Su queste pagine spesso e volentieri annunciamo eventi, festival, cose interessanti: per fortuna in Italia c’è una parte molto coriacea di appassionati di un certo tipo di musica, e nonostante le mille difficoltà – un paese da sempre allergico a un certo tipo di cultura “nuova”, soffocato dalla burocrazia, con una classe politica talora inadeguata talora volutamente arretrata – anche l’Italia è percorsa da un mare di cose belle.
Anzi: ripetiamo spesso che la nostra nazione dovrebbe puntare ancora di più su alcune sue specificità: i posti bellissimi (che pochi paesi al mondo), io cibo buonissimo (idem), il calore umano (idem). Non saremo mai bravi come gli olandesi o gli americani ad essere grossi e spettacolari, non saremo mai scafati come gli inglesi, mai precisi come i tedeschi, ma su alcune cose possiamo avere un vantaggio competitivo che, secondo noi, è stato sfruttato ancora solo in minima parte. Ecco il perché dell’enfasi che mettiamo, da sempre, su festival come Dancity o Jazz:Re:Found, e tanti, tanti altri. Festival che tra le altre cose dimostrano di essere davvero coriacei: nonostante la pandemia e tutte le difficoltà annesse, hanno tirato fuori cose strepitose in questi due anni, e lo faranno pure quest’anno.
Non sempre però si possono fare annunci trionfali e raccontare storie di resilienza. Lo sapevamo da qualche giorno (e lo sospettavamo da tempo), ma oggi c’è finalmente l’annuncio ufficiale: la storia di FAT FAT FAT Festival termina qui. Non ci sarà l’edizione 2022. Né ci saranno altre edizioni in futuro. Sono sempre parecchio stati alla mano ma anche discretamente perfezionisti, quelli del team del festival: piuttosto che fare le cose a metà, piuttosto che andare avanti in modo residuale o per forza d’inerzia, hanno deciso di dichiarare chiusa l’esperienza. La buona notizia collaterale è che se ne apre un’altra, diversa, chiamata Organic Music Society: tenete d’occhio queste pagine.
Però ecco: cosa ci resterà di FAT FAT FAT? Tantissimo. Resterà un festival che ha portato nelle Marche non solo e non tanto dei grossi nomi, quanto dei nomi scelti veramente con gusto e senza compromessi. Se ci perdonate la semplificazione giornalistica: FAT FAT FAT è stato davvero “il piccolo Dekmantel italiano”. Per indirizzo musicale – e già questo è un complimento enorme – ed anche per atmosfera. Non giocava ad essere quello che non era, il festival: clima umano alla mano, allestimenti di gusto ma mai eccessivi, location molto “italiane” (dalla cittadina medievale alla corte di campagna). Ma al tempo stesso una cosa che l’ha sempre caratterizzato è stata la cura nella qualità del suono, aspetto troppo spesso sottovalutato qui dalle nostre parti (…e mai sottovalutato in Olanda).
Ci mancherà? Sì. Tanto. Ma ancora di più apprezziamo la loro decisione di saper definire chiusa un’esperienza. E diciamo questo sottolineando che non arrivavano da edizioni in declino, anzi: la crescita del festival, prima della mazzata dello stop per pandemia, era evidente. Nei numeri, nel fatto che sempre più il pubblico arrivava da altre regioni d’Italia (quanti milanesi!), nella qualità degli ospiti. Non stiamo parlando insomma di un evento che va a inevitabilmente a chiudersi perché ormai era sempre più in difficoltà e fallimentare, ma dell’esatto opposto.
Anche in questo ultimo passo, FAT FAT FAT è stato una felicissima anomalia. Chiunque di voi ci sia passato, tenga per preziosi i bei ricordi che il festival gli ha regalato: non torneranno più, e forse per questo sono ancora più importanti. Certo volte una chiusura può essere importante tanto quanto l’annuncio di una nuova edizione.