Alla fine della quattro giorni di Ortigia Sound System mi sono trovato a vagare per i vicoli dell’isola—sfidando il caldo asfissiante, ma rimanendo sempre meravigliato come la prima volta—e fermandomi per un momento a fissare il tramonto, mentre una flebile melodia di pianoforte risuonava da lontano dalle casse di una bar, in zona porto. Il cielo si era fatto tetro dopo una settimana di caldo cocente, il contrasto con le linee blu limpido del mare sembrava creare un malinconico arrivederci alla festa: è successo, a Ortigia si è tornati a ballare. Insieme.
Quella di quest’anno è stata decisamente la prova più dura per tanti festival in giro per l’Italia—oltre che l’Europa—, perché era scontato si partisse da un livello di adrenalina che accantonasse la pressione post–COVID e mettesse al centro della chiesa le prospettive di riconcilio comune, l’esperienza, il ballo. E sì, dalle parti di Siracusa lo è stato con tutti i crismi eccezionali del caso. Ovvero quelli che ti fanno catapultare in giornate–fiume che nascono dalle parti dell’Antico Mercato, luogo di ritrovo ad honorem degli avventori, alla transumanza quasi sincronizzata quando le luci della sera si fanno rosso scuro, verso il main stage del Castello Maniace.
Per come la vedo io, l’idea di forza per un festival che mette la sua parte sanguigna (e autentica, autoctona) sempre in primo piano è quella di tenere sempre alta l’attenzione, insediandosi con le idee tra i suoi eventi in più poli strategici—e facendolo continuativamente. In sostanza, il linguaggio alla base di un boutique festival, certo, ma bisogna poi vedere cosa ne esce fuori, no? Per OSS 2022 ne è uscito fuori che le marce sono raddoppiate, e la volontà era di far capire che l’edizione “ridotta” del 2021 è stata altra cosa, rispetto a come si fa da queste parti: dall’inaugurale serata all’Antico Mercato ed i risvegli muscolari al Lido ha ospitato anche un pre–festival già dal sapore after (con Scott Fraser e Bawrut), in zona porto, oltre che i talk mattutini della neonata realtà OIA in salumeria—incentrati sui racconti della gente che rende OSS possibile—e la parentesi digging pomeridiana al record shop Malamore, con vista sulle rovine del Tempio di Apollo.
Poi c’è il festival—quello “vero e proprio”—che si accende con la notte a baciare il Castello Maniace: dal folk techno–fiabesco di Lyra Pramuk alla psichedelia dei Vanishing Twin, il main stage della prima serata vedeva come ovvio momento clou la premiere italiana dei nuovi Tangerine Dream, in un live che è un tuffo carpiato negli anni Settanta ma che è forse svantaggiato, per rendere al massimo, dal ritmo incalzante che ha contraddistinto le ore piccole vissute tra le mura della fortificazione greca. Anomalo—per quanto (purtroppo) leitmotiv di un luogo che fa i conti col fatto di trovarsi nel cuore pulsante dell’isola—lo stop al back to back tra Call Super e Shanti Celeste: a qualche minuto dalla fine il loro set è stato interrotto dalla chiamata delle autorità perché troppo tardi. Teacher, leave them kids alone.
Poco male, in fondo: all’Ex Km. 0 (quello sì, ben distante dal centro cittadino) si parte con la due giorni di after, con Paquita Gordon & Francesco del Garda. Nel rond de jambe di passeggiate, spostamenti tra venue e pause alla scogliera di Forte Vigliena, il Sabato arrivo abbastanza tardi: si sta esibendo il maestro Moritz Von Oswald, affiancato da Laurel Halo e Heinrich Koebberling a comporre la versione trio. L’effetto è lo stesso generato dai Tangerine Dream, seppur mitigato dal fatto che per quell’ora, rispetto a venerdì, il castello deve ancora accogliere la ciurma più trepidante. Se la godono infatti i Nihiloxica, appena dopo, che risultano ottima sorpresa tra afrofuturismo e tribalità elettronica, connubio energetico che cuoce a modo la sguinzagliata dei due doberman di Bromley North, i fratelli Overmono. Il loro live (tra i più attesi in cartello) ha prosciugato ogni goccia di sospetto (e sudore, a quel punto), partendo safe e poi alzando man mano il livello (e le bombe). Da fan della loro musica (e di quel modo di farla e di ballarla) sarò un po’ di parte, sicuramente, ma la reazione della folla alla loro “So U Kno” è decisamente tra i momenti più iconici di questa edizione. Prove me wrong.
Dai, quindi domenica sarà un arrivederci calmo e controllato. Manco per il c—zo, e ci scuseranno i diversi turisti francesi incontrati in questi giorni nell’isola. Prima di tutto perché ho circa due ore di sonno addosso (grazie a Lamusa II, John Talabot ed Eva Geist e al loro after), poi perché non faccio neanche in tempo a svegliarmi davvero che sta per tramontare, ed i vicoli del centro storico sono stage dell’inedita live residency di Lino Capra Vaccina & Mai Mai Mai, all’interno della Chiesa di Gesù e Maria. L’esperienza è tra le più assurde dei quattro giorni, nonostante le difficoltà logistiche (la chiesa contiene oltre un centinaio di persone ma i ventilatori sono ovviamente molti meno), ed i dubbi erano pochi ma rimane l’idea che davvero dalla loro combo sentiremo qualcosa di molto notevole anche più avanti.
Ma ecco, per tornare al punto cardine di tutto, non c’è tempo da perdere: si ritorna al Maniace, dove Yu Su apre (bene, a detta di tutti) le danze a quello che risulta probabilmente essere il momento più folle del festival: Kelly Lee Owens. Il suo dj set è una montagna russa di emozioni in totale stile UK, controllato da un animo melodico che si interseca abilmente anche nelle tinte scure di stampo Room 1 del fabric (nonostante sia appena mezzanotte, non le 5 di mattina). La strana coppia Anthony Naples/DJ Phyton chiude (e stavolta davvero) le nostre danze, tra le ultime energie sotto cassa e nostalgici saluti di chi sta per tornare a casa, chissà dove, da qualche parte in Sicilia e in Italia, ma c’è anche chi vola verso Colonia, Rotterdam, Atene, Copenaghen, Chicago.
Se c’è qualcosa che l’edizione di quest’anno ci lascia come monito è che la musica crea memoria, e la memoria è legata a stretto giro con una dimensione ben precisa: il tempo. A Ortigia le giornate sembrano durare in eterno, ma (ironicamente) di tempo non ce n’è mai abbastanza, perché ne vuoi ancora. E tra il mare ed i vicoli dell’antica Siracusa, nonostante a scrivere sia un Siciliano, è un Siciliano che ha capito che da queste parti di tempo da perdere non ce n’è.
Foto di Giacomo De Caro