsia. Oggi invece cosa succede? Succede sempre più spesso che sento nomi, anche importanti, che nei loro set si limitano a mettere quasi solo pezzi di successo, quelli che trovi in testa alle classifiche di Beatport. Quelli, stop. Io invece ho ancora la vecchia forma mentis per cui se vedo che un pezzo è diventato troppo popolare non lo passo più, perché per me è troppo “prevedibile” che stia dentro un set. Noi che abbiamo la fortuna di essere chiamati in giro per suonare e che veniamo pure pagati decentemente per farlo, dovremmo fare almeno lo sforzo di non scegliere la via più comoda, più facile, più banale. E qui torniamo al discorso iniziale, quello della responsabilità. Io arrivo da una gavetta dove appunto il successo era addirittura una colpa, questo perché preventivamente l’accusa era quella che avresti potuto impigrirti, ammorbidirti, “tradire”, quindi erano tutti col fucile puntato. Ma oggi siamo arrivati all’estremo opposto: oggi va bene tutto, e si sceglie troppo spesso la via più facile, quella più banale. Anche perché appunto oggi puoi passare da zero al successo planetario in un attimo, è un processo molto più casuale e al tempo stesso molto più veloce di prima: se fai la cosa giusta al momento giusto, una sola, improvvisamente ti ritrovi a ricevere delle fee stellari. Va benissimo, per carità. Ma se ti succede, se hai questa fortuna, se improvvisamente ti ritrovi in alto e tutto ti va bene, com’è possibile che ti adagi a suonare le hit eurodance anni ’90 più bieche? E soprattutto: com’è possibile che nessuno ti dica niente? Nessuno: né i colleghi, né i promoter, né la scena, né i media… O meglio: quando si parla privatamente, nei backstage degli eventi, sono tutti schifati da questo andazzo ma poi, purtroppo, nessuno ha il coraggio di tramutare questa indignazione in scelte concrete, o almeno in parole pubbliche. In questo modo però si rischia di distruggere tutto.
Addirittura? Distruggere tutto?
Guarda, io facendo questi discorsi non ce l’ho con nessuno, non voglio offendere nessuno. Davvero. Ma sono discorsi che non posso non fare, perché ho troppo amore per la scena. Una scena che io ho attraversato per trent’anni ormai, e dove ho visto artisti eccezionali costruire qualcosa di solido, bello, affascinante, qualcosa con tutta un’etica ed un’estetica dietro. Oggi? Oggi il dj di riferimento è quello che va al Tomorrowland col premixato ad agitare le mani. Risultato? Perfino i miei genitori pensano che io faccia quella roba lì, il performer: perché oggi se dici “dj” si pensa a quello, nell’immaginario popolare. Poi che ne so: magari dovrei stare zitto, io che quando sono in console sembro un baccalà. Ma la verità è che sono tutto concentrato a cercare di far ballare la gente, a cercare di farla stare bene, invece di mettermi in primo piano come showman. Se voglio gli showman, sul palco, vado a vedere la gente che suona davvero. Aggiungo ancora una cosa, se posso, a proposito di live.
Ah, prego.
Io ho iniziato a fare dei live proprio perché dal 2014 in poi, quando la mia popolarità è diventata veramente vasta, la gente iniziava a chiedermi sempre più le mie canzoni nei set, a partire ovviamente da “Rave”. Voleva le hit. Io non farò mai un dj set dove mi metto a suonare quasi solo le hit, mie o di altri che siano. Se proprio devo farlo, se proprio la gente vuole sentire le mie canzoni – e bada bene, questa è una cosa che mi riempiva e mi riempie d’orgoglio – allora preferisco costruire un mio live, dove suono solo il mio materiale. E così ho fatto. Avevo però ben presente una cosa: un live techno, tendenzialmente, è una cosa che dopo mezz’ora diventa un po’ noioso, un po’ statica, a meno che tu non sia uno Speedy J, un Chris Liebing, due artisti che adoro. Però sì: mettendomi nei panni di uno in pista, dopo un po’ se non succede qualcosa inizi ad annoiarti. Quindi tu, artista, al pubblico devi dare qualcosa in più. Ne senti l’obbligo. Anche perché nel frattempo i cachet iniziavano ad alzarsi, in una maniera folle, irragionevole. Se penso che ad un certo punto prendevo il doppio di Laurent Garnier, uno dei miei idoli, mi sembra una cosa completamente senza senso… Però sì: sentivi almeno l’esigenza di offrire di più, a chi ti veniva a sentire per un live, per qualcosa in teoria speciale, diverso da un dj set. Da lì ho costruito un set a cui ho aggiunto i visual, lavorandoci un sacco, investendo un sacco di soldi per la progettazione. Troppi, probabilmente. Eh, Dubfire mi aveva messo in guardia: lui era stato uno dei primi a lavorare in questa direzione, per i suoi live, e me l’aveva proprio detto “Ma sei sicuro? Guarda che è una spesa della madonna…”. Io però ero convinto. Ed ero abbastanza fra i pochi a voler perseguire una cosa del genere. No, perché oggi tutti parlano degli show dei Tale Of Us…
Ecco, appunto.
…ma le prime volte che suonavano in giro i loro live c’era solo il manichino rovesciato proiettato alle loro spalle, non altro. Me lo ricordo bene. Io invece volevo fare un passo in più. Quindi, ci lavoro. Ci investo molti soldi. E…
…arriva il Covid.
Bravo.
(Esperimenti in tempi di pandemia; continua sotto)
Eh.
La cosa è stata una mazzata. Una mazzata talmente forte, che decisi di abbandonare tutto quanto. I Tale Of Us invece hanno fatto esattamente il contrario, e ora hanno sviluppato a dismisura questo aspetto fino a renderlo enorme, imponente, centrale. Hanno settato degli standard talmente alti, a livello di produzione, che oggi è ridicolo anche solo cercare di emularli. Non arriverai mai al loro livello. Io poi ho un problema: per me, deve vincere la musica. Punto. Sì, i visual, figurati, appunto io per primo volevo svilupparli per i miei live, quando gli altri manco ci pensavano ancora… Ma la musica, per me deve restare al primo posto.
Non rischia di diventare una posizione di retroguardia, anacronistica, in una società ormai così tanto visuale come la nostra?
Non mi interessa.
No?
Magari qualcuno dirà che io ormai ragiono da boomer, ma non ho nessun problema ad argomentare, a confrontarmi. Questa professione, quella del dj/producer, è nata per dei motivi e con degli obiettivi ben precisi ormai più di trent’anni fa. Il fatto che oggi ci siano molti più soldi non dovrebbe far altro che farci sentire ancora di più la possibilità e la responsabilità di essere al servizio di quei motivi e di quegli obiettivi: abbiamo infatti più mezzi per farlo, no? Invece, stiamo completamente prendendo sottogamba questo aspetto. Va bene, liberissimi; ma poi non lamentiamoci se, fra qualche anno, la scena non esisterà più. La stessa scena che ci ha reso ricchi, famosi, benestanti rischia di non esistere più, rischia di morire, di perdere di ragion d’essere e significato – e sarà solo per colpa nostra. Scusate, ma io non ci sto.