Dopo anticipazioni, rivelazioni, news ed enigmatiche confessioni ad accompagnare la press release, è giunto il momento di svelare cosa si cela davvero dietro “Ghettoville”, quello che a più riprese è stato presentato come l’album definitivo di Actress.
Voltare l’ultima pagina di una storia che ti ha compenetrato a tal punto da perdere in essa i confini di se stessi è un gesto tanto doveroso quanto sofferto. Non è facile da compiere come non è facile da capire, specie per chi ne è estraneo. A volte il motivo è un cambio di coordinate, di punti di vista, l’esigenza di riaffiorare in superficie per non inabissarsi troppo in quello che è stato. A volte qualcosa si è rotto e aggiustarlo non lo riporterà in alcun modo alla sua forma naturale; e così lo si lascia lì dov’è, imperfetto, incompleto, sotto una teca di cristallo, per venerarne l’immagine che un tempo rappresentava. A volte invece il sentiero è semplicemente finito,la tua strada si è conclusa, ti volti indietro e vivi di riflessi oppure balzi in avanti e ti getti nel vuoto.
In ogni caso scrivi la parole fine. E’ inevitabilmente un gesto personale, carico di simbolismo e di grande trasporto emotivo.
“Ghettoville” è un album di sensazioni. Non è inquadrabile né ha senso scomporlo, analizzarlo, provare a descriverne le parti. Te lo prendi dentro e lasci che ti trasmetta tutto il peso delle sue visioni. Ti fai travolgere da qualcosa di estraneo che pure ha l’incredibile capacità di portarti esattamente dove vuole. Chiunque tu sia, quale che sia il tuo stato d’animo, la tua capacità di restare sul pelo dell’acqua o l’abilità con la quale riesci a calarti nelle sue suggestioni, nell’istante in cui “Forgiven” inizia a strisciare nelle tue orecchie sei perso nella città deserta di Darren Cunningham. Avvolto dal buio non ti resta che la percezione del trascinarsi lento e grave di qualcosa attorno a te. Sulle mani percepisci la polvere delle macerie. Suoni gretti e sporchi ti accompagnano per tutta la durata del viaggio, inutile provare a rintracciarne la fonte, non ci sono filtri, non c’è ordine, nessun lavorio sofisticato, nessun gioco. Nessuna meta da raggiungere. piano piano lo capisci. Finisci per prenderci gusto e ti senti quasi protetto da tutta quell’oscurità. Sei qualcosa di diverso da prima, sei parte di essa.
Ora riesci a vedere. Qua e là scorgi melodie andare e venire, casse grasse vomitare bombe distorte, poi tacere, poi ricominciare, ondeggiando su e giù, a destra e sinistra, come in un mondo fatato in cui, per quanto tenebroso, tutto è vivo e si muove all’unisono. E quando dopo tanto buio scorgi finalmente la luce ad illuminare i tuoi ultimi tre o quattro passi, ti sembra più calda e lucente di quanto non ti fosse mai parsa. E quasi ti commuove il pensiero che la storia sia finita.