Paul Kalkbrenner è velocissimo, quando parla con te. Stargli dietro è una sfida, è una divertente sfida: le frasi escono fuori alla velocità della luce, i cambi di argomento sono improvvisi, ogni tanto riprende la risposta lasciata a metà qualche minuto prima, così, dal nulla, e tu devi essere pronto a riprendere in mano il discorso. Quella che potete leggere qui sotto è una chiacchierata fatta originariamente per Billboard Italia, qualche tempo fa (intervista uscita su carta, naturalmente in forma diversa). Abbiamo voluto riprenderla in mano e svilupparla per intero per “salutare” la presenza di Paul – ogni sua calata in Italia è un evento nonché una festa per i promoter, visto che fa sempre dei numeri da capogiro – nell’edizione 2019 del Social Music City, edizione che parte domani 30 aprile con la giornata targata Circoloco. In generale, comunque, Kalkbrenner è una persona interessante con cui parlare. Già lo era stato parecchio nella prima intervista che gli facemmo, si è confermato tale in questo secondo round durante l’oretta passata assieme in una calda mattinata romana, in un hotel di lusso in Via Veneto (in cui lui e il suo entourage parevano un po’ fuori posto, col loro look fieramente Berlino anni ‘90…). A mio favore, nel far partire bene la chiacchierata, due cose: un po’ di amici in comune, e il fatto di aver iniziato parlando prima di tutto dello Sparta Lichtenberg, la squadra di amatori in cui ogni tanto si ritrova a giocare nella categoria “seniores”, contrassegnata in Germania da una “Ü” e dal numero minimo di età delle persone da tesserare.
Allora, allora… come butta con lo Sparta?
Bene! l’ultima partita abbiamo vinto 8-2! Con la nostra Ü40 andiamo alla grande.
Ah caspita, ecco, vedi, ero rimasto fermo che eri nella Ü32.
Mio caro, ho passato i 40.
Vero. Che effetto ti ha fatto?
Ora, buono. Sai, quando ero arrivato a 39 mi ero calcisticamente un po’ depresso: “E ora cosa succede?”. Ma in realtà con la Ü40 mi diverto forse ancora di più. Poi sai, gioco essenzialmente da portiere, non è che debba correre chissà quanto ed essere in chissà quale forma fisica… Il problema più che altro è capire quando riesco a giocare: le partite sono il venerdì e il sabato, quando sono in giro a fare date ovviamente non se ne parla di poter essere in campo. Comunque a breve altri miei ex colleghi della Ü32 passeranno per motivi anagrafici alla Ü40 e quando accadrà, beh, accidenti se diventeremo forti.
Stando sempre sul calcio, so che sei molto, molto amico dell’ex nazionale tedesco Per Mertesacker. Non solo un difensore che ha avuto una buona carriera, ma anche una persona rara nel mondo del calcio: ha avuto il coraggio di denunciare tutta una serie di paure e di debolezze. Non lo fa praticamente nessuno. Nessuno è arrivato a denunciare in maniera così disarmata le proprie debolezze rispetto a tutto ciò che è “pressione”. Domanda: anche te senti questa pressione, visto il livello di fama a cui sei arrivato?
E’ una sensazione che tocca chiunque scelga di esporsi in qualche maniera pubblicamente, attraverso ciò che fa o ciò che dice. Chiunque! Dicevano gli antichi greci, e io sto assolutamente con loro: chiunque scelga il passo di voler fare qualcosa che lo porti ad esporsi al pubblico – si tratta di essere politico, artista, atleta – deve mettere in conto la pressione, questo tipo di pressione. Fa parte del gioco. Non è qualcosa che tu possa evitare: non puoi evitare i giudizi, non puoi evitare le critiche, anche cattive, anche in malafede.
E’ stato un processo facile arrivare a questo tipo di consapevolezza? Perché non tutti ci arrivano…
Ah, per me è stato facile. L’ho sempre saputo. L’ho sempre pensato. Fin da quando, a 15 anni, facevo i miei primi live di fronte a 20 persone. Sai come si dice in tedesco? Lampenfieber…
…significa più o meno “panico da palcoscenico”, giusto?
Esatto. E fa parte del pacchetto. Non puoi pensare di evitarlo. Perché dimmi: quanto è stupido ed infantile pensare che possa essere tutto così semplice e “morbido” come quando sei solo attorniato dalla tua famiglia e dai tuoi amici più stretti? Oh, io a Per l’ho detto…
Che gli hai detto, a Mertesacker?
“Hai voluto fare il calciatore ad alti livelli? Beh, nessuno ti ha costretto a farlo”. Devi tenere conto delle conseguenze, di tutte le implicazioni. Devi affrontarle.
Detto ciò, e tornando a quanto tu sia in mezzo all’attenzione di tutti nel bene e nel male, posso dire che lo show “Back To The Future” che hai portato in giro un paio d’anni fa sia stato molto importante per te? Il fatto di riportare – legandolo alla tua figura – un certo tipo di elettronica anni ’90, quella diciamo originaria del periodo rave e primo post-rave, per molti l’elettronica dance più autentica e pura.
“Back To The Future” è la cosa più importante che abbia fatto da anni a questa parte. Non tanto per gli show in sé, o per i mixtape: in generale, è qualcosa che ha “pulito” la mia mente. Mi ha fatto riscoprire perché fin da piccolo ho desiderato fare musica: mi ha riportato in mezzo a quelle sensazioni e quella motivazione. Prendi l’album che era arrivato prima, “7”: troppo prodotto, troppi arazzi, troppe rifiniture, troppo laccato. Avevo l’ansia di “fare” le cose, di dimostrare che ero bravo, col risultato che finivo invece con lo strafare. “Back To The Future” ha ripulito tutto questo. Mi ha fatto tornare all’essenza: chi sono? Perché faccio musica? Quali sono le cose che mi piacciono davvero? E poi guarda, “7” riascoltato oggi è così lento… ma me ne ero accorto subito, già quando lo risuonavo live a pochi mesi dalla sua uscita lo velocizzavo parecchio, fino a rendere i pezzi quasi irriconoscibili. E sai cosa?
Dimmi.
Non mi piace per nulla, quel disco. “Parts Of Life”, arrivato dopo, è ad esempio molto, molto meglio. E’ un disco che riprende lo spirito di “Berlin Calling” – che resta il mio capolavoro. E a cui sono seguiti degli album che, insomma, risentiti ora… di sicuro non erano alla sua altezza.
No, eh?
Ma è fisiologico, no? Chi è che riesce solo a far uscire dei capolavori? Io di “Parts Of Life” sono molto soddisfatto. E’ un disco che ho creato in tempi molto ristretti, ma d’altro canto questa è abbastanza una mia abitudine: nel suo caso, diciamo che c’ho lavorato sopra tra dicembre 2017 e febbraio 2018. Tre mesi.
Tre mesi in cui il grigiore, il freddo e l’oscurità a Berlino sono ai massimi.
Sai cosa? Il 31 dicembre e l’1 gennaio ero in studio. A lavorare. Se guardavo dalla finestra, vedevo sciamare la gente stravolta ancora in after alla disperata ricerca di taxi…
Un tempo saresti stato uno di loro.
Immagino di sì.
Il processo iniziato con “Back To The Future”, che mi ha riportato a suonare più spesso in contesti techno e house piuttosto che in mega-evanti a 360 gradi, è stato molto salutare, è stato molto bello. Guadagno di meno? Guadagno di meno. Ma chi se ne frega
Un’altra svolta interessante, oltre a “Back To The Future”, è stato quando hai deciso di lasciare un gigante del booking internazionale, la William Morris, per arrivare in qualcosa di un po’ meno “corporate” a livello di globale: non è una mia supposizione, eh, ho letto tue interviste che lo dicevi.
Ed è esattamente così.
Quanto sono cambiate le cose?
Capita ancora adesso di arrivare in festival giganteschi dove non conosci quasi nessuno di quelli che sono con te in line up, intendo a livello personale. Ti interfaccia giusto coi roadie delle giga-star che suonano, agli artisti mica ci arrivi. E per questo ti dico che il processo iniziato con “Back To The Future”, che mi ha riportato a suonare più spesso in contesti techno e house piuttosto che in mega-evanti a 360 gradi, è stato molto salutare, è stato molto bello. Guadagno di meno? Guadagno di meno. Ma chi se ne frega. Oh, a me piace sperimentare, piace misurarmi in contesti diversi, non rinnego nulla di quello che ho fatto in passato, così come non rinnego l’esperienza del contratto con la Sony.
Come è stata?
Era tutto un “Tu fai la musica, poi non preoccuparti, facciamo noi, pensiamo a tutto noi”: bello, eh, ma ho capito che preferisco quando posso essere in controllo di tutto quanto il ciclo di vita di un disco. Anche perché in questo modo posso sempre ricordare che la musica va messa al primo posto, e non relegata in secondo piano rispetto a varie ed eventuali strategie di marketing, per quanto efficaci esse possano essere (e spesso lo sono, non sono certo io a negarlo). Ma c’è una cosa molto importante che ho imparato dal regista di “Berlin Calling” il film: le cose è meglio ed è soprattutto più divertente deciderle quando accadono davvero, non mettersi a pianificare prima. E’ bello attenersi a questa regola. Mi fa stare meglio.
Ti sei mai chiesto: “Perché tutto questo successo a me? Proprio a me?”?
Sì, succede.
E?
La risposta è: perché nessuno fa le cose come le faccio io. Almeno in un certo tipo di contesti, a cui io in un modo o nell’altro sono arrivato. Prendi Tomorrowland: vedi degli show che dal punto di vista spettacolare sono fantastici, eh, nulla da dire, ma… che fa l’artista in console? Te lo dico io: nulla. E’ solo un elemento, quasi ininfluente da un punto di vista pratico, di un circo miliardi di volte più grande di lui. E allora Tomorrowland, ma anche tutti gli altri grandi festival, fanno sempre più aftermovie girati coi droni dove è una sfida a chi riesce a tirare fuori le immagini d’insieme più spettacolari… sempre di più, sempre di più… ma sai cosa succederà ad un dato momento?
Cosa?
Che la gente si fermerà un attimo ed inizierà a dire: “Ok, bello. Ma sul palco? Mi fai capire cosa succede sul palco?”. Anzi. Sta già accadendo.
E?
E lì si vede la differenza. Guarda cosa faccio quando sono in console io, e guarda cosa fa un qualsiasi altro headliner del Tomorrowland o di un qualsiasi gigantesco festival mondiale dove ci sia un headliner elettronico. Capisci? Io quando sono sul palco, le cose le faccio. Le macchine, me lo porto dietro. Quando mixo, mixo. Sono diverso. Non sono come gli altri. Almeno in quei contesti lì.
Un’altra cosa diversa tua è che hai tirato fuori una delle ultime, grandi hit trasversali, con “Sky And Sand”. Da lì in avanti le hit elettroniche sono tutte finite fuori dai giri tech-house.
Vero. Sai cosa, quando hai una prospettiva più underground ti sembra che ogni mese esca una hit, un pezzo che spacca: ma poi quando apri la visuale e osservi il tutto con gli occhi di una persona normale, di una persona media, ti rendi conto di come stanno le cose veramente. Posso dire che sì, “Sky And Sand” ha un impianto al 100% tech-house, molto essenziale e minimale quindi, ma penso di poter dire che sarebbe diventata una hit con qualsiasi arrangiamento.
Aspetta, fermi tutti: hai usato il termine “underground”. Ecco, ora ti devo chiedere l’esatto significato di questo termine…
(ride, NdI) L’esatto significato? Non ho la minima idea di quale sia, in realtà. Quando ero più giovane sì, mi era chiaro. Oggi… oggi cosa significa essere “underground”? Che ti abbassi il cachet per forza? Ah sì? E lo fai? Chi lo fa? Sai, c’è un momento ben preciso in cui la vita delle persone inizia a cambiare: quando scopri cosa significa avere un figlio. In quel momento tutti i discorsi del tipo “Ah ma a me non interessa essere ricco e famoso, a me interessa essere figo, avere il rispetto di pochi ma purché siano quelli giusti, anche a costo di fare la fame…”, ecco, tutti questi discorsi qui finiscono in soffitta, e quasi ti sorprendi del fatto che prima ne eri invece così convinto sostenitore, sai? Basta: capisci che questa fighetteria è un lusso che non ti puoi più permettere. E che soprattutto non ti vuoi più permettere.
Ma senti, Berlino tornerà mai ad essere quella che era negli anni ’90? Quella che, in una tua definizione che mi è piaciuta molto, era l’incontro di “…drag queen di Berlino Ovest e teppaglia di Berlino Est, perfettamente mescolati fra loro”?
Che poi la definizione non è nemmeno mia. L’ho rubata a… aspetta, a chi l’ho rubata… ah sì: l’ho rubata a quello che in “Berlin Calling” aveva il ruolo dello spacciatore! C’è una serie di extra che abbiamo girato, con interviste agli attori e cose così, e lui se n’è venuto fuori con questa definizione che in effetti è perfetta. E lui lo sa bene, visto che faceva parte della categoria della “teppaglia dell’Est”.
Ad ogni modo, tornerà quella scintilla?
No. Perché quando è nato tutto, si stava immersi in una situazione assurda. A-ssu-rda. Il Muro era caduto, ma le istituzioni non sepevano che pesci pigliare: chi doveva controllare la città? La polizia dell’Est o dell’Ovest? Nel dubbio, non lo faceva nessuno. C’era l’anarchia totale, per chi se le voleva prendere. E se la sono presa in tanti. Dando vita a qualcosa di folle, irripetibile, o comunque di sicuro irripetibili qui in Occidente. Forse, chissà, se mai capiterà alla Corea del Nord di sfasciarsi forse si ricreeranno condizioni simili, ecco; ma mi pare l’unica possibilità. Alquanto remota, tra l’altro.
Quanto dobbiamo avere nostalgia di quei giorni?
Oggi è pieno di turisti: vero. Oggi è diventata un po’ un Luna Park standardizzato: vero. Ma comunque in città arrivano molti ragazzi di talento, a getto continuo. E non solo hanno talento, sanno pure come muoversi per provare a lanciare un segno concreto. Non cazzeggiano. Noi? Noi eravamo un disastro, a vent’anni: eravamo dei cani in quanto a promozione e capacità di comunicare, già era tanto se riuscivamo a tirare fuori un flyer. Musicalmente, a me pare che l’attitudine dei giovani producer sia abbastanza la stessa di quella che potevo avere io a vent’anni. Con però una fondamentale differenza: io, e quelli della mia generazione, dovevamo sottostare alle legge del tempo, della durata, non era tutto così immediato. Volevi diventare qualcuno, farti conoscere, avere un minimo un nome? Ci volevano anni ed anni. Ed era una legge che valeva per tutti: anche per uno Sven Väth, per dire, perché pure lui ci ha messo almeno 10 anni a costruire la figura e l’autorevolezza che poi lo ha accompagnato in tutta la sua carriera. Oggi invece ti basta imbroccare una traccia, e può succedere che arrivi subito ai piani alti, senza tappe intermedie. Se ci pensi questo è un processo comunque molto democratico: perché sta a significare che i radar sono sempre accesi, nulla va perso. Un tempo sai quanto volte succedeva che qualcuno tirava fuori dei piccoli capolavori ma, alla fine, non se ne accorgeva quasi nessuno? Oggi questo è impossibile: perché per quanto merdosa o fai-da-te sia la piattaforma su cui fai circolare il tuo prodotto, comunque alle orecchie di qualcuno finirà, e se vale, beh, farai in fretta a finire in mezzo alla cerchia delle attenzioni “giusta”. Io credo che questo sia un processo da rimarcare, appunto molto democratico. Una situazione decisamente molto migliore e anche più onesta rispetto a quanto si viveva noialtri negli anni ’90.