Partiamo da un presupposto: un po’ per il piacere di farlo (soprattutto per quello, per fortuna), un po’ perché i motivi giornalistici per farlo non mancano mai, Dardust è l’artista che più volte, a chi scrive queste righe, è capitato di intervistare in questi ultimi cinque anni. Sì: lui più di chiunque altro. Vuoi per Soundwall, vuoi per altre testate, è diventato un appuntamento quasi annuale. E, fidatevi, non è facile: il rischio dopo un po’ è quello di tornare a parlare delle stesse cose, tornare alla fine sulle stesse considerazioni… Dario Faini, vivaddio, è come la sua musica: multiforme, curiosa, pronta a percorrere contesti diversi, altera e composta quando necessario, comunicativa ed intelligente quando si tratta di affrontare contesti che dovrebbero essere invece prevedibili e “stupidi”. Ormai è stato detto più volte che lui è un personaggio più unico che raro, nel panorama musicale italiano: ed è vero, e lo è anche se lui è abituale “alchimista in servizio” nella musica che sbanca le classifiche, così come nelle sue sortite da solista spesso va a infilarsi in quel affollatissimo – ed ogni tanto paraculissimo – mondo che è le neo-classica. Insomma: potenzialmente opera in due dei contesti più “addomesticati” e cinici nell’industria delle creatività musicale. Il bello però è che li combina, li compone, poi li scompone, li ripesca in maniere inaspettate; ed è una persona con cui è bello abbandonarsi anche all’introspezione, parlando. Insomma: una bella, lunga intervista con Dardust vale sempre la pena farla. A maggior ragione quando è fresco da un uscita di un album, “Urban Impressionism”, che per lui significa davvero molto.
In “Duality” era tutto molto chiaro, evidente: le due facce – quella intima ed acustica, quella elettronica e “grandiosa” – erano nettamente distinte. Ho l’impressione che anche “Urban Impressionism” viva di dualità, sì, ma in maniera molto più sottile, forse anche più difficile da gestire…
Se sia più difficile da gestire, mah, non so; in effetti live si sviluppa tutto attraverso un sistema nuovo, con pattern che io creo in tempo reale e che – qui Steve Reich è senz’altro un riferimento – iniziano a ripetersi. Su tutto questo, io inizio a costruire il resto: c’è un sistema multi-effetto, ci sono dei campionamenti che io mando in tempo reale… Sì, tecnicamente stavolta è tutto un po’ più difficile da gestire, vero, almeno per quanto riguarda la dimensione dell’esecuzione. Se poi invece torniamo al disco in sé, non so – dimmi tu. Per me è un disco che arriva in maniera diretta e semplice a chi ascolta. A parte forse due episodi. Ma in generale, credo sia davvero molto essenziale, chiaro…
Guarda, la mia domanda in realtà voleva investigare prima di tutto la sfera emotiva tua, più che quella tecnica in generale, o la fruibilità finale da parte dell’ascoltatore.
Da quel punto di vista è stato un disco non semplicissimo, sì. Ma soprattutto perché, più ancora che altre volte, mi sono trovato a togliere più che aggiungere. In passato mi capitava un po’ di “nascondermi” dietro ad un parco giochi, dietro ai fuochi d’artificio produttivi: ed era inevitabile che accadesse, è un retaggio della mia dimensione da produttore. In “Urban Impressionism” all’inizio c’erano molte cose. C’erano ad esempio parecchi sample vocali a rifinire il tutto, ma ad un certo punto mi sono reso conto che “distraevano” dalla melodia. Valeva per loro, valeva per altri colori elettronici che avevo inserito nelle prime stesure. Via tutto. Ad un certo punto ho iniziato a togliere, togliere, togliere… E alla fine cosa è rimasto? Un disco che è un quasi disco di piano solo.
Che non era quindi quello che avevi pianificato all’inizio.
No. Zero.
Pensa che io invece credevo fosse una scelta intenzionale ed a priori: tipo che dopo i – uso la tua definizione – “fuochi d’artificio” di “Duality” avessi voluto tornare all’essenziale…
Che volessi tornare all’essenziale, quello sì. Ma ti assicuro che in origine gli elementi sonori nei brani erano molti di più. Ecco, credo che la copertina racconti molto di “Urban Impressionism”: ci sono io, essenziale, anzi, a nudo proprio, ma in una posizione scomoda. È infatti un album in cui per certi versi rompo un tracciato iniziato anni fa. Mettersi a nudo poi è difficile, è sempre qualcosa di impegnativo. Se dal punto di vista delle trovate di produzione questo è forse il mio lavoro che stupisce di meno, devo dire che – almeno a me – trasmette un’intensità ed un onestà come mai successo prima nei miei album precedenti.
È stato un disco doloroso?
(pausa, ndi) Sì. Perché per certi versi è un disco che mi ha fatto tornare al punto da cui sono partito. Ed è soprattutto un disco che parla di periferie, anche periferie emotive, e della capacità di ridare loro una nuova vita, nuovi colori, senza avere paura di far vedere le proprie ferite durante il processo che mi ha portato fino ad esse. Poi guarda, forse lo si potrebbe anche definire un disco fragile, “Urban Impressionism”.
Come mai?
Ci sono delle cose che potrei risuonare molto, molto meglio, curarle di più, rifinirle di più; ma come scelta precisa, abbiamo lavorato tanto durante la registrazione sull’onestà del timbro del piano. Ogni rumore, ogni sfumatura è stata catturata.
Il che a modo suo è uno statement, visto che i dischi di neo classica più standard e paraculi tendono invece ad essere molto “perfettini”, rassicuranti… Poi invece arrivi tu e fai sentire le ferite, le imperfezioni.
Esattamente.
“Urban Impressionism”, e lo spiegano bene anche le note scritte d’accompagnamento alla release, è un disco fatto di luoghi, di molti luoghi che sei andato a visitare, in giro per il mondo. Ti chiedo: tutti questi viaggi sono nati da una voglia di scoperta, o da una necessità di fuga?
(lunga pausa, ndi) Fuga. Necessità di fuga. Poi chiaro, quando arrivavi nei posti l’elemento-scoperta non poteva non esserci e non poteva non fare da ispirazione ma sì, nasce tutto da una necessità di fuga.
Fuga da cosa?
La fuga da tutto quello che ho fatto. Da tutto quello che conosco già. È la fuga dalla pressione che ho vissuto negli ultimi anni – e noi due nelle nostre interviste ne abbiamo parlato più volte, no? Ma è una fuga non disordinata e rovinosa. Semmai, è la fuga per trovare un nuovo riparo. La cosa interessante qui è che si tratta di una fuga fatta per trovare nuova bellezza, e trovarla lì dove apparentemente non dovrebbe stare: nelle ferite, nei traumi, nelle cadute…
…e nei palazzi dell’architettura brutalista.
È splendida, l’architettura brutalista.
Ah, concordo.
Sono costruzioni nude, dove i materiali sono grezzi e sono tutti esposti senza finzioni: una rappresentazione assolutamente perfetta di quello che stavo cercando, davvero. Ho tanta empatia verso l’architettura brutalista. E ho tanta empatia verso le periferie, che sono un patrimonio incredibile di umanità, di emotività. Lo aveva capito perfettamente Pasolini, lo ha capito Irvine Welsh, per fare i due esempi più immediati; ma per dire lo aveva capito anche Michelangelo Antonioni con la sua trilogia dell’incomunicabilità (“L’avventura”, 1960, “La notte”, 1961, “L’eclisse”, 1962, ndi), con quelle architetture dell’EUR che rappresentavano l’alienazione. Le periferie sono un luogo di enorme fascino e forza. Pensa a “L’odio”. Sono, molto più che i centri cittadini, dei luoghi di rivolta, sovversivi, dove le regole vengono sfidate e riscritte. Non è per nulla un caso che i movimenti artistici che negli ultimi anni hanno riscritto il linguaggio – penso ad esempio al rap, alla cultura hip hop – siano nati nelle periferie.
Vero.
E mi piaceva portare il pianoforte lì. Di solito il pianoforte è sempre legato a scenari morbidi, eleganti… No, io volevo portarlo altrove, pur senza minimamente stravolgerne le caratteristiche.
Ecco: in un disco che è molto piano-puro-con-un-po’-di-elettronica, quest’ultima mai particolarmente invasiva, considerando appunto questa tua idea di “andare in periferia” durante la lavorazione ti è mai venuta la tentazione invece di mettere un po’ spigoli, un po’ di destrutturazioni digitali, un po’ di ritmiche più invasive ed anche magari forti, urticanti? Perché potevano anche stare, secondo me…
Potevano starci, sì.
Ma…
Perché l’avrei dovuto fare? L’ho fatto già; ed è una cosa che oggi mi incuriosisce e mi stimola molto meno di prima. Mi piaceva in questo disco che la ritmica fosse più una pulsazione sottotraccia, ecco. Una cosa che magari, se ascolti il disco con le cuffiette dell’iPhone, manco te ne accorgi; ma soprattutto dal vivo, quando si possono rendere bene tutte le frequenze, capisci che c’è, che ha un ruolo importante, voluto.
(“Urban Impressionism”; continua sotto)
Se le destrutturazioni ritmiche e digitali un po’ ti hanno annoiato, ti chiedo: arriverà mai il momento in cui tutto un po’ ti avrà annoiato?
No.
Sicuro?
C’è ancora talmente tanto da scoprire…
Ancora adesso? Dopo tutto quello che hai fatto e visto?
Ma accidenti, se c’è! Certo che c’è. La tecnologia, ad esempio, va avanti. Ogni volta scopri nuovi trucchi, nuove strade espressive da indagare. Come fai ad essere così presuntuoso da pensare di conoscerle già tutte, o di poterle prevedere già tutte? Io poi di mio mi sento un ignorante… C’è gente che è molto più colta di me, in musica. Io mi reputo uno di qualità media. Potrei esercitarmi molto di più, potrei studiare molto di più, ma ho capito che a me prima di tutto interessa apprendere colori, farmi affascinare dalle cose, apprendere le strutture base di stili e concetti per poi mescolarli a modo mio, qualche volta anche con incoscienza, qualche volta anche con spudoratezza.
Ti è mai capitato di avere la sindrome dell’impostore? Te lo chiedo perché, da fuori, sembri sempre una persona molto sicura di sé.
La sindrome dell’impostore la ho avuta in passato, in tempi non sospetti, quando tecnicamente non mi sentivo solido come pianista. Lì sì. Il fatto di non aver finito il Conservatorio per un bel po’ mi ha fatto sentire insicuro, limitato… Poi però ad un certo punto mi sono detto: “Oh, io comunque studio i pezzi che sono nei programmi del decimo anno, mi esercito ogni giorni, lavoro duro. Chi se ne frega se il Diploma non ce l’ho”. Tra l’altro in questa maniera ho lo stimolo per continuare a studiare, ad esercitarmi. Passerò tutta la vita a tentare di studiare e migliorarmi al pianoforte? Benissimo! Ma tornando alla domanda: io oggi la sindrome dell’impostare ce l’avrei se facessi dei dischi in maniera sbrigativa, superficiale, senza metterci dentro davvero l’anima, le viscere, e invece penso di poter che non accada, non vedo questo rischio all’orizzonte. Poi chiaro, al mondo ci saranno migliaia, anzi, milioni di pianisti più bravi di me, e decine di migliaia di producer più bravi di me; davvero, eh. Ma cosa devo fare per questo, fermarmi? Smettere di fare le cose?
A proposito di smettere: più volte nei nostri incontri siamo finiti a parlare di come la tua fama di produttore-conto-terzi dal tocco d’oro possa essere una questione ingombrante. Una “Golden Cage”, per riprendere il titolo di una delle tracce di “Urban Impressionism”. E quindi, mo’ ti chiedo: arriveremo mai a fare un’intervista dove mi dici “Basta, basta produrre per altri. Da oggi in poi voglio fare solo musica per me stesso”?
(pausa, ndi) Secondo me, non avverrà mai.
Ah.
Sai perché? E guarda, a questa cosa ci ho pensato a lungo… In tanti negli ultimi anni mi hanno detto “Ma che ti importa, ormai da produttore hai dimostrato tutto quello che dovevi dimostrare, pensa a te stesso adesso”. Ma sai qual è la verità? Io ancora oggi mi diverto tanto, a produrre per altri. Se io voglio fuggire, non voglio fuggire dalla “gabbia dorata” del mio ruolo da producer, da producer che insomma funziona, dallo status che tutto ciò rappresenta… No, la mia fuga è altro.
Cos’è?
La fuga dall’eccedere.
Questo è interessante.
Eccedere nel senso di essere ossessionati di esserci, esserci sempre, di non perdere nessuno slot, di partire dal presupposto che debbano sempre esserci dei risultati tangibili. È da questo che voglio fuggire.
Cose di cui sei stato schiavo ad un certo punto?
Ma sì, è successo. A lungo avevo paura di non fare abbastanza, e nel non fare abbastanza di perdere di conseguenza le posizioni acquisite, arrivate dopo anni di fatica, di studio, di gavetta, di tentativi… Ma poi mi sono detto: ma che succede, in fondo, se perdo tutto questo? Finché ho la fortuna di poter fare quello che mi piace, non c’è nulla di davvero brutto che mi possa accadere.
(Dardust ritratto da Emilio Tini; continua sotto)
Ecco, e questa meravigliosa serenità d’animo ti impegni per trasferirla anche negli artisti con cui sei chiamato a collaborare? Perché di regola sono artisti che devono stare al top, nei progetti dei rispettivi management e rispettive case discografiche. Si va da Dardust per questo, ormai.
No. Non sto lì a dare lezioni.
Non metti becco?
No. Ma cerco di fare qualcosa che sia artisticamente coraggioso sia per me, che per loro: alla fine è il metodo di lavoro migliore, penso.
Ora che hai una certa esperienza, quanto ti capita però di dover fare anche un po’ da psicologo, oltre che da mero produttore musicale?
Ultimamente, un bel po, vero’. Mi piace indagare sulle paure dell’artista, sì; e lo studio è il luogo in cui si svolge la terapia. Un luogo complesso, dove ci sono molte aspettative reciproche. Da un analista, tu di solito cosa ti aspetti? Che ti rinfreschi, che ti porti in una posizione nuova, che ti dia una nuova visione sulle cose che senti più tua, più incisiva… Ecco, nello studio tra produttore ed artista si instaurano meccanismi simili.
Ma chi entra in studio da te ok, si aspetta tutto questo, la visione, eccetera, ma si aspetta che venga fuori la hit.
Non per forza.
Non per forza, ma comunque sì.
In ogni caso non me lo chiedono mai sfacciatamente (ride, ndi). Poi sì, in qualche caso questa cosa c’è, aleggia… Però a questo punto chiedo: cos’è realmente una hit? Fare un certo quantitativo di numeri? È questo? Finire al primo posto il venerdì successivo all’uscita nelle classifiche di streaming? Ci sono pezzi che ho fatto che sono effettivamente diventati delle hit enormi che, mentre li facevamo, tutto pensavamo fuorché che potessero “funzionare”. D’altro canto, come puoi pensare di fare scientificamente una cosa-che-funziona? Imitando qualcosa che ha appena funzionato? Se chiedi questo da me, allora guarda – hai scelto la persona sbagliata.
Beh, ormai sono più gli altri che imitano te.
Ma no, non farmi dire una cosa del genere…
La dico io, me ne prendo la responsabilità, tranquillo. Così come mi prendo la responsabilità di dire che tu più di altri, anzi, probabilmente più di chiunque altro hai comunque spostato in alto l’asticella di qualità nel pop italiano. E una cosa del genere non l’ho detta e scritta solo io. Ecco, quando leggi cose di questo tipo, provi più soddisfazione, imbarazzo o indifferenza?
Ovviamente mi imbarazzo. Lo so che qualcuno mi vede come un presuntuoso, ma… Quando mi dicono una roba del genere, il mio imbarazzo è reale, sincero. Lo è anche perché di ogni cosa che faccio, anche di quelle che meglio hanno funzionato, io vedo a posteriori prima di tutto gli errori, le slabbrature, quello che poteva essere fatto ancora meglio… Ma sì: chiaro che quando mi fanno complimenti di un certo tipo, io sono contento. Contento, un po’ orgoglioso anche – ma comunque imbarazzato.
Quali sono state le tracce di “Urban Impressionism” più difficili da fare?
Quelle dove collaboro con Ze In The Clouds. Perché lui mi ha portato in luoghi “altri”. Ecco, lui è un genio: è uno che un virtuoso dello strumento, ma è tutto tranne che “addomesicato”. Lui non si pone nemmeno il problema di leggere con precisione le partiture ma perché ha una mente ed un orecchio incredibile. Nella nostra collaborazione, partivamo riascoltando insieme alcune improvvisazioni a mano libera che avevo fatto per capire se c’era del buono, se c’erano delle idee da sviluppare e perfezionare. Ecco: lui ascoltava tutto questo con un’attenzione incredibile, quasi ossessiva. Non gli sfuggiva niente. Notava cose che io stesso, che ero l’autore di quelle registrazioni, non avevo notato, visto che per me erano improvvisazioni istintive: lui riusciva ad analizzarle al microscopio in un modo assurdo, “Ecco, lì hai fatto un fa diesis”, “Lì invece ci hai messo un sol”… È stato un aiuto incredibile, il suo. Anche perché mi ha aperto a nuovi colori, a nuove cose. Incontrarlo è stato un dono prezioso.
Ecco: come vi siete incontrati? Come vi è venuto in mente di collaboare? In teoria avete due background abbastanza diversi, pur essendo entrambi di base dei pianisti…
L’ho scoperto via Instagram. Un giorno mi è capitato davanti un ruo reel dove suonava, a modo suo, una roba impressionista alla Debussy e mi sono detto “Cazzo, io vorrei arrivare a fare esattamente una cosa così”. Gli ho scritto, l’ho invitato in studio da me. E poi gli ho chiesto di venire con me a Parigi e New York.
Il paradosso è che il suo materiale di solito è molto lontano dall’impressionismo alla Debussy…
Lo so, lo so.
Al di là di questo, per me la notizia è: uno come te gira ancora per Instagram alla ricerca di cose.
E certo! In realtà, per Instagram poco, lì è più casuale, ma su Spotify tantissimo. Cose nuove, ma anche cose vecchie, di tutto. Recentemente per dire sono rimasto molto colpito dall’ultimo disco dei Cure: hai sentito come hanno deciso di farlo suonare asciutto? Loro, i darkettoni per eccellenza, che tutto quello che fanno dovrebbe essere sempre tutto un riverbero, e invece… Mi è piaciuto moltissimo, probabilmente perché sono appunto in una fase in cui mi intrigano veramente tanto le cose più asciutte. Anche il live che accompagnerà “Urban Impressionism” voglio che sia semplice. Niente colori, solo luci bianche. Bis ridotti all’osso. Voglio che tutto sia incentrato sul disco. È un lavoro che va vissuto dall’inizio alla fine, senza distrazioni – l’unica distrazione sarò io che parlerà fra un brano e l’altro, per spiegare meglio quello che sto facendo.
Cosa ti aspetti da “Urban Impressionism”?
Nulla.
Nulla?
Nulla. Ma sento belle vibe attorno a questo disco. “Duality” invece era stato molto più sofferto.
Come mai?
Era un disco che andava in più direzioni, non c’era una mappa precisa: ma questo essenzialmente perché ero io in quel momento a non volerla. Magari mi concentravo su altro: su qualche colpo di scena sonoro, su qualche trick produttivo, per il resto era un disco che andava un po’ dappertutto. “Urban Impressionism” è molto più preciso, delineato.
Molto più asciutto.
Esatto.
E asciutto sarà il live. Niente fuochi d’artificio sul palco, insomma…
Io li odio, i fuochi sul palco! (scoppia a ridere, ndi) Se c’è una cosa che odio è vedere la pirotecnica sul palco, credimi. (sorride, ndi)
Però oggi la usano in tanti. Usano la pirotecnica, usano palchi sempre più spettacolari, luci sempre più imponenti, produzioni sempre più grosse…
Io la capisco, questa cosa: ti alza il percepito, ti alza il cachet, l’obiettivo alla fine diventa fare un unico grande concerto tipo allo stadio… Ma se poi quel concerto va male? Se poi a furia di fare produzioni sempre più grandi sei obbligato a suonare sempre di meno? Io lo dico sempre: io voglio fare 200 date all’anno, io voglio suonare di più, non di meno. Anche perché sai cosa? Mi sono accorto che quando faccio date più raccolte, i feedback che mi arrivano nei giorni successivi sono dieci volte più forti, sia come qualità che come quantità: non credo sia una coincidenza. Quindi sì, a costo di andare controcorrente voglio prendere una direzione più essenziale, più asciutta, senza andare alla ricerca della grandiosità.
Scelta forte e di questi tempi in effetti controcorrente.
Magari sarà la fine di Dardust! (ride, ndi)
Eh, esagerato.
Quello che so è che “Urban Impressionism” è un disco onesto. Poi, non è un disco pop: e nei dischi non pop come questo, può succedere che certe tracce improvvisamente si “accendano” dopo cinque-sei anni, dopo essere passate inizialmente semi-inosservate. Le coordinate spazio-temporali sono per fortuna completamente diverse, fra i due ambiti. Magari “Urban Impressionism” maturerà davvero solo fra cinque, sei anni, sì: e fosse anche solo per questo, già gli voglio molto bene.