Toglietevelo dalla testa. Almeno per adesso. No, un festival come quelli croati in Italia non riusciremo a farlo: ecco. A salpare via dall’Unknown, questa alla fine resta l’impressione più forte. Perché fa veramente impressione passare qualche giorno in mezzo ad un pubblico che è al 98% inglese (così, a occhio) in un posto che è parecchio lontano dall’Inghilterra e raggiungibile in fondo non così facilmente: ok, c’è un aeroporto a quaranta chilometri di distanza, con tanto di volo di linea da Londra, ma appunto – un volo di linea. A meno che non abbiano inventano degli aeroplani da migliaia di posti cadauno e a noi la cosa sia sfuggita, il fatto di vedere un circa settemila inglesi affollare felici le coste istriane di Rovigno (settemila!) significa una cosa molto banale: gli inglesi muovono il culo. Si sbattono. Se non puoi atterrare a Pola, in Istria, potrai ben atterrare a Lubiana (centoventi chilometri di distanza) o come hanno fatto in molti a Treviso e Venezia (trecentochilometri di distanza), per poi lanciarti con mezzi vari – alcuni forniti anche dall’organizzazione del festival, non tutti – nel transfert dal luogo dell’atterraggio al Camp Amarin, sede dell’Unknown.
In Italia, parlando coi promoter non solo della scena club ma anche con quella rock, siamo ancora ai “Eh ma lo Spazio 211 è in periferia e io abito in centro”, “Eh ma il Brancaleone è troppo a nord”, “Eh l’Atlantico è troppo a sud”, “Eh, ma il Link è addirittura fuori dalla tangenziale ci vado solo se son sicuro che c’è festone”. Per non parlare poi dei festival, ché qua sono voci raccolte su singole serate o concerti, se si parla invece di festival la situazione peggiore ulteriormente: da noi vige ancora il “Sì, ma perché dovrei pagare di più il biglietto se gli artisti che mi interessano in line up sono solo due e gli altri me li posso anche perdere”. Alias la sicurezza totale che da noi non si potrà quasi mai fare qualcosa di costruttivo, a parte rare eccezioni sempre sul filo del rasoio dell’equilibrio economico.
Manca la controprova, certo. Manca la possibilità di vedere come potrebbe andare in Italia a parità di bellezza del luogo (notevole, col main stage praticamente in riva al mare e il secondo palco per importanza pure, per giunta dentro ad una pineta) e a parità di line up. Se ci chiedete un parere: male. Perché da noi ci sono ancora troppo spesso le curve da stadio contrapposte, quelle che se c’è Hawtin allora al festival non ci vado sarà pieno di zarri, se c’è SBTRKT non ci vado che palle queste pugnette snob da intellettuali; da noi non c’è la voglia o la capacità di considerare la musica come un flusso da godersi, mentre c’è e pure troppo quella di considerarla un distintivo da appiccicarsi addosso al vestito per far vedere quanto si è fighi a sostenere questo o quel nome. Chiaro, è bello che il pubblico sia preparato; ma è anche bello per una volta – e coerente coi dettami della “faceless techno” di cui si parlava tempo fa con Garnier – vedere gente che apparentemente potrebbe esser fan di Avicii o Guetta, per abbigliamento e modo di fare, ascoltarsi con attenzione il live di Four Tet. E ballarselo con gusto.
Il quale Four Tet tra l’altro, e qua entriamo più nello specifico del festival, ha tirato fuori un set molto bello, uno dei migliori che gli abbiamo mai sentito fare: energico ma sempre creativo, quadrato ma non scontato, consistente ma non prevedibile. Sta insomma imparando sempre più l’alfabeto della musica più da dancefloor. Secondo noi, ha ancora margini di miglioramento. E secondo noi, è stato celebrato troppo in fretta negli ultimi anni, ché i limiti nella sua svolta dance erano ancora corposi. Ma sta colmando il gap, senza perdere l’anima. Bravo.
Bravissimo anche SBTRKT, in dj set, che ha dato prova non solo di eclettismo ma anche di maledettissimo coraggio, perché arrivare a metà set – la parte di solito dedicata al peak time – buttando tutto e tutti in una suggestiva e cupa nebbia sonora piena di reverberi e quasi scevra di ritmi, culminata mettendo su gli ultimi Boards Of Canada, ecco, è qualcosa che fanno solo le persone che hanno coraggio, fiducia in se stessi e nelle proprie idee, voglia soprattutto di fare un “discorso” artistico e non solo una messa cantata. Da altre parti l’avrebbero fischiato. Ma se all’Unknown non l’hanno fischiato non è perché di fronte aveva settemila persone espertissime, intellettualissime, in gradissimo di capire il suo percorso nel set; ma perché aveva davanti settemila persone curiose, prese bene. Settemila persone a cui piaceva la situazione (perché il posto era bello, perché la gente era presa bene). E se proprio non ti piaceva, potevi andartene da un altro palco. Senza star lì a fischiare e insultare e lanciare cartacce verso la consolle.
Anche perché quanto c’era da andarsene, signore e signori, la gente se ne andava. Chiedere a Richie Hawtin. Che ha suonato di fronte ad un main stage semivuoto (millecinquecento persone, a spanne). Improvvisamente, il suo suono è apparso al confronto di quello di altri piatto, eccessivamente monocorde, superato dagli eventi, inutilmente poco fantasioso: quello che dovrebbe essere rigore, fascino emotivo e cupa intensità tale non è risultato, anche perché il tentativo di rendere tutto leggermente più funky ha avuto piuttosto l’effetto di togliere carisma, senza far guadagnare nulla in sensualità e varietà. Ok, forse non era il posto giusto per Richie visto il tipo di pubblico e soprattutto di line up. Nessuno tuttavia si è azzardato a fischiarlo, anzi, chi c’era – soprattutto croati, che nella giornata del sabato hanno fatto capolino – si è pure divertito. Però che un pubblico come quello inglese, notoriamente in grado di anticipare i trend generali, lo abbandoni così è un campanello d’allarme. Non piccolo.
In effetti, dopo il set di Four Tet, dopo la solita trionfale messa cantata dei Modeselektor (paraculi, con troppi pezzi loro o di Moderat nel loro set, ma con capacità di pescare in una techno “viva” anche e soprattutto se di dieci, dodici anni fa), dopo SBTRKT, dopo un magistrale John Talabot molto più techno del solito ma sempre coloratissimo e pieno di sfumature, dopo un Henrik Schwarz sottotono (ma Schwarz sottotono è sempre meglio dei nove decimi di quello che c’è in giro), dopo un Dixon elegante, dopo dei Django Django frizzanti nella loro indie-dance live ma comunque sopravvalutati, dopo dei Disclosure che hanno sorpreso presentando un live molto old school (quasi tutto suonato, a partire dai campioni) e alla fin fine più che carino per quanto scolastico, insomma, dopo tutto questo la voglia di infilarsi in un tunnel di bpm cupo e che come massima differenza ha spesso il metti-il-basso-togli-il-basso è bassina. Piuttosto bassina. Perchè ti rendi conto che la minimal – anche quella fatta bene, come per lo più nel caso di Hawtin – è un’esperienza sì bella ma particolare, estrema, da amatori veri, non facile, fondamentalmente di nicchia, che solo per un curioso caso del destino o per l’infelice fatto di essere una buona colonna sonora per stati di coscienza narcisisticamente alterati è diventato da certe parti mainstream… forse anche perché tutti o troppi da certe latitudini vogliono fingersi esperti della club culture meno facile pur non essendolo (d’altro canto, nei bar anche quelli che non capiscono un cazzo di calcio pretendono di essere commissari tecnici della nazionale, o nel web pullulano gli esperti di geopolitica ed economia).
Ecco. Questo è quanto abbiamo imparato dall’Unknown, stando attenti a guardare le persone, ad ascoltare i loro discorsi, a guardare il loro modo di fare esattamente tanto quanto ci concentravamo sui set. Altra cartolina che ci portiamo dietro è la bella giornata nella Boiler Room approntata all’Isola Katarina, di fronte al centro di Rovigno, con Craig Richards solido e un back to back tutto scintille tra Jackmaster e gli Optimo (bravissimi questi ultimi, valgono dieci volte i 2 Many Dj’s: se non hanno il successo che meriterebbero probabilmente è solo perché sono brutti come la morte e si vestono come degli psicolabili sfigati, oltre probabilmente a una scarsa attitudine a stare nei “giri giusti”). Però ecco, sulla Boiler Room abbiamo sempre delle perplessità, è diventata una po’ una bolla speculativa, un marchio che promette più di quanto mantenga: è pure sempre una roba in cui c’è una console e della gente che (sperabilmente) balla. Stop. Se all’Unknown è stata una figata, ed è stata una figata!, è perché avevamo il mare davanti e perché la frangia scozzese Jackmaster/Optimo ha creato una situazione in cui anche suonare Cindy Lauper è diventata una genialata e in cui era possibile mixare gli Underground Resistance con gli Alcazar (è successo veramente, non è un modo di dire). Se un set fa schifo, fa schifo anche se sei nella Boiler Room: anzi, probabilmente fa schifo di più perché c’è troppa gente che si ricorda troppo spesso di essere inquadrata da una telecamerina.
Abbastanza carne al fuoco in questo report, no?, pur non avendo parlato moltissimo di questo o quel set. Anche perché causa impegni di lavoro ci siamo persi le prime due giornate e causa orientamenti di gusto quando si virava troppo su (italo) disco e funky ci ci siamo tenuti alla larga da un certo tipo di stage; e per quanto riguarda invece il palco su cui eravamo indecisi, quello a matrice più tech-house, è bastato ascoltare venti minuti di una Nina Kraviz un po’ dozzinale per decidere che a ‘sto giro non era il caso. Abbiamo apprezzato l’atmosfera generale, e parecchio. La non eccessiva cura produttiva nei particolari (indicazioni sulle posizioni dei palchi scarse, passaggi scarsamente illuminati attraverso pinete e sassi, sala stampa un po’ eterea) invece di indisporci c’hanno fatto apprezzare ancora di più il festival: perché era un festival progettato come una vacanza, e nella vacanza hai bisogno anche di esplorare, scoprire, avventurarti, se è tutto ben indicato e ben segnalato come i tram nel centro di Zurigo dopo tre ore ti sei già un po’ annoiato. Nota di biasimo per la pessima pensata di mettere i programmi a pagamento (manco poco: 8 euro! Follia), nota di merito per aver palesemente instaurato un buon rapporto con la città, come ci hanno confermato gli organizzatori: cosa che si è vista anche dal perfetto funzionamento della navette, frequentissime e diffuse in tutta l’area di Rovigno.
Altre due note di merito poi, e sono note fondamentali: la qualità eccelsa degli impianti, ma veramente eccelsa (tolto solo uno dei cinque stage), e la volontà di non essere avidi nei numeri. E’ stato dichiarato il sold out a pochi giorni dall’inizio del festival, temevamo quindi il carnaio e la difficoltà di spostarsi da un palco all’altro (e in qualcuno dei festival inglesi in Croazia questo succede, occhio), invece è stato tutto perfetto – affollato sì ma arioso, mai e poi mai momenti di claustrofobia e difficoltà di spostamento. Inoltre, da noi interrogati, i capoccia dell’Unknown hanno detto che per la prossima edizione vogliono crescere sì, ma crescere non significa necessariamente vendere più biglietti: loro sono già soddisfattissimi così. Ottimo atteggiamento. La garanzia quasi sicura che pure l’anno prossimo sarà una gran cosa; perché sì, siamo andati via dall’Unknown con una grandissima voglia di tornarci l’anno prossimo. Non succede sempre.
Pics credits: Gus Webster