C’è un passaggio molto azzeccato nel grande viaggio musical-calcistico che Federico vi ha fatto fare raccontandovi molto bene i momenti salienti dell’ADE, e in generale l’ADE stesso: un ADE che viene descritto pertinentemente come “punto di arrivo per chi sogna di far parte di questo strano e controverso sistema”. In effetti, secondo un certo tipo di prospettiva, è effettivamente così. C’è la bellezza della città, c’è il numero stratosferico di venue di ogni dimensione, c’è l’appoggio delle istituzioni; c’è un’abbondanza pantagruelica di serate se non imperdibili almeno sfiziosissime (e comunque di imperdibili ce ne sono sempre); c’è tutto questo, ma c’è anche un sottile venticello che non ci piace del tutto. Quindi ecco, considerate questo post come il gemello un po’ più malmostoso e meno sorridente di quello scritto dal buon Raconi. Il post dei piccoli, potenziali campanelli d’allarme.
Un campanello d’allarme ci è sempre suonato, nelle tre edizioni fatte all’ADE, davanti al Felix Meritis e al Dylan, i quartieri generali diurni. Un assembramento di gente che pare un suk. Molti di questi, diciamolo, con una famelica voglia di fare affari, di stringere contatti. Ora: fare affari e stringere contatti è tutto tranne che un peccato, chiaro; ma in un contesto artistico – ehi, la club culture è fatta di musica, e la musica è arte – è sempre bello che ci sia un po’ di rilassatezza in più rispetto a chi vende profilati in alluminio o piastrelle. Non ci piace, e lo diciamo a costo di essere snob, quando vediamo persone che sono lì con l’idea fissa di abbordare in modo garibaldino dei personaggi che potrebbero svoltarti la carriera. Fidatevi, la differenza si vede. Quando si è sereni con se stessi e con ciò che si fa non c’è quell’ansia febbrile di approcciare le persone, scrutare il loro badge per vedere chi sono e soprattutto quanto sono importanti. Ancora meno nell’era di internet. Incontrarsi di persone è sempre meglio e sempre più bello dello scambiarsi mail, ma chi vede l’ADE come un posto dove poter avere un’ascesa professionale attaccando affannosamente bottone rovina un po’ il clima.
Oppure, ed è questo il vero campanello d’allarme, anzi, un campanaccio bello grosso, sono perfettamente in linea con un preciso indirizzo molto mercantile che si vuole dare all’ADE e che, insomma, sarebbe anche nel DNA del popolo olandese, popolo di grandi mercanti. E’ molto interessante leggere nel programma ufficiale l’introduzione all’edizione di quest’anno scritta dal boss, Richard Zijlma: si evidenzia prima di tutto, e con più enfasi su tutto il resto, come l’ADE sia diventato un magnifico punto di riferimento per le aziende che vogliono investire. Il prodotto – che è la “dance”, ovvero la “d” di ADE – è sempre più popolare, sempre più vincente, sempre più in grado di coinvolgere le folle. Il che va bene, ma pare quasi che l’effetto migliore di questo sia la possibilità di attrarre investimenti e nuovi investitori. Un approccio molto commerciale. Che va benissimo. Così come va benissimo che la classifica di DJ Mag sia diventato un ridicolo “successometro”, dove la qualità non conta più nulla ma conta solo la potenza di fuoco della macchina industrial-promozionale che si ha alle spalle. Ehi, ma vogliamo davvero che l’ADE tutto si arrenda alla forza di questo pensiero unico? Vogliamo che segue in modo sempre più convinto questa strada?
No. Perché la ricchezza di Amsterdam in quei giorni è data anche e soprattutto da alcuni elementi fondanti della club culture: lo stare bene (e non il guadagno), la tolleranza (e non la competizione), il calore del clubbing (e non solo il gigantismo coi fuochi d’artificio). Anche per questo amiamo l’ADE così tanto ma, attenzione!, è anche di questo amore come il nostro che l’ADE si è nutrito per crescere, diventare importante, diventare strategico, diventare un’impresa di successo; non è stata solo la bolla dell’EDM (cavalcata guarda un po’ alla grande proprio dagli olandesi) ad aver rappresentato il patrimonio “ideale” ma anche economico creato negli anni dal festival. C’è anche lei, ci mancherebbe, è grande, è importante, è anche bella e spettacolare a modo suo; ma se iniziamo tutti quanti a parlare il linguaggio del guadagno, della scalata sociale-lavorativa, della massimizzazione dei profitto ci consegniamo mani e piedi proprio a ciò che anima e spinge il sistema-EDM che in tanti dicono di avversare. Che differenza c’è tra Martin Garrix con un pubblico di bambini vocianti e grandi nomi “nostri” che diventando re di Ibiza per meriti più manageriali che artistici gonfiano il proprio cachet a dismisura? Nessuna, se non che almeno il team di Garrix si sbatte di più a metter su un apparato scenografico in grado di strappare un ammirato “wow!”. Entrambi però tendono ad incasellare la musica e il loro apparire dal vivo non come un’esperienza creativa, ma come un mezzo per consolidare il proprio successo e la propria industria.
L’ADE è fantastico perché ti mette di fronte a queste componenti. Queste, e tutte le altre. Hai tutto davanti a te: hai i sordidi party come quello di Seth Troxler che suona a cazzo come tecnica ma si diverte e diverte in un posto patibolare come il Closure, hai la linda e gigante perfezione dell’Amsterdam Music Festival all’ArenA, il trionfo dell’EDM; hai questo, e hai tutte le misure di mezzo. Nell’avere tutto davanti a te la cosa fondamentale è mantenere un’attenzione nitida, un senso critico vivo e reattivo, una capacità di saper scegliere, giudicare e non farsi trascinare dall’euforia del momento. Ecco perché questo articolo è il gemello “cattivo” di quello, stillante entusiasmo, di Federico: l’ADE è una cosa fantastica, ma nell’essere fantastico dobbiam stare attenti non diventi una cosa pericolosa, ovvero la celebrazione dell’approccio per cui la “dance” è merce ed è la merce giusta oggi come oggi da proporre ai grandi capitali in cerca di massimizzazione degli investimenti. Che questo l’abbia scritto Richard Zijlma presentando l’edizione 2015 ci può stare, d’altro canto lui e il suo team devono tenere in piedi una macchina molto complessa e molto grande, devono far marciare anche i numeri al meglio; ma noi, noi che la club culture la facciamo ogni giorni, a questo approccio dobbiamo stare attenti. Molto ma molto attenti. Perché la club culture non è nata come la scena di una “musica di successo”; al contrario, era la scena di una musica che per l’industria musicale più mainstream è in origine stata considerata qualcosa di minore, inutile, poco comprensibile, difficilmente assimilabile. Che non ci siano più steccati va benissimo, che ogni tanto gli stilemi dance trionfino nel pop per qualche stagione è molto interessante ma, per favore, non dimentichiamo i basics. Il “sistema” dance è “strano e controverso”, riprendendo lo spunto iniziale, ed è bello che sia così, in evoluzione, in movimento. Ma una bussola è necessaria; una cartina che ricordi sempre da dove si proviene e perché si proviene da lì, pure.
Il modo molto triste – e qui ci smarchiamo un attimo da quanto scriveva Federico – in cui è stato affrontato il tema di suo nodale e fondamentale dello stato di salute della techno (un panel che prometteva moltissimo e ha mantenuto pochissimo, nonostante l’ottimo parterre di ospiti, e probabilmente per la fiacchezza del moderatore) ci ha insospettito, in qualche modo: ci ha fatto intravedere un futuro dell’ADE e non solo dove tutta la cura e l’attenzione viene fatta per inscenare live spettacolari (o organizzare panel dove vengono magnificate case histories imprenditoriali di successo) e poca attenzione e profondità viene invece dedicata a ragionare su quelle che sono le radici fondanti di tutta ‘sta faccenda e il loro stato di salute reale. Non può accadere. Non deve accadere.