Sì, ci saranno ancora colpi di coda ed uscite a sorpresa (vuoi che la gente non si metta ad imitare Kendrick a spron battuto, per far figo, entro fine dicembre?) e sì, scegliere come disco dell’anno un disco “per pochi” e che – lo sappiamo – sempre in pochi considereranno davvero può sembrare la classica scelta snob di chi vuole darsi un tono. Ma, semplicemente, chi se ne importa. La verità è che “ELEkTRA” di Camilla Battaglia è capitato fra le nostre mani e le nostre orecchie ancora due mesi fa, e la sensazione di meraviglia ed esaltazione che abbiamo avuto al primo ascolto è una scintilla rara, che ci succede ormai poche volte all’anno. Anzi: ogni tanto passano annate intere senza che arrivi mai, senza che succeda mai.
Il che non significa che non escano più dischi belli in generale, anzi, quanto piuttosto che ormai si è un po’ tutti quanti armati di un ascolto molto “consapevole”: in qualche modo sai cosa aspettarti. Poi può piacere di più quello che senti, può piacere di meno, può esaltare, può lasciare perplessi o indifferenti, ma raramente deflagra la sorpresa, il “Accidenti, ma questo!?”.
(Accidenti, Camilla Battaglia; continua sotto)
Qui, con “ELEkTRA”, l'”Accidenti!” è deflagrato eccome. E non certo perché – scendo proprio a livello personale – il sottoscritto non considerasse i talenti di Camilla Battaglia (a inizio di 2024 sono stato coinvolto in una bellissima operazione creata dalla cioccolateria Gobino, in pratica una residenza d’artista, e quanto ho visto che fra i candidati nella sezione musica c’era la Battaglia la reazione immediata è stata “Vabbé, lei ovviamente è selezionata, stiamo scherzando”).
Un primo campanello d’allarme preventivo sul fatto che qui con ‘sta release bisognava attenzione doppia e tripla è suonato vedendo che la label con cui si faceva uscire la faccenda era la Ropeadope: una stranissima “creatura mutante” un po’ etichetta discografica un po’ marchio d’abbigliamento ruotante originariamente attorno a Philadelphia che fin dall’inizio è stata capace di unire i puntini tra le pulsazioni “nuoviste” più fresche da un lato e il jazz competente per davvero dall’altro (si sono lambite spesso le orbite con l’universo Snarky Puppy, per dire, e per darvi un riferimento), per poi espandersi e diventare vero e proprio hub creativo. Uno dei primi motori aristotelici della label, Melvin Gibbs, negli anni ha suonato dalla Rollins Band ai seminali Defunkt, e già questo dice molto, no?, e la prima release è stata del turntablist extraordinaire Dj Logic, scelta tutt’altro che banale e scontata; da lì in poi il catalogo è cresciuto con una calibratissima serie di perle&delizie scelte con molta competenza, molto buon gusto, molta voglia di abbracciare artisti tecnicamente spessissimi, assolutamente, sì, ma al tempo stesso avventurosi, pieni di personalità. Non sempre le due cose si sposano.
In sintesi: se ti sceglie la Ropeadope, e non sei (almeno al momento) un nome internationally established, vuol dire che allora hai qualcosa di davvero forte fra le mani. E accidenti se “ELEkTRA” lo è. Tra l’altro se volete veramente fare i compiti a casa per bene, guardate anche attentamente i credits del disco: perché fra i musicisti coinvolti a vario titolo nella lavorazione ci sono dei talenti assoluti. Giusto per fare qualche nome pensiamo a Francesca Remigi alla batteria, Simone Graziano al piano, Francesco Ponticelli al contrabbasso o Anais Drago alla voce, ma leggetevela un po’ tutta, la lista: è una mappa perfetta per iniziare ad orientarvi fra le menti più incisive e vive del nuovo jazz italiano, per non stare sempre nei soliti rosari e nei soliti elenchi battuti e strabattuti. In un mondo, quello del jazz di casa nostra, ancora troppo a rischio sclerosi attitudinale e dove un più che sessantenne Fresu viene ancora visto come un “giovane” (accade davvero) e dove i rischi artistici grandi spesso se li prende un pluriottantenne Rava sconcertando così parte del suo pubblico (la parte peggiore di esso), è assolutamente vitale far capire – e appunto Rava per primo lo ha sempre sottolineato con forza, coi suoi organici infarciti di trentenni ancora per nulla established e che dopo essere passati con lui invece lo diventano – come il ricambio generazionale sia vita, sia energia.
Occhio, però. Non deve essere un ricambio meramente “giovanilista”. Sennò la cura può essere peggio della malattia. Il “nuovismo giovanilista” come dogma è anche il motivo per cui tutta la fola di questi anni attorno a Kamasi da un lato e all’UK jazz dall’altro ci ha lasciato sempre qualche dubbio: è come se bastasse la “formula”, bastasse cioè che un jazzista sia spinto da Flying Lotus (Kamasi) o che faccia rimandi al clubbing di gusto gillespetersoniano (la cricca d’Albione) per gridare subito al miracolo, e dire che il “futuro del jazz” sta lì, sta da quelle parti, e non altrove.
La verità è che il jazz non è per tutti: sia per quanto riguarda chi lo suona, sia per quanto riguarda chi lo ascolta. Per molti, ma non per tutti. Va usato ed abbracciato con cautela e rispetto. Nel suo secolo e oltre di vita si è infatti affinato, è diventato un alfabeto sempre più sofisticato: per masticarlo con coscienza bisogna comunque essere armati di un certo tipo di competenza, almeno un minimo. Poi nulla vieta che ci possano essere traduzioni un po’ più “facili” ma in realtà qualitative e d’effetto, ogni tanto i pianeti si allineano ben bene e si trova la quadra tra successo trasversale e qualità, ma in generale il jazz costa fatica: questo lo rende un po’ scomodo. Una fatica che ti premia, però. Tanto. È una fatica generosa. Perché se la domi, il risultato è che la soddisfazione d’ascolto finale è profondissima.
Non è un disco facile, “ELEkTRA”. Si complica volutamente la vita, cercando spesso e volentieri i cambi armonici, le deviazioni spigolose, rifuggendo le soluzioni facili. Ma è un disco meravigliosamente riuscito, perché si ferma sempre ad un passo dall’esagerare: e questa è un’arte particolarmente difficile. È come con la fusion o col prog d’antan: sei bravo, ci tieni a farlo vedere, arricchisci le tue linee compositive o strumentali di doppi e tripli salti carpiati e oplà, ecco che il risultato alla fine è un barocco appesantito e un mappazzone sostanzialmente indigesto. Qui, con “ELEkTRA”, non accade. Per quanto ci riguarda, non accade per nulla.
(Eccolo, “ELEkTRA”, ascoltatelo, compratelo; continua sotto)
In primis l’appesantimento e il mappazzone non accade con gli arrangiamenti: sono infatti leggeri, aerei e di gusto estremo, e questo “parla” assai della maturità raggiunta dalla Battaglia, che si dimostra una direttrice d’orchestra molto di polso, capace cioè di essere sofisticata ed elaborata ma non retorica, o stucchevole, o debordante. “ELEkTRA” è come arrangiamenti uno dei lavori più interessanti ed competenti sentiti da tempo a questa parte, per la capacità di unire artigianato classicheggiante “colto” di totale qualità da un lato, ed un senso spiccato di contemporaneità dall’altro (in questo aiuta molto l’uso intelligente e raffinato di Supercollider della Battaglia).
Poi c’è la scrittura. Che è parecchio, parecchio ispirata. Ecco, se “ELEkTRA” ha un punto debole è forse il fatto che è troppo denso: devi digerirlo un po’, vista la quantità di cose interessanti e soluzioni elaborate. L’infilata di brani iniziali ti lascia talmente tanto a bocca aperta che poi quando arrivi ad “Aspasia”, per dire, ovvero poco oltre la metà della tracklist, ti sembra che nel disco si sia tirato un po’ il fiato; e tu stesso, provato come sei, non riesci poi ad apprezzare tutto il buono che c’è nel trittico finale “Can You See Me?”. Nulla però che non si risolva concedendosi la possibilità di un ascolto ripetuto o, in alternativa, anche solo di un ascolto parziale dell’intero album due tre brani alla volta – sì, si può fare anche questo – per godersi passo per passo e particolare per particolare tutto il buono che c’è, e non farsene sovrastare o affaticare.
È una presa di posizione forte, dire che “ELEkTRA” è il disco più bello uscito nel 2025. Lo sappiamo. Magari non lo è nemmeno (…vabbé, poi è infantile la presunzione di poter stabilire oggettivamente la bellezza suprema e la superiorità di un disco su altri). Magari ora vi prenderete la briga di ascoltarlo e vi lascerà un po’ boh altro che “disco dell’anno“: ci sta. Però fateci dire che è una precisa scelta di campo andare a premiare un disco che non fa una musica “di moda” (né nella black in generale, né nell’urban, né nel pop, ma nemmeno nel jazz tradizionale o “nuovista” che sia); è una precisa scelta di campo andare a premiare quella fascia di musicisti, tipo appunto la Battaglia, che hanno una preparazione mostruosa – chi si è formato col jazz è obbligato ad averla – ma vengono però regolarmente oscurati e superati da chi mastica con più velocità ed astuzia cibi “facili” che offre l’ecosistema discografico oggi, siano essi generi musicali o capacità di apparire spigliati e popolari sui social (magari con un SMM a libro paga). Ancora: è una precisa scelta di campo andare a premiare un album che necessita di tempo per essere digerito, che forse va addirittura ascoltato a pezzetti come dicevamo, per non risultare – almeno di primo acchito – troppo mattone ed autocompiaciuto, “ELEkTRA” insomma va completamente contro le nostre ormai bulimiche abitudini d’ascolto ai tempi dello streaming, ci si schianta proprio contro e non fa nulla per evitare lo schianto.
È poi una precisa scelta di campo premiare un disco italiano (…il geniale Paolo Madeddu scriverebbe, sarcastico, ITALIANO) che però non è in realtà italiano, anzi, ITALIANO lo è per nulla vista la lingua usata, vista l’attitudine, vista la sicurezza di sé nel non farsi problemi ad essere altero e complesso. Così come è una precisa scelta di campo andare a premiare un album che non è graziato dal potere “politico” dell’avere una major o un ufficio stampa di quelli potentissimi alle spalle. Oh, nulla di pregiudiziale contro gli uffici di stampa potentissimi, attenzione: anzi, averli al proprio fianco spesso è la testimonianza che dietro al proprio lavoro c’è un grumo importante di sforzi, di competenze e di professionalità. Ma non dobbiamo diventarne schiavi, ecco. In questo 2025, per quanto ci riguarda, premiamo un disco che ci arriva nudo e crudo, che ci ha stregato al primo ascolto senza che avessimo chissà quale hype (o anti-hype) da supportare e sventolare, un disco che riascoltato pure dieci volte ogni volta sa svelarci un anfratto nuovo, un qualcosa che capiamo più&meglio rispetto all’ascolto precedente.
“ELEkTRA” insomma è seducente ma non eccessivamente simpatica. È complessa e cazzuta, e per nulla non accondiscendente. È bella e sa di esserlo. È una creatura che – come dire? – non si avvale di stylist e scelte furbe per “stare meglio sul mercato”. “ELEkTRA” è, nonostante tutto questo o forse proprio per tutto questo, qualcosa di cui oggi c’è davvero bisogno. È, e ne siamo orgogliosi, il nostro disco dell’anno. Brava Camilla Battaglia ad averle dato vita, ad “ELEkTRA”; brava la Ropeadope a crederci, brava tutte le persone che hanno reso possibile tutto questo. Per tutto il resto, c’è Kendrick Lamar. O qualsiasi cosa riesca a colonizzare i vostri feed che voi lo vogliate o meno.