Difficile non partire da un gran bell’articolo di Enrico Bettinello (che se vi chiedete chi è, basta andare qui) sul Giornale della Musica che, tirando le somme dell’edizione 2024 della Biennale Musica, arriva a constatare tra molte osservazioni puntute ed intelligenti che no, una reale saldatura tra ecosistema (artisti, pubblico, etica, estetica) della classica contemporanea e quello dell’elettronica non è ancora realmente avvenuto, anche se nella Biennale Musica e in genere in vari contesti della musica contemporanea viene evocato di continuo – ed in effetti mai così tanto come nel quadriennio in cui la direzione artistica della Biennale è stata affidata a Lucia Ronchetti.
Ha al tempo stesso ragione e torto, Bettinello.
Ha perfettamente ragione: perché non basta la presenza degli Autechre o di un Kode9 o di un Tim Hecker (o in passato, di uno Yakamoto Kotzuga o addirittura di Robotnick e Bottin in convincenti ed acute reinterpretazioni italo-disco, per non parlare di Hawtin ed altri ancora…) per far compiere una reale mutazione di DNA alla Biennale. C’è infatti sempre l’effetto della “stranezza calata se non dall’alto, dal lato”, non una reale compenetrazione di linguaggi in grado di generare qualcosa di nuovo, qualcosa – appunto – di strutturalmente ecosistemico. I linguaggi e gli artisti conclamatamente elettronici, quelli che insomma potresti vedere anche al Mutek o al Sónar o all’Unsound, passati per la Biennale Musica o contesti simili non si sono mai messi completamente in gioco, o non sono mai stati obbligati davvero a mettersi in gioco: hanno potuto restare per lo più nella loro comfort zone, perché del resto già la loro presenza di per sé era (ancora) considerata iconoclasta, quindi perché fare altri sforzi?
Ecco, è probabilmente qui che sta l’intoppo per cui non si è riusciti veramente a compiere quel salto di qualità quasi utopista che potrebbe derivare da un intreccio della ricchezza accademica della musica classica (contemporanea o meno) da un lato e l’intelligente, coraggiosa e talora furba sensibilità iper-contemporanea dell’elettronica da festival / da dancefloor dall’altro. Di chi è la colpa? Di tutti e di nessuno. Le direzioni artistiche che si sono succedute negli ultimi anni (dopo “la grande frattura” di un jazzista come Uri Caine vent’anni fa, esperienza durata solo un anno ma dirompente e salutare) sono state tutte nell’alveo della classica contemporanea (Francesconi, Battistelli, Fedele, Ronchetti), e ci sta fosse così, è la Biennale Musica, non è il Tomorrowland e non è nemmeno l’Unsound. Al tempo stesso tutt’e quattro hanno sempre provato a mettere delle “spezie” particolari, vuoi con l’elettronica, vuoi col jazz, vuoi nella contaminazione con altri linguaggi (spettacolare una Fura Dels Baus su Stockhausen, anni fa), quindi non gli si può rimproverare nulla a livello di intenzione.
Quello che forse gli è mancato, a livello di intenzione o forse proprio di possibilità e peso politico/artistico, è stato battere il pugno sul tavolo e chiedere più progetti originali e site specific (anche perché Venezia, maledizione!, è un site davvero unico al mondo). Ma del resto oggi qualunque musicista un minimo noto – e vale per tutti generi musicali – ha oggi un calendario fittissimo, in cui è davvero dura ritagliare un paio di settimane solo per creare qualcosa di nuovo, qualcosa di particolare. E se proprio lo fai, deve essere replicabile, deve essere profondamente monetizzabile. Diventa un tour, diventa un concerto da portare in giro data dopo data. In questo modo però viene automaticamente a mancare la scintilla dell’unicità. Insomma: un casino.
Ma facciamo un passo indietro.
Dicevamo: Bettinello ha ragione, ma ha anche torto. Come mai torto? Forse perché quello che chiede lui – e che sinceramente chiedo anche io che vi scrivo queste righe, ché da sempre lotto strenuamente per una contaminazione/compenetrazione genetica tra elettronica e classica o jazz – è qualcosa che ancora non è realmente desiderato dal pubblico. La triste verità? I pubblici di tutte le parti sono ancora molto, troppo conservatori: quello della classica, quello del jazz, quello dell’elettronica. Tutti. Una creatura rara come la Biennale Musica, che appunto negli anni ha cercato di contaminare con scelte anche non così scontate, dovrebbe essere molto più centrale nel discorso pubblico non tanto degli appassionati di musica colta – lì più o meno c’è già, per forza d’inerzia, per il “marchio” – quanto in quelli delle musiche più hip(ster) e contemporanee. Il pubblico più moderno, più sveglio, meno ingessato, più ricettivo. Lo è davvero?
(Folla la sera di Tim Hecker negli affascinanti spazi di Forte Marghera; foto di Andrea Avezzù)
Quest’anno, per dire, nell’arco di 72 ore, che è stata la durata della nostra permanenza al festival, è capitato di passare dal jazz geometrico e solidamente seducente di Tyshawn Sorey (qui al piano e non alle percussioni) alla prima italiana di un capolavoro semplicemente assoluto come “Radiance” di Justé Janulyté, quest’ultima nella cornice di una serata dedicata solo alla voce umana e alla formazione a coro, serata tra l’altro di qualità assoluta (notevole anche l’altra prima italiana, quella per “Saline” di Santa Ratniece, e il programma si completava con la “Missa Syllabica” di Arvo Pärt, quindi figuriamoci). E poi ancora: da Vivaldi, recuperato non nelle ormai sputtanatissime “Stagioni” ma nel meno inflazionato “L’estro armonico op. III”, a Lang e Crumb per quartetto d’archi, e la distanza tra il veneziano settecentesco e l’americano del ventesimo secolo non pareva così assurda (…tra l’altro, il concerto col materiale di Lang e Crumb è stato così esaltante da prevedere addirittura due bis non previsti, “Weep, O Mine Eyes” di John Bennet e la bellissima “Lift” di Paul Wiancko nella sua parte finale).
Se si è realmente appassionati di musica, non di eventi ma di musica, non di “figurine” ma di musica, questi concerti da soli valevano il viaggio e la presenza: per la ricchezza, la complessità, l’esecuzione, per la capacità di “parlare” con urgenza emozioni indipendentemente dalla contemporaneità o meno di quanto composto, per la capacità di estendere i confini della composizione (davvero: sentitevi “Radiance” della Janulité) e della bellezza. Una meraviglia stordente, emozionante, non scontata, non telefonata.
Invece è successo chi l’anno scorso si è (giustamente, eh) esaltato per Brian Eno alla Fenice quest’anno però non ha pensato di “fidarsi” della Biennale e di tornare a scatola chiusa, come a scatola spesso chiusa compri i biglietti dei festival che ti piacciono, e allo stesso modo chi è accorso per Autechre e Kode9 nel 2023 difficilmente quest’anno ha aspettato con ansia la pubblicazione del programma per correre subito a far proprie le prevendite. Nel senso: è stato bello che per un anno un “festival di musica classica” abbia fatto Autechre e Kode9 e invitato Simon Reynolds ai talk, magari perché c’ha messo lo zampino Nero, ma l’anno dopo che Autechre e Kode9 non ci sono allora beh chi se ne frega, tanto la Biennale Musica non è roba “mia”.
Insomma: non si sono ancora creati, tolta qualche sparuta eccezione, un pubblico e a dire il vero nemmeno una critica realmente trasversale, realmente voglioso di contaminare i piani accettando i rischi del caso (…perché a contaminare non vengono fuori solo le bellezze e le originalità, possono venire fuori anche le Gioconde coi baffi: va detto, va accettato, e non è un buon motivo per non provarci). E più che della critica, che ormai vale per quello che vale, il problema è proprio il pubblico, sissignori: perché se un tempo era appunto la critica ad infuenzarne passioni ed orientamenti, oggi che in tempi di musica liquida e semigratuita ci si può fare una cultura da soli è stravagante (eufemismo…) che ci sia così poca trasversalità e curiosità, e così poca voglia di premiare maggiormente i festival trasversali e curiosi molto più delle messe cantate predeterminate.
(Tyshawn Sorey, jazz atipico e geometrico alla Biennale Musica; foto di Andrea Avezzù)
Chissà. Forse tutta questa sensazione amara nasce dal fatto che la Biennale Musica sta ancora scontando anni ed anni in cui è stata il bastione dell’accademia della classica contemporanea, o almeno veniva percepita come tale, quindi fa fatica a scardinare questo pregiudizio: per questo non riesce ad essere popolare e trasversale e “nuovista” come potrebbe essere e come, a giudicare dalle direzioni artistiche del nuovo millennio, vorrebbe essere. Uno potrebbe dire: pesa anche qualche ingenuità di troppo nella scelta delle cose “contemporanee/sperimentali/giovinastre”, per questo la gente “avvertita” non si fida. Sinceramente, l’impressione è invece che la gente “avvertita” fa – mediamente – ancora fatica a distinguere tra fuffa cervellotica e cose validissime. È schiava anch’essa delle mode e dell’hype, pur sentendosi superiore a chi stravede per Ultimo, Laura Pausini e i trapper lestofanti.
Del resto pure nel mondo “nostro”, nell’elettronica, santifichiamo più i dj che fanno le messe cantate e suonano tutti abbastanza indistintamente uguali e tech-house, piuttosto che quelli che si prendono dei rischi davvero. Diciamolo. Poi chiaro, nel clubbing una componente primaria è sempre quella di creare il dancefloor e, lo abbiamo proprio visto alla Biennale Musica di quest’anno col dj set visionario ed afrofuturista di Robert Machiri, troppo contenuto, troppa intelligenza e troppo cervello svuota la pista.
Riassumendo: un oggetto dal potenziale bellissimo e assai moderno proprio per l’approccio come la Biennale Musica fa ancora fatica ad uscire dal guado, vuoi per limiti suoi vuoi per pigrizia altrui, aka del pubblico. Diamo per scontato stia lì, un festival di classica contemporanea, con l’immancabile diretta di Rai Radio Tre (sempre sia lodata), con qualche guizzo pop trasversale e colto da osservare con curiosità o a cui partecipare per presenzialismo, e finita lì.
Attenzione però. Tutto questo lo diamo per scontato, ma se venisse a mancare potremmo iniziare a rimpiangerlo amaramente. Tanto più che alcuni rumor divertentissimi dando per imminente una clamorosa svolta per la direzione artistica, dove a capo della Biennale arriverebbe non qualcuno della classica, non qualcuno del jazz, non qualcuno della scena sperimentale, ma un tizio salmodiante che alleva cavalli nell’Alto Appennino e che, soprattutto, non si faceva problemi a farsi fotografare con l’attuale premier ancora quando quest’ultima era una inavvicinabile ed infrequentabile semplice Sorella d’Italia.
La Biennale Musica di questi ultimi vent’anni è stata sicuramente migliorabile, non è riuscita a mettersi nel centro dei discorsi contemporanei transgenerazionali sulla musica come a parole o nei fatti avrebbe voluto, ma è stata comunque una esperienza artistica ed emotiva molto bella, anche quest’anno, nonostante qualche limite e superficialità, esperienza che potrebbe iniziare a mancarci davvero tanto se al potere, ovvero alla direzione artistica, salissero dei dilettanti. Per quanto Lindi, per quanto atipici.
…ma magari, oh, era solo un rumour ad cazzum. Magari.