Da quando ho visto Ehua per la prima volta a Berlino ne ho apprezzato immediatamente l’enorme energia che sprigiona e ho capito subito che c’era un mondo da raccontare. Pisana di nascita e londinese di adozione, Ehua ha fatto faville fin dall’uscita del suo EP di debutto del 2018, “Diplozoon” su Femme Culture. Da allora ha remixato dischi per Ninja Tune, suonato nei club e nei festival più prestigiosi d’Europa e ha una sua residenza bimestrale su Rinse FM, dove esplora tutto lo spettro della bass sperimentale underground e della techno.
Le sue uscite più recenti includono gli EP “Aquamarine” via Nervous Horizon, ispirato sia al colore che al movimento dell’acqua, e “Clouds” su 3024, influenzato dalla natura paradossale di questi fenomeni metereologici che cambiano spesso umore, sospesi nello spazio. I suoi lavori sono ricchi di idee concettuali e radicati nella cultura black, dalla quale attinge non solo le percussioni, ma ne esplora i significati più profondi, girandola per dritto e rovescio, quasi a volerne spremere il senso per arrivare a capire meglio le proprie origini.
Questa intervista nasce dal desiderio di sedermi con lei da donna a donna, da expat a expat, e raccontare la sua storia. La storia di un’italiana di colore che per sentirsi accettata deve lasciare il proprio Paese, di una donna che non si riconosce e non si sente riconosciuta nella sua terra. Quanti altri talenti come Ehua sta perdendo l’Italia per la sua incapacità di saperli valorizzare? Ma soprattutto, se lo può permettere?
Dal primo incontro all’intervista sono passati più di sei mesi, e finalmente abbiamo avuto l’occasione di incontrarci ad una sua data in Olanda. Quel che ne esce è una chiacchierata molto informale e intima.
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Da dove arriva il nome Ehua?
Il nome Ehua è in realtà il mio vero cognome. Quando mio padre si è trasferito dalla Costa d’Avorio hanno fatto casino coi documenti, quello che era un secondo nome è diventato il suo cognome e così è rimasto. Nel momento in cui mi è servito un artist name mi sono riappropriata del cognome che ci era stato tolto.
Quindi, Céline Ehua, nata verso la fine degli anni ‘80 da papà ivoriano e mamma italiana. Ho letto in un’altra intervista che lavorano tutti e due nell’arte, giusto?
Sì esatto. La mamma è storica dell’arte e il papà lavora per l’archivio della Soprintendenza dei Beni Culturali di Pisa.
Te la farò molto breve e andrò dritta al punto senza girarci tanto attorno: Com’è stato crescere in un ambiente di un certo peso culturale, multirazziale e di mentalità aperta, ma inserito in un contesto provinciale italiano, da sempre poco aperto alla diversità, e possiamo dirlo, sempre meno impegnato nella salvaguardia e promozione della cultura? Dimmi se non è chiaro quello che intendo, e scusami la franchezza.
No, in realtà mi piace come hai formulato la domanda. È stato un clash. Mio padre è anche un bassista e nella mia famiglia, oltre ad essere artisti, siamo camperisti, quindi come puoi immaginare ci sono stati vari fattori che hanno reso la mia vita ancora meno “tradizionale”, come le lunghissime vacanze in giro per l’Europa in camper per mesi. Vai dove vuoi, ti fermi dove vuoi, sei libero… Inoltre ti devi anche reinventare il tempo, in quei lunghi pomeriggi d’estate in posti sconosciuti, trovando attività per riempirlo, il che richiede un certo livello di creatività. Comunque dicevo, è stato un clash, perché dentro casa sei questa persona per cui tutto è possibile, fuori casa ti scontri con un’altra realtà dove ti viene fatto ben capire che quello che ti hanno detto a casa non è realizzabile. Quindi da una parte hai una famiglia che ti supporta in tutte le tue pazzie artistiche, e dall’altra ti ritrovi inserita in un contesto di un paesino piccolo, ma veramente piccolo, con tutte le limitazioni fisiche e psicologiche che un posto così può dare. Mi porto ancora dietro gli strascichi di questo clash. A un certo punto cominci a limitarti da solo, creandoti dei doppi standard, e a nascondere la tua vera natura per conformarti a quello che hai intorno, per appartenere, non spiccare.
(Ehua, tra la natura urbana; continua sotto)
Hai detto che il papà era un bassista: immagino anche questo abbia promosso la tua formazione come musicista.
Sì, mi ricordo che da piccola andavo con lui alle prove e ai concerti, e lo strumento che più mi attirava era la batteria, appena ne vedevo una libera in qualche break mi ci buttavo sopra a tamburellare come una matta. E poi sì, in casa c’era sempre musica.
Immagino non Sanremo.
No, abbiamo sempre e solo ascoltato musica straniera, non sono cresciuta ascoltando molta musica italiana, anche se i cantanti italiani che tutt’ora mi appassionano sono quelli che non avevano molto hype all’epoca. Per esempio ultimamente ho riscoperto i Tiromancino: c’era una malinconia, una verità nel modo in cui facevano musica che per me rimane qualcosa di diverso. Per il resto mi affidavo a MTV.
Eh, quello ci ha cambiato la vita, e la percezione della musica. Ha aperto un mondo che prima ci era precluso. Mi ricordo ancora che trasmettevano in italiano qualche ora da Londra, pensa che vecchia che sono.
Per Ehua adolescente era la finestra sul mondo. Non avevo role models nella musica italiana: per me scoprire l’R’n’B, le Destiny’s Child, Missy Elliott, è stato importantissimo. Persone come me, che fanno musica, hanno successo, nessuno le guarda male e le giudica, ma al contrario le mette su un piedistallo… Era proprio quello di cui avevo bisogno, in quegli anni.
Ed è per quello che poi ti sei trasferita a Londra. Mi ricordo in un’intervista con il grande Giorgio Valletta dicevi che è stato un passo importante per trovare la tua identità.
Assolutamente. Ma, in un certo modo, anche per sparire, per non essere più al centro dell’attenzione, visibile, evidente, e per il motivo sbagliato, sempre. Un posto dove la tua provenienza non conta, conta il fatto che ci sei.
Perché proprio Londra?
Questa è una buona domanda. Come ti dicevo, quand’ero teenager ero così influenzata, diciamo, da tutta l’iconografia della musica e della cultura pop americana che volevo trasferirmi negli States. Avevo sviluppato un’ossessione per quella che è l’American black culture senza rendermi conto che quella che mi veniva venduta tramite MTV era una versione glamour della realtà. Realtà che, se poi andiamo a vedere, era molto più vicina alla mia esperienza diretta con la non accettazione di un certo tipo di identità. Comunque, tornando alla domanda, per farla breve, al termine di una sessione di esami all’università ho raggiunto degli amici a Londra per fare un’esperienza estiva all’estero e non sono mai tornata indietro. Cioè sì, sono tornata 4 anni dopo per 6 mesi per laurearmi in sociologia, ma non ce l’ho fatta a rimanere: ormai la mia vita era a Londra. Dopo la laurea sono tornata lì, e per 7 anni ho lavorato come insegnante di lingua inglese per stranieri.
Come sei passata quindi da insegnare alla carriera come musicista?
Le due cose sono successe contemporaneamente per parecchi anni. Innanzitutto tutti i miei amici a Londra o erano producers o erano DJ, a cominciare da TSVI e Wallwork, i ragazzi di Nervous Horizons (label che ha fatto la release del suo secondo EP Aquamarine, ndr). Mi sono trovata quindi in questo ambiente, ed essendo già appassionatissima di clubbing da quando ero in Italia, quando in Versilia ancora il clubbing era di altissimo livello, e fortemente attratta da tutto ciò che è UK, bass o minimal techno, involontariamente ho cominciato a prestare molta attenzione a quello che questa cerchia ristretta di amici faceva. Un giorno mi è stata data una spare license di Logic e mi ci sono messa a lavorare. In poche ore avevo creato una traccia, e quel momento è stato catartico: ho immediatamente capito che, nonostante non avessi mai suonato uno strumento, questa era la maniera di unire tutti i puntini, tutte le mie vene artistiche, e finalmente dava loro un senso. Avevo molta paura però: quando ho aperto Soundcloud non avevo nemmeno la mia foto. Tutti quelli che mi scrivevano pensavano fossi un uomo, ovviamente. Soffrivo di una pesante impostor syndrome perché non avevo studiato musica, per me era una passione, un talento naturale che mi usciva da non so dove. All’inizio è stato tutto molto sofferto. Poi è arrivata la prima release con Femme Culture (il singolo “New Moon” e l’EP “Diplozoon”, ndr).
(Ehua in azione al Sónar 2022, foto di Alba Rupérez; continua sotto)
Quanta di questa “impostor syndrome” deriva dal fatto di essere donna, secondo te? Mi hai detto che quando ti scrivevano su Soundcloud per complimentarsi per le tue tracce ti apostrofavano come “dude”, prima di sapere che ci fosse Céline a celarsi dietro al moniker di Ehua. Quanto l’essere di sesso femminile può pesare sul non sentirsi adeguati a fare un lavoro che può essere visto come prevalentemente maschile? Anche se ultimamente le barriere stanno cadendo, per fortuna.
No, davvero, è gigante questa cosa, impatta un sacco. Le donne in generale hanno una sensibilità differente da quella degli uomini, e non lo dico per dire che siamo migliori o peggiori, siamo creature fondamentalmente diverse a livello chimico. In più noi donne siamo programmate a pensare di essere sempre da meno del nostro corrispettivo maschile, o comunque mai abbastanza. Questa cosa ha influito tantissimo. In più, il mio essere donna mixed race e l’essere cresciuta in un posto dove ho sempre dovuto giustificare tutto quello che facevo, quello che ero, ha contribuito tantissimo a questa insicurezza, che sento tuttora. Non mi vergogno di dirlo, faccio terapia regolarmente, mi dà forza di fare quello che faccio.
Non c’è nulla da vergognarsi a fare terapia. È un’altra di quelle cose che quando vivi all’estero è normalissima, mentre in Italia rimane anche nel 2024 uno stigma. Qual è stata quindi la sfida più grande che hai dovuto affrontare crescendo?
Combinare la mia personalità forte, il mio spirito ribelle, il mio senso della giustizia e dell’ingiustizia con l’ambiente conformista, perbenista e ipocrita del percorso di studi che avevo scelto in adolescenza, il liceo classico. Gli anni delle superiori sono stati molto pesanti. Sono però contenta di avere fatto studi classici per la cultura, l’approccio e gli interessi che mi hanno lasciato. Sono temi che coltivo tutt’oggi: tante delle mie tracce hanno nomi in greco, come “Xantho”, in “Aquamarine”, e il progetto a cui sto lavorando prende il nome dalle teorie di un filosofo greco che mi affascina molto.
(Un podcast per Unsound; continua sotto)
Ecco, veniamo alla musica. Stai girando un sacco, sei sempre in tour, lo trovi il tempo di produrre? Ci possiamo aspettare presto una nuova release? Magari un album?
Sì, e sarà diversissimo da quello che ho fatto fino ad adesso. Sento che alcuni dei miei lati artistici non sono ancora stati rivelati nel percorso che ho fatto finora. Il mio amore per la musica è così ampio che io mi gaso che so, sia con Chaka Khan che con Rachmaninov e voglio che questo emerga di più nei miei lavori futuri.
Ora mi chiedo cosa mai ci dovremmo aspettare.
Jazz, ambient, house, trip hop, future pop… Tutto quello che vogliamo! Cerco di produrre tutti i giorni per ore. Il 10% di quello che faccio è club music. Sono arrivata al momento in cui sento il bisogno di mostrare l’altro 90%. Mi rendo conto che la mia audience si aspetta da me un determinato tipo di sound, però Ehua è questo e quello, non vedo perché limitarmi quando ho COSÌ TANTE cose da dire. Anche con la voce, e sto ancora cercando il modo migliore per dirle… in realtà canto al contrario.
La musica del demonio!!!
La musica del demonio. Sono timida… No, non è vero, ma mi piace molto giocare con la lingua, con le parole. Anche in Aquamarine, la voce è la mia. Sono io che parlo in italiano, al contrario. Nel mio prossimo lavoro a cui sto già lavorando, questa cosa verrà portata to the next level perché ne sento proprio la necessità.
Hai già una label per la release?
Voglio lavorare di nuovo con Martyn (per 3024, ndr.), e voglio anche fare altre uscite su altre label, sto lavorando a diversi progetti al momento, spero solo di avere il tempo per tutto perché non mi fermo mai, sono sempre in tour.
Hai suonato in tutti i club più grossi e famosi, dal Berghain al Fabric, hai fatto festival come il Sonar o il Dekmantel, hai condiviso il palco con nomi di un certo peso, e sei stata recentemente in Cina e Vietnam. Com’è la scena in Cina? Penso che pochi di noi ne abbiano idea, e mi incuriosisce molto.
I club in cui ho suonato in Cina sono tra i migliori club in cui abbia mai suonato, e come dicevi prima, ho suonato in parecchi posti. C’è una passione per il sound underground in Cina che è una cosa fuori di testa. A Shanghai sono entrata con amici in un caffè e c’era una mia traccia che stava uscendo dalle casse, non ci potevo credere. Sono veramente appassionati di quello che facciamo qui e hanno una voglia di creare, scoprire, viaggiare, invitare e conoscere gente che è incredibile. È stato uno shock culturale enorme, ho avuto moltissimi studenti asiatici quando lavoravo come insegnante e finalmente arrivare lì e toccare la cultura con mano è stato allucinante, entusiasmante. A Chengdu ho suonato al 21esimo piano di un grattacielo dove all’alba si aprono le finestre e vedi l’alba su una città di milioni di abitanti…
Insomma, ciao Panorama Bar con la tua bella vista sul parcheggio della Metro.
Sì, incredibile, non ne vedi la fine. Ma poi i soundsystem, e l’energia della gente, considerando che non ci sono sostanze e il proibizionismo è a livelli estremi, insomma è tutto mindblowing. Cina, ma anche Vietnam. Davvero una grande esperienza. Pensa che in un club a Ho Chi Minh City hanno perfino impresso la mia faccia sui token dei drinks.
Fantastico! Direi che con questa chicca possiamo concludere questa lunghissima chiacchierata.
Da allora ho visto Ehua suonare altre due volte, una al De School ad Amsterdam e una all’RSO a Berlino. La sua capacità di leggere la pista, di creare un sentimento, di raccontare una storia con la sua musica è sicuramente fuori dal comune. Aspetto con ansia i prossimi capitoli della saga di Ehua, e sono sicura sarà una storia di successo lunga ed entusiasmante.
(Fata Morgana Festival 2023, pic by Romain Guede; scroll down for English version)
ENGLISH VERSION
Upon meeting Ehua for the first time in Berlin, I was immediately struck by the energy she radiated and felt that there was a story to be told within it.
Since releasing her debut EP, Diplozoon, on Femme Culture in 2018, Ehua hasn’t stopped sparking. She’s been remixing records for Ninja Tune, playing the most prestigious clubs and festivals in Europe, and holding a bi-monthly residency on Rinse FM, exploring the full spectrum of underground experimental bass and techno.
Her recent releases include the EP Aquamarine via Nervous Horizon, inspired by the colour and movement of water, and Clouds EP on 3024, influenced by the paradoxical nature of these mood-changing weather phenomena suspended in space. Her work is rich in conceptual ideas and rooted in black culture, from which she draws percussion and explores its deeper meanings, turning it inside out, almost squeezing its essence to better understand her origins.
This interview is the result of the desire to sit down with her, woman to woman, expat to expat, and tell her story. The story of a black Italian who has to leave her country to feel accepted, of a woman who does not recognise herself and does not feel recognised in her homeland. How many talented individuals like Ehua is Italy losing due to its inability to foster their potential? Most importantly, can Italy afford to continue this trend?
After more than six months since our first meeting, we finally had a chance to interview at a gig in the Netherlands. What emerges is a very informal, intimate and lively conversation.
Where does the name Ehua come from?
My actual surname is Ehua. When my father moved from the Ivory Coast, there was some confusion with the documents, and his second name became his surname. This mix-up persisted, and our family name was lost. In need of an artist name, I decided to reclaim our family name.
Céline Ehua then, born in the late 80s to an Ivorian father and an Italian mother. I read in a different interview that both of them work in the field of art, is that right?
Yes, exactly. My mother is an art historian, and my father worked in the archives of the Authority for the Supervision of Cultural Heritage in Pisa.
I’ll keep it short and get straight to the point: What was it like to grow up in an environment with a certain cultural weight, multiracial and open-minded, but embedded in an Italian provincial context, historically not open to diversity and less and less committed to the preservation and promotion of culture?
I like the way you phrased the question. It was a clash. My father is a bass player, and in my family, besides being artists, we like camping. As you can imagine, my life was far from traditional due to several factors. One of these factors was the long holidays spent travelling around Europe in a camper van for months on end. You have the freedom to go wherever you like, stop wherever you please, and enjoy the feeling of being suspended in time. Anyway, it was a clash. At home, you are this person for whom everything is possible. But when you step outside, you collide with a different reality that makes it clear that the things you were told at home are not possible. On the one hand, you have a family that supports you in all your artistic madness. On the other hand, you find yourself in the context of a small, tiny village, with all the associated limitations and challenges, both physical and psychological. I still carry the consequences of that clash with me. At some point, you begin to restrict yourself, creating double standards, and suppressing your true nature to adjust to your surroundings, blend in, and not attract attention.
You mentioned that your father was a bass player. I imagine that his influence played a significant role in shaping your interest in music.
Yeah, I remember when I was a kid, I used to go with him to rehearsals and gigs, and the instrument I was most attracted to was the drum set. Whenever I saw one free during a recess, I would jump on it and play madly. And then yes, there was always music at home…
I guess not Sanremo (traditional Italian music festival, ed.).
No, we always listened to international music. I didn’t grow up with a lot of Italian music, although the Italian singers who still fascinate me are the ones who didn’t have a lot of hype at the time. I was very fond of MTV back then.
Yes, MTV was definitely a change in our lives and in our perception of music. It opened up a world that was previously off-limits in Italy. I still remember them broadcasting from London in Italian a few hours per day, imagine how old I am.
For the teenage Ehua, it was a window to the world. I didn’t have any role models in Italian music: the discovery of R’n’B, Destiny’s Child, or Missy Elliott was very important for me. People like me, who make music, who are successful, no one looks down on them or judges them, but instead they are put on a pedestal… That’s exactly what I needed at that time.
And that was the reason for your move to London, wasn’t it? I remember an interview with the great Giorgio Valletta. You said it was an important step in finding your identity.
Absolutely. It’s also a way to disappear, to stop being the centre of attention, always visible, obvious, and always for the wrong reasons. In a big city like London, your background doesn’t matter; it’s who you are right now that counts.
Why London?
Good question. As I said, as a teenager, I was so influenced by American music and pop culture iconography that I wanted to move to the US. I became obsessed with American black culture, not realising that what MTV was selling me was a glamorous version of reality. A reality that, in the end, was a lot closer to my own direct experience of not being accepted because of a certain kind of identity. Anyway, getting back to your question, after a couple of exam sessions, I went to London with some friends to spend the summer abroad, and I never looked back. Well, I returned to Italy 4 years later for 6 months to finish my sociology degree but I couldn’t stay: That wasn’t my place anymore. After graduation, I went back to London and worked as an English teacher for 7 years.
How did you make the transition from teaching to a career as a musician?
The two things happened simultaneously over many years. Firstly, all my friends in London were either producers or DJs, starting with TSVI and Wallwork, the guys from Nervous Horizons (who released her second EP Aquamarine, ed.). So I found myself in this environment. As I was already very passionate about clubbing and very attracted to anything that was British, I involuntarily started to pay a lot of attention to what this narrow circle of friends were doing. One day I was given a spare licence of Logic and started to work with it. In a couple of hours, I had created a track, and it was a cathartic moment: I immediately understood that, even though I had never played an instrument before, this was the way to connect all the dots of all my artistic veins and finally give them some meaning. But I was scared at the beginning: when I first opened Soundcloud, I didn’t even have my picture. Everyone who wrote to me thought I was a man, of course. I suffered from a lot of imposter syndrome because I lacked formal music education, for me it was a passion, a natural talent that was coming out from I don’t know where. It was all very painful at first. Then came the first release with Femme Culture (the single New Moon and the EP Diplozoon, ed.).
In your opinion, how much of this “impostor syndrome” is a result of being a woman? You mentioned that people write to you on SoundCloud to compliment your tracks and address you as “dude.” To what extent being a woman can be a burden, in terms of feeling inadequate to perform a job often seen as masculine? Although recently, thankfully, barriers are falling.
No, really, it’s huge, it has a significant impact. Men and women have different sensitivities. This is not to say that one is better than the other. We are fundamentally different creatures, chemically. On top of that, we women are programmed to think that we are always less than our male counterparts, or at least never good enough. This experience has had a profound impact on me. Additionally, growing up as a mixed-race woman in a place where I had to constantly justify myself for how I was or what I was doing contributed significantly to the insecurity I still feel today. I’m not ashamed to say it, I go to therapy on a regular basis, and it’s what gives me the strength to do what I do.
There is no shame in going to therapy. It’s another one of those things pretty normal everywhere, while in Italy, even in 2024, it’s still a stigma.
What would you say was your biggest challenge growing up?
Combining my strong personality, rebellious spirit, sense of justice and injustice with the conformist, bourgeois, hypocritical environment of the academic path I chose in adolescence, which was humanities studies. The high school years were difficult for me, but I’m grateful for the knowledge and interests that studying Humanities left me with. Even today, I still cherish many of the themes, the culture, and the approach that I learned from it. For instance, I often name my music tracks with Greek names, like “Xantho” in Aquamarine. Currently, I’m working on a project that takes its name from the theories of a Greek philosopher who particularly fascinates me.
Let’s talk about music. You’re touring a lot, always on the road. Do you find time to produce? Can we expect a new release soon? A new album, maybe?
Yes, And it will be very different from what I’ve done before. I have the feeling that some of my artistic sides have not yet been on display in the path I have been on so far. My love for music is so broad that I get excited, you know, by Chaka Khan as well as Rachmaninov, to make an example. I want to show that more in my future work.
Now I wonder: What should we expect?
Jazz, ambient, house, trip-hop, future pop… everything we want! I try to produce for hours every day. About 10 % of what I do is club music. I’ve got to the point where I feel like I need to show the other 90%. I also realise that my audience might expect a certain sound, but Ehua is this and that. I don’t know why I should hold back when I have SO MUCH to say. I’m still trying to find the best way to express myself, with my voice too… I even sing backwards.
The devil’s music!
The devil’s music. I’m shy… no, it’s not true, but I really like to play with language, with words. In “Aquamarine,” I used my voice speaking Italian in reverse. I’m already working on my next project, where I plan to take this to the next level. It’s something I feel a strong need to do.
Do you have a label in mind for the release?
I want to work with Martyn again (for 3024, ed.), and I also want to release on other labels. I’m working on several projects at the moment. I hope to find time for everything, as I am constantly on tour.
You’ve played in all the biggest and most famous clubs, from Berghain to Fabric, participated in festivals like Sonar or Dekmantel, shared the stage with some heavyweights, and recently been to China and Vietnam. What’s the scene like in China? I don’t think many of us have any idea. I’m curious.
The clubs I’ve played in China are some of the best I’ve ever played, and like you said, I’ve played a lot of places. The passion for underground music in China is out of this world. In Shanghai, I walked into a cafe with friends, and one of my tracks was coming out of the speakers. I couldn’t believe it. In China, people are really passionate about what we are doing here in Europe and they have an incredible desire to create, discover, travel, invite, and meet. When I worked as a teacher, I had many Asian students. Finally going to Asia and experiencing the culture firsthand was overwhelming and exciting. In Chengdu, I played on the 21st floor of a skyscraper. At dawn, the windows open, and you can see the sunrise over a city of millions.
Ciao Panorama Bar with your beautiful view of the Metro parking lot.
Yes, incredible, you can’t see the end of it. And the attention to the quality of the sound systems, the energy of the people, considering that there are no substances and the prohibitionism is at an extreme level, well, it’s all mind-blowing. China, but also Vietnam. It was a really great experience! In a club in Ho Chi Minh City, they even had my face printed on the tokens for the drinks.
Awesome. I have a feeling that with this gem we can bring this very long conversation to a close.
Since then, I’ve seen Ehua play twice more, once at De School in Amsterdam and once at the RSO in Berlin. Her ability to read the dance floor, to create a feeling, to tell a story with her music is definitely extraordinary. I’m looking forward to the next chapters of the Ehua saga. I’m sure it’s going to be a long, successful and exciting story.