Ecco, questo doveva essere un semplice report di un festival elvetico dove siamo stati invitati, niente di più. Ma poi succede che l’evento in questione di cui dovresti fare il report ti piace talmente tanto e ti dà talmente tanti spunti, anche indiretti, che va a finire che scrivi una cosa lunga. Molto lunga. E ti metti in testa di fare delle analisi che vadano al di là del “È stato bello / è stato brutto / ha suonato bene / ha suonato male“. Per fortuna, questa cosa ancora succede.
Ma ok, veniamo a noi.
Partiamo col dire una cosa banale – o almeno apparentemente banale – ma comunque molto, molto importante: in questo 2024 Polaris Festival è stato davvero uno di quei festival organizzati bene, ma proprio bene, uno dei migliori che abbiamo visitato quest’anno. Esattamente come eravamo convinti sarebbe stato. Chiaro, quando stai in Svizzera è sempre un po’ più facile fare le cose a modo (…ed è più difficile per noi italiani, col nostro potere d’acquisto, fruirne); questo però non deve sminuire l’effettiva portata della qualità del lavoro che è stato fatto a livello di produzione. Abbandonata infatti l’idea originaria di fare il festival in altissima quota, scendendo di qualche centinaio di metri quest’anno si è stati come in passato proprio nel cuore della cittadina che ospita il festival, la sciccosa Verbier (comoda ed attraente di suo, con delle piste meravigliose e delle Alpi a fare da corona indimenticabili; ed è però indimenticabile è anche il prezzo degli immobili lì, alto perfino per gli standard elvetici).
Forse è meno emozionante arrivare a piedi e non salendo in teleferica. Forse è meno suggestivo essere circondati dalle case e non dal bianco candido della neve. Ma i minus finiscono qui: perché il tendone approntato a fare da sede del festival era di dimensioni assolutamente perfette (a occhio una capienza di 2500 persone, però comode, dannatamente comode), parte di esso era comunque trasparente a permetterti comunque viste indimenticabili sulle Alpi, un intero lato era destinato ai bar quindi zero file, il guardaroba era ok, il palchetto VIP coi tavoli non era invasivo, il palco piccolo ma adeguato, il sistema di riscaldamento era virtualmente invisibile ma clamorosamente efficace, le luci erano semplici ma azzeccatissime ed altrettanto azzeccatissima – ed iconica – la decorazione sospesa a palloncini bianchi curata da Charles Petillon Studio. In una parola: ti sentivi in un salotto, coccolato. Difficile sentirsi in un salotto in un tendone da quasi tremila posti a millecinquecento metri d’altezza. Fidatevi. Quello di Polaris, logisticamente parlando, è abbastanza un piccolo capolavoro. E/o un enorme segno di attenzione verso il pubblico pagante.
(Polaris Festival, poco prima dell’apertura di giornata, ultimi ritocchi prima di aprire le porte, con le Alpi sullo sfondo; continua sotto)
Già. Il pubblico. Pagante. Pagante nemmeno troppo a dire il vero, per gli standard svizzeri (un cocktail veniva poco più di 15 euro e una birra sui 7, al bar: tantino per gli standard di casa nostra, molto poco per i prezzi che si vedono mediamente a Verbier ma anche a Zurigo, Losanna, Ginevra, Lugano o dove volete voi). Un pubblico, quello che abbiamo visto a Polaris 2024, che per certi versi è sorprendente e per altri – se ci pensi un attimo – è invece assolutamente giusto. È, molto semplicemente, il pubblico che oggi una serata techno/house di qualità dovrebbe avere. E che molto spesso non si accontenta di avere.
Seguiteci, perché qui il discorso è complesso. In Italia più che in altri Paesi nel mondo abbiamo dato una popolarità al clubbing enorme, negli anni in cui il suono tech-house era egemone: col risultato che la nostra è una scena che subito si è settata sui grandi numeri e, di conseguenza, su una grande presenza di ventenni, ovvero la classe anagrafica che più esce di casa e più ti fa quadrare i conti a fine serata, se sei un promoter. Il trentenne infatti inizia a selezionare le serate; il quarantenne si divana sempre più spesso; il cinquantenne, figuriamoci, ormai esce tre volte all’anno a ballare. Il risultato? a casa nostra chi è ancora nel settore di un certo tipo di clubbing insegue ancora moltissimo le situazioni “da ventenni”, più o meno consciamente: insegue la pista pienissima, insegue la ressa perché la ressa in fondo fa figo e mette allegria, insegue il bar fatto un po’ alla cazzo di cane perché quello che conta è pedalare, ubriacarsi e far festa, insegue insomma un modello mediterraneo/ibizenco che ad Ibiza può funzionare (in realtà, sempre meno; e anche il Circoloco ormai sa che per la propria immagine e il proprio successo è più strategico avere con sé i VIP del fashion system che la pista imballata), ma altrove ha abbastanza iniziato a mostrare la corda.
A casa nostra chi è ancora nel settore di un certo tipo di clubbing insegue ancora moltissimo le situazioni “da ventenni”, più o meno consciamente: insegue la pista pienissima, insegue la ressa perché la ressa in fondo fa figo e mette allegria, insegue il bar fatto un po’ alla cazzo di cane perché quello che conta è pedalare, ubriacarsi e far festa
Tutto questo per un motivo molto semplice: dobbiamo arrenderci al fatto che un certo tipo di scena techno e house ormai è una scena da adulti. O da persone che comunque non vogliono (più) fare per forza i supergiovani arrembranti pieni di energia, testosterone e voglia di bordello, immersi nel sudore e nello sfascio.
Badate bene: il giorno in cui techno e house saranno musica solo da adulti e da pranzo di gala sarà un bruttissimo giorno, un tradire il DNA originario di queste forme d’espressione, ed il giorno in cui i ventenni non vorranno il sudore, la calca, la fisicità sarà un giorno semplicemente orribile, vorrà il dire che è mondo è diventato una merda o è stato conquistato da Elon Musk e Mark Zuckerberg. Fate finta quest’ultima frase sia in grassetto, e sottolineata tre volte. No: non vogliamo un dancefloor di signorine e signorini compunti, con la puzza sotto il naso. E vogliamo ricordare che la musica ad un certo tipo di BPM e con un certo tipo di struttura ritmica, cassa dritta o breakbeat che sia, vuole e pretende un certo tipo di sfogo, di estasi, di espressività, di gioia, di euforia: è la sua ragione d’essere originaria. E meno male che lo è. Deve restare tale.
(Signori che hanno fatto la storia, che al Polaris si sentono a casa: Larry Heard e Carl Craig, il fondatore del Tresor; continua sotto)
Quello che cambia, è che dobbiamo imparare ad ospitare gli eventi techno e house di nomi consolidati – quelli, per intenderci, che hanno spadroneggiato tra gli anni degli anni ’90 e i primi 15 anni del nuovo millennio – in contesti curati. E per “curati” non intendiamo il fenomeno molto italiano in cui discoteche da papponi cinquantenni negli anni ’80 e arrembanti mediomen trentenni sempre negli anni ’80 sono state all’improvviso trasformate almeno nominalmente dagli anni ’90 in poi in “club berlinesi” a furia di programmazione tech-house: in questa maniera si è fatto un impianto spurio, che finché la tech-house era quello che ascoltavano tutti e ballavano tutti funzionava, ok, ma ora che la gente di indole commerciale nei divertimenti si è spostata verso i trapper o è tornata verso le hit paracule, non puoi pensare di attrarre i cultori del genere – ehi, ne sono rimasti – in posti inadeguati, non pensati per loro, non pensati per il fatto che sono diventati adulti, che i loro gusti si sono fatti un po’ più sofisticati, che sono diventati selettivi, che sono diventati anche un po’ reazionari e “ai miei tempi sì che, signora mia”, che il pezzo pezzotto dallo spaccino non lo prendono più, hanno imparato a riconoscerlo, ed anzi, hanno perfino imparato a creare delle pagine come Marco Cariola e a divertirsi gagliardamente con esse per (…fate attenzione: c’è un discreto grado di nostalgismo reazionario in quelle pagine, a scrivere e commentare sono persone che ormai hanno poca voglia di andare alle serate di oggi, le schifano abbastanza, Realh Clebbers era molto più ruspante e soprattutto si considerava simpatetico allo stato presente delle cose, per quanto in maniera critica e sarcastica. Detto ciò, chi se la prende per quello che scrive Marco Cariola o si prende troppo sul serio o ha interessi da difendere).
(Altri signori piuttosto significativi, pure loro di casa a Polaris e che alla community di Marco Cariola non dispiacerebbero: Dimitri Hegemann fondatore del Tresor e Moodymann; continua sotto)
Chi ama Laurent Garnier, Henrik Schwarz, gli Âme, il mitologico Larry Heard, l’altrettanto mitologico Mike Banks o Moodymann – questo è l’elenco di alcuni degli artisti che abbiamo visto nel nostro weekend a Polaris, il secondo dei due in programma – non ha più voglia di stare in situazioni da ventenni, musicalmente e logisticamente. E la cartina di tornasole “al contrario” la si è avuta con un altro degli ospiti in programma nel weekend, Richie Hawtin: che non ha funzionato, no, perché nella sua eterna voglia di essere re-del-presente ha provato a “rimodernare” la sua techno rendendola arrembante e fumettosa, come piace appunto ai ventenni oggi, ma questo travestimento non è riuscito e Hawtin si è trovato a metà del guado, senza lasciare entusiasmi, svuotando un po’ al pista prima dell’orario di chiusura (…mentre Garnier, che chiudeva il giorno dopo e che ha fatto il suo senza snaturarsi, ha terminato tra minuti e minuti di ovazioni). Più furbo, come spesso accade, Carl Craig: che dopo esperimenti mal riusciti negli anni passati, è tornato a Polaris – che è un po’ casa sua – andando sul sicurissimo, ha chiamato cioè con sé sul palco Mad Mike di UR e ha offerto con lui una reinterpretazione (talora riuscita, talora così così) di una serie di grandi successi in salsa techno anni ’90.
(La clamorosa t-shirt di Garnier, gentilmente offerta da Forno Brisa; continua sotto)
A Polaris, in questo Polaris così ben pensato ed organizzato da Mirko Loko (a proposito: bellissimo e pieno di gusto il suo set d’apertura nell’ultima giornata, c’ha fatto pensare a chissà quanti set meravigliosi finiscono dimenticati solo perché non vengono fatti nei peak time di fronte a folle adoranti), abbiamo capito come non mai che il mondo techno e house, che era egemone ed era l’iperpresente in tutto l’inizio del nuovo millennio, oggi è diventato ciò che per il rock odierno è il classic rock: dai Rolling Stones non ti aspetti che facciano i Radiohead, dai Radiohead non ti aspetti che facciano Rosalìa, esperimento per esperimento al massimo gli concedi di rifare il “Kid A” che hanno già fatto venticinque anni fa. Allo stesso, modo da un certo tipo di techno e house oggi vuoi a tutto tondo eleganza, compiutezza, competenza e di conseguenza le stesse caratteristiche le deve avere, se possibile, il contesto che ti circonda.
Sulla nostra pagina Facebook abbiamo pubblicato questo foto (questa foto infatti è brutta, le altre che potete vedere nell’articolo sono invece bellissime e sono del superbravo Costantino Bedin, un piacere vederlo lavorare ed empatizzare con pubblico ed artisti), e dà un’idea di che vita speciale da backstage ci fosse:
Da sinistra: Mirko Loko, Carl Craig, Richie Hawtin, Laurent Garnier. Qualcuno ha commentato sotto, parola più parola meno: “Questa è l’istantanea di un mondo che non c’è più”.
Osservazione interessante.
In realtà questo mondo esiste ancora, troviamo sia non solo irrispettoso ma anche un po’ miope dire che non esiste più. Solo che è un mondo che ha cambiato pelle: è diventato il neo-classico. Non è più l’avanguardia, non è più l’egemonia, non è più la classe dirigente potente e vincente del dancefloor; è diventata una sana, avvolgente nicchia residuale per chi sa, per chi se la vuole andare a cercare, per chi di certe musiche è consapevole e di certe musiche è cultore, e non si vuole arrendere al fatto che il mondo, nel frattempo, che tu lo voglia o meno, cambia, e cambia con l’energia barbara e i gusti barbari di chi ha vent’anni.
Polaris è un festival perfetto per loro, per i maturi, gli adulti, i consapevoli, i cultori. E infatti il pubblico del festival è esattamente così: non giovanissimo, molto educato, molto sorridente, un po’ pazzariello ma senza esagerare, molto rispettoso degli artisti (ma sospettoso quando vede che l’artista stesso gioca troppo a fare il supergiovane snaturandosi, forzandosi). L’anno prossimo, può valere la pena spendere un po’ di più in drink e cibo, e può valere la pena fare lo sforzo di trovare da dormire nei dintorni di Verbier: può valerne la pena, eccome, perché Polaris ha mille motivi per piacerti se rientri in un certo tipo di target. Lo è in tutto, anche in quegli aspetti apparentemente meno importanti o strategici: tipo l’avere un personale sia al bar che alla sicurezza che è preso bene, che ti tratta da amico, da persona fatta e finita, e non invece da bestia da soma o da numero.
(Un pubblico entusiasta ma al tempo stesso maturo; continua sotto)
Il fatto poi che la direzione artistica sia in mano ad un musicista di una determinata area rispettato dagli altri musicisti di quella determinata area (c’è prima di tutto un rapporto di stima e di amicizia tra Mirko Loko e la stragrande maggioranza, per non dire la totalità, dei nomi in line up) contribuisce a rendere ancora più forte questa atmosfera molto particolare, molto matura, molto bella, molto preziosa. È stato un grande insegnamento spendere un weekend a Polaris e vedere tutto questo. Abbiamo visto l’evoluzione adulta del clubbing in chiave techno e house. Il che non significa che il clubbing per i ventenni non esista più (o, peggio ancora, non sia autorizzato ad esistere): sta solo a significare che il nostro ecosistema si è fatto più vasto, più adulto, più sfaccettato, accetta diverse declinazioni. Poi uno può decidere se fare il “guardiano del faro” e difendere solo la sua sponda e la sua visione, rivendicandola come unica autentica e valida, o se essere più tollerante e curioso ed osservare e fruire di tutto un po’.
Da queste parti, sapete che da anni si preferisce la seconda ipotesi. E questo senza mancare di rispetto – e di comprensione – per chi invece ha optato per la prima. Voi?
Tutte le foto eccetto dove indicato: Costantino Bedin