Per iniziare l’anno con il piede giusto abbiamo fatto quattro chiacchiere con due personaggi che il piedino ce lo fanno muovere in pista da ormai più di una decade. Che sia in città o in provincia, che sia in in un micro club o ad un festival con migliaia di persone in delirio, la loro attitudine non cambia: sono Leme e Simone, ovvero i Dirty Channels, un duo che è il fiore all’occhiello dell’House music made in Italy. Hanno calcato palchi in tutta Europa e i loro dischi, usciti per Defected / Glitterbox, Ovum, Shake e AOTN, li suonano un po’ ovunque, ma il loro cuore rimane a Milano, dove con Take It Easy continuano a sfornare feste e release di prima classe. Siamo andati a capire con loro come ci si arriva a questo livello e, soprattutto, come ci si resta per più di dieci anni!
Partiamo dalle origini: come vi siete conosciuti e come avete iniziato a lavorare insieme?
S: Ci siamo conosciuti a cavallo tra il 2007 e il 2008, eravamo tutti e due resident di locali in provincia, io più sul Piemonte, Leme più in zona Brianza. Ci è capitato di suonare insieme e da lì abbiamo iniziato a passarci musica e a capire che c’era una certa affinità musicale, cosa che faticavamo un po’ a trovare nella zona. Da lì siamo partiti con le produzioni e con le serate insieme. Quasi subito siamo arrivati a Milano, che ci ha dato fiducia come duo. Sul lato produzioni abbiamo fatto i primi dischi su Manocalda, perché ci capitava spesso di lavorare con i Pastaboys, che in quel momento erano il nostro riferimento come DJ e soprattutto come produttori. Essendo in contatto abbiamo iniziato a mandargli musica e loro si sono mostrati interessati: da lì il primo singolo, il primo remix e anche la release su Reincarnation, distribuita da Rush Hour, molto valida, con la quale erano affiliati. Quello che ci rappresentava ad inizio anni 2000 era un suono molto Detroit, Deep House, che poi è uno stile che abbiamo sempre portato avanti nel tempo.
L: Sottoscrivo, i Pastaboys sono di sicuro quelli che più ci hanno ispirato ed è bello che quelli che erano i nostri idoli siano poi stati i primi a spingerci. Sono sempre stati i nostri riferimenti proprio nel sound e nel modo di tenere la pista e con loro collaboriamo tutt’oggi.
Voi che in qualche modo vi siete formati in provincia, prima di approdare in città, a Milano, come vedete questa dualità, se esiste?
L: Sulla provincia e sulla città si possono dire molte cose anche se ovviamente per noi la “città” è solo Milano. Posso dire che quando andavamo a ballare nei fine ‘90 / inizio 2000 c’erano anche molte situazioni valide fuori da Milano. Per esempio, molta gente che voleva ballare un certo tipo di suono si spostava a Brescia, non che Brescia sia provincia, ma per capirci. Mentre per altre grandi città italiane mi sembrava che questa opzione non ci fosse.
Vero, ad esempio a Legnano c’erano Post Garage o il Jail che facevano certi guest impensabili oggi.
S: Sì, oggi quelle situazioni sono decisamente più marginali.
L: Vero, i locali in provincia magari non erano necessariamente l’avanguardia ma facevano ospiti che avevano suonato anche al Mazoom. Oggi molti di quei club non esistono più, è cambiato anche il modo di fare clubbing, che non è più lo stesso di vent’anni fa. Oggi noi al Tunnel facciamo una cosa ispirata alla scena di quei tempi, ma perché noi ci siamo formati lì, però mi rendo conto che quello non sia più lo standard.
S: Altra cosa, in provincia c’erano anche locali con capienze molto più alte che oggi, con varie sale, che si potevano permettere di sperimentare. Oggi quelle realtà non esistono più o sono molto commerciali.
Secondo voi perché il modo di fare clubbing è cambiato? Mi viene in mente per esempio l’impatto della concorrenza di internet come forma di intrattenimento.
L: Difficile individuare un motivo solo perché sicuramente è stato causato da un insieme di ragioni. Quello stile è andato avanti per vent’anni, quindi penso che un calo sia anche fisiologico, poi c’è stato un periodo in cui per sentire un artista dovevi per forza fare una specie di pellegrinaggio in posti come Riccione o al Mazoom. Oggi l’artista è diventato molto più accessibile, soprattutto online, ma anche per via della facilità con cui si viaggia. Questo spinge tante persone ad andare a sentirsi artisti magari unendo un weekend a Barcellona, a Londra o ad un festival, tanto per fare un esempio. Non dimentichiamoci anche l’impatto della crisi, quelli erano posti che dovevano fare duemila ingressi a serata per aver senso economicamente e verso la fine dei 2000 era diventato difficile per le persone spendere 50€ per entrare in un club.
S: Sì, sicuramente oggi la scena è molto più globalizzata e internazionale.
Parlavi di festival, un ambiente in teoria diverso da quello in cui siete cresciuti, il club. Come la vedete voi questa differenza?
L: Noi siamo sempre stati sempre più DJ da club, che è dove ci siamo formati prima come pubblico, poi come artisti, anche se quello che suoniamo ultimamente inizia ad essere passato anche nei festival. Lo stesso Polifonic si è aperto molto a questo tipo di sonorità House e Disco. Posso dirti che in un club puoi spaziare di più, hai la gente più vicina e puoi capire meglio i momenti, mentre ad un festival devi più fare “il tuo prodotto” perché è quello che il pubblico si aspetta da te.
S: Sì, nel club sicuramente puoi sperimentare di più, nel festival le line up sono più affollate e hai meno tempo per fare il tuo set, quindi devi proporre qualcosa di più riconoscibile e di impatto. Poi ci sono situazioni come il festival in Croazia in cui c’erano vari palchi ed era strutturato bene, dove invece riesci a ricreare una situazione più simile al club.
Pensate anche a come l’acustica del festival influenzerà la musica che suonate? Non è un caso che negli ultimi anni siano nati generi pensati proprio per essere suonati in certi contesti, vedi la Big Room Techno, per esempio.
L: Secondo me rappresenta bene il cambiamento in corso, dove i festival hanno iniziato a prendere il posto dei club e a diventare i luoghi in cui nascono nuovi generi, anche perché le realtà piccole stanno scomparendo e per forza di cose gli artisti hanno iniziato a sperimentare nei contesti più grandi. Sicuramente in base a dove sei e all’acustica del posto ci sono dischi più o meno adatti, anche se, roba che prima sentivi solo nei club, ora la senti anche nei festival.
S: Poi dipende dalla bravura del DJ, penso sia improbabile per un bravo DJ fare lo stesso set per una venue da duecento persone e per una da duemila. Devi adattare il suono al contesto, alla gente, all’impianto. Il contesto sicuramente ti condiziona ma non necessariamente solo in termini negativi, a volte ti spinge a sperimentare e a trovare soluzioni creative perché sai che una certa frequenza lì arriva in un certo modo e quello cambia tutto.
Parlando di bravura del DJ come selezionatore, secondo voi quanto conta la ricerca del pezzo sconosciuto o unreleased e quanto, invece, una selezione che faccia ballare?
L: Secondo me è un po’ legata anche al momento della carriera in cui un artista si trova. Questa cosa della ricerca del disco sconosciuto c’è sempre stata, anche da prima di noi, quando c’era la corsa al disco promo prima che uscisse.
S: Sì, forse anche di più!
L: Personalmente l’ho avuta anch’io una fase in cui, dopo aver suonato un disco una o due volte già mi stufava e quindi cambiavo spesso la mia selezione. Oggi mi da più gusto passare un disco che sento più mio, che mi rappresenta di più. Magari è una cosa più relativa al nostro momento, anche perché oggi siamo riusciti a farci chiamare per quello che facciamo, quindi dobbiamo avere un minimo di riconoscibilità in più.
S: Tra l’altro oggi, a differenza di qualche anno fa, basta andare su Discogs e ordinarlo il disco, quindi mi interessa meno questo tipo di ricerca fine a se stessa che si traduce nel disco messo per fare hype nella storia di instagram e basta. Poi ovvio che c’è chi il selector lo sa fare bene e fa ballare tutti.
L: Che poi anche a noi capita di suonare il pezzo unreleased dell’amico che ce lo passa da provare, ma quello penso faccia parte del nostro spirito, lo facciamo per supportare e perché ci fa piacere. Comunque lo facciamo sempre con dischi che ci rappresentano e di artisti che stimiamo.
Parlando di dischi, voi continuate a portare avanti il formato del vinile? Che ruolo ha come supporto, secondo voi, in questo periodo storico?
S: Noi siamo nati nell’epoca del vinile e quando ho iniziato se non avevi i dischi non potevi suonare, e già lì c’era una certa selezione naturale. Noi ci siamo affezionati al supporto e abbiamo continuato ad usarlo. Penso sia bello che la musica continui ad uscire sul supporto fisico perché è qualcosa di tangibile, che ti rimane, rispetto al file. Anche la nostra label fa vinile proprio per quel motivo, perché pensiamo dia valore al prodotto. Personalmente non prendo tutto in vinile come facevo prima, perché poi non è così facile trovare posti in cui poterlo suonare bene: le console non hanno più i setup tarati come si deve, mixare master analogici e digitali non sempre suona bene e poi viaggiare con i dischi non è proprio comodissimo. Non siamo così puristi con il vinile ma continuiamo ad usarlo.
L: Concordo, se parliamo di contesto club è decisamente più facile condensare su una penna USB una selezione varia che sei sicuro accontenterà il pubblico, piuttosto che girare con tre borse piene di dischi come si faceva ai tempi. Oggi anche molti dei puristi si sono adattati e suonano quasi tutto in digitale. Poi ci sono anche quelli che decidono di resistere, di essere quasi ultras del vinile, e io li rispetto. Non penso comunque che il formato determini la qualità della musica, c’è musica sia bella che terribile stampata su disco. Gli unici contesti in cui direi che preferisco ancora il vinile sono il bar o il negozio di dischi dove, secondo me, è ancora esteticamente più carino suonare col disco.
Forse anche l’investimento legato alla stampa del vinile vi spinge un’etichetta a pensarci due volte prima di fare una release, valutazioni che una label solo digitale non fa.
S: Certo, bisogna giustificare le vendite per tenere aperta una label in vinile, sul digitale hai meno vincoli in questo senso. Noi abbiamo un accordo di press distribution, quindi dobbiamo portare dei risultati ed è una cosa a cui sicuramente pensiamo.
Oggi sentite di essere voi a supportare artisti emergenti un po’ come i Pastaboys avevano supportato voi ai tempi? Com’è il vostro rapporto con la nuova leva del clubbing?
L: Bella questa cosa, non penso sia un merito che possiamo attestarci ma saranno eventualmente le persone che abbiamo aiutato a riconoscerlo. Di sicuro posso dire che ci è capitato di fare serate con ragazzi molto giovani e di rivedere quell’attitudine che avevamo noi all’inizio. Devo dire che l’ultima generazione che si sta affacciando ora al clubbing, quella proprio più giovane, secondo me ha una vicinanza al nostro modo di fare, quindi mi auguro di poter lasciare loro qualcosa. Forse è una cosa che inizieremo a fare più da adesso andando avanti, anche se non abbiamo la pretesa di essere dei maestri. Vorrei che si tramandino i valori e il modo di fare come prima qualcuno li aveva passati a noi, quando abbiamo iniziato. Specialmente per questa nuova generazione che, forse più di quella intermezza che l’ha preceduta, che aveva influenze e valori differenti, mi sembra abbia un bell’approccio.
Sembra anche a me che la nuova leva abbia una certa curiosità verso il suono degli anni ‘90 / inizio 2000. Lo noto dai sample che vengono usati e dalla rinascita che certi artisti dell’epoca stanno avendo.
S: Lo speriamo! Effettivamente per la generazione dei ventenni, per loro è tutto nuovo. Sono abituati al festival, alla trap: quando vengono al club scoprono qualcosa di nuovo e ci sta che si interessino a questo tipo di situazione.
L: Secondo me è anche una questione musicale, che è stata riproposta e ricampionata dalla scena mainstream. C’è stato un periodo in cui suonare per i ragazzi giovani significava legnare, passare techno dura. Oggi invece sembra si possa azzardare qualcosa di diverso, di fresco.
Forse c’è anche una sensibilità maggiore delle nuove generazioni verso i temi che il club rappresenta? Parlo di accettazione, inclusione, diversità. Mi sembra che le nuove leve siano molto più a loro agio con l’espressione della propria individualità.
S: Sicuramente. E sicuramente la comunicazione fa in modo di amplificare questo tipo di aspetti positivi, lo si vede ad esempio nei parti di Glitterbox, dove il pubblico si riconosce molto in questo modo di fare festa.
L: Sono d’accordo ed era una cosa che si era un po’ persa. C’era sicuramente in passato e vedo che oggi sta tornando di pari passo con un certo tipo di musica. Poi comunque la società in generale sta cambiando in questa direzione, ha a che fare con la globalizzazione di cui parlavamo prima. A partire già dalla scuola le nuove generazioni sono sicuramente più esposte a questo tipo di diversità.
Concludiamo parlando di futuro. Che piani avete per le vostre prossime release e e ci date qualche anticipazione sui prossimi DJ set?
S: Continueremo sicuramente con la nostra label a far uscire cose nuove, ci sarà ora in uscita qualcosa di Bugsy e poi anche qualcosa di nostro a breve. In più stiamo pianificando una release con il gruppo Defected: è una cosa un po’ più crossover con Debbie Jacobs, un tributo ad un certo tipo di suono anni ‘70 rivisto in chiave House, con il nostro solito stile molto basato sui sample. Siamo riusciti a convincerla a tornare a cantare che dall’85 non ha più fatto singoli nuovi. Poi abbiamo un’uscita su Polifonic, una collaborazione con Don Carlos, pioniere dell’Italo House, che richiama molto quel suono e che ci rappresenta molto. Per finire, stiamo parlando ancora con Dan Shake per fare la seconda uscita sulla sua label, con lui ci troviamo molto bene ed è una persona con cui vorremmo portare avanti progetti insieme.
L: Parlando invece di serate, Covid permettendo, abbiamo ripreso a fare i party come Take It Easy, che stiamo portando avanti senza guest internazionali ma più con locals e noi resident. Stiamo continuando a collaborare con Defected, che ci porta spesso in giro per l’Europa. Per esempio faremo ancora la Croazia l’anno prossimo dopo essere stati al Printworks per Glitterbox. Torneremo anche al Polifonic in Puglia, che è un’altra realtà con cui ci troviamo molto bene. Infine stiamo lavorando con l’agenzia, Orchid, per fare altre date all’estero come, per esempio, Parigi a febbraio.
Com’è stato ripartire dopo il lockdown?
S: Un po’ dura all’inizio, anche perché per tutto il resto della nostra carriera non ci eravamo mai fermati, quindi è stato tosto all’inizio, poi molto bello, ci era mancato suonare.
L: Diciamo che abbiamo finito la preparazione estiva e ora stiamo entrando in forma campionato!