Dovremmo essere a pezzi. E in fin dei conti lo siamo. Quelli appena trascorsi sono stati cinque dei giorni più intensi (vista la combinazione dovere/piacere) che ci sia capitato di vivere. Abbiamo fatto su e giù per tutta Amsterdam (altro che quelli della consueta Maratona annuale svoltasi, per altro, domenica), mangiato poco, male e quasi sempre di fretta, bevuto litri di caffè insipido che sembravano non bastare mai, fatto stretching in mezzo alla gente nei club per rilassare i muscoli straziati. E stamattina siamo qua, col lavoro accumulato da smaltire, l’ennesimo caffè che sa di niente a fumare pensieroso sulla scrivania, un po’ di musica di decompressione nelle orecchie e l’espressione tipica di chi ha in mente solo parole non citate nella Bibbia. Eppure il primo pensiero sarebbe quello di ricominciare tutto. Da capo, senza esclusioni.
Perché Amsterdam Dance Event è un’amante insaziabile, che ti tiene stretto a sé senza mai poter prendere fiato, ovviamente con i pregi ed i difetti del caso. E’ una presenza che si avverte non appena varcata la Centraal Station della capitale olandese, che si vive ad ogni angolo, dall’isola pedonale del centro ai docks di Amsterdam Noord, dal quartiere dei musei fino ai capannoni di Sloterdijk. ADE è sempre lì, a ricordarci che è possibile invadere il tessuto urbano e sociale di una città bella e dannata come Amsterdam con un pizzico di genio, gli agganci giusti (è pur sempre la BUMA a muovere i fili) e tanta (ma tanta) voglia di fare. E’ negli innumerevoli piccoli e grandi luoghi d’incontro: musei, hotel, negozi, sottoscala e chi più ne ha più ne metta, trasformati per l’occasioni in installazioni, panel, workshop, showroom, inspiegabilmente tutti sempre pieni di appassionati e curiosi ad ogni ora del giorno. E’ negli oltre 450 (quattrocentocinquanta, avete capito bene) eventi organizzati in ogni parte della città per un totale di oltre 100 club coinvolti, dai più piccoli e improvvisati, disseminati fra i vicoli del centro storico, fino all’imponenza del Gashouder e dell’Amsterdam Arena, uno stadio trasformato in discoteca. Ma ADE lo si vede soprattutto nelle migliaia e migliaia di persone (l’organizzazione ne ha stimate circa 365.000) che fin da martedì sera hanno raggiunto la città olandese da ogni parte del globo e che hanno portato (dal clubber novizio fino ai padroni del business, passando per i tantissimi artisti ed addetti ai lavori) il loro piccolo mattoncino per mantenere questo evento come punto di arrivo per chi sogna di entrare a far parte di questo strano e controverso ecosistema. Cifre talmente imponenti da credere quasi che siano finte, eppure è tutto vero. E’ tutto lì da vedere.
Visto che, oltre alla musica elettronica, il grande amore dei Paesi Bassi è da sempre (senza dubbio) il calcio, e considerato che molti dei campioni che hanno fatto la storia di questo sport sono stati svezzati da quelle parti, abbiamo pensato di giudicare quanto di meglio abbiamo visto durante questo ADE in maniera un po’ particolare. Attingendo liberamente fra artisti, eventi, venue e chi più ne ha più ne metta, abbiamo creato una sorta di formazione tipo. Una personalissima top 11 con tutti gli MVP della manifestazione appena conclusasi. E per dare un tono ancor più ambivalente al concept abbiamo accoppiato a ciascuno di essi un grande campione della storia olandese, intrecciandone i ruoli ed il valore all’interno del contesto in cui si è esibito.
25 Years of Ninja Tune – Edwin Van Der Sar
Rimasta a difendere saldamente i pali per 25 lunghe primavere, Ninja Tune si è mostrata durante l’ADE in ogni sfaccettatura, guardando al proprio passato (il co-founder Matt Black che ci ha raccontato i primi vagiti dell’etichetta), al presente (un sold out ed un plebiscito annunciati al Melkweg per il party del giovedì) ed al futuro (l’interessantissima chiacchierata con l’attuale proprietario Peter Quicke). Come per il portierone dell’Ajax prima, della Juve e del Manchester United poi, ci sono sicuramente stati dei momenti in cui la strada sembrava essersi persa, ma come non si arriva per caso ad alzare due Champions League, non si entra (e di diritto) nell’Olimpo della musica elettronica senza che il bilancio dei pro e contro penda nettamente nella direzione dei primi.
Felix Meritis + Dylan – Frank De Boer
Il cuore pulsante dell’ADE ed il centro nevralgico del grande Ajax degli anni ’90. Tutti (siano essi visitatori o palloni da smistare), in un modo o nell’altro, sono necessariamente transitati dalle stanze dei primi o dai piedi del secondo. Questa è l’importanza di avere un grande cervello a cui poter affidare il compito di guidare i neuroni nella direzione giusta. I due hotel, siti fra le sinapsi del centro cittadino, hanno avuto anche quest’anno un ruolo chiave come punto di raccolta per gli appassionati e curiosi che hanno invaso con piacere i tantissimi eventi organizzati nelle panel room o semplicemente scambiato quattro chiacchiere davanti a una birra nei momenti di relax.
Robert Hood – Jaap Stam
Il gigante di Kampen ed il reverendo di Detroit hanno saputo come pochi altri prima di loro coniugare una spietatezza letale sul campo di gioco ed una dolcezza e bontà d’animo quasi inaspettata lontano dai riflettori. Vedere le due facce di Robert Hood, fra il bellissimo Q&R al Felix Meritis (tra il sacro ed il profano si è parlato anche di dire Messa al Berghain) ed il suo live Floorplan all’Elementenstraat, rende a pieno l’idea di quanto dietro al granitico profilo di durezza e disagio sociale della techno di Detroit, quella dei primi vagiti di Underground Resistance, ci siano in realtà delle persone con valori profondi, qualcosa di più che delinquenti prestati al mondo della musica (o del pallone). Il rispetto che tutta la scena gli ha da sempre riservato ne è la più grande testimonianza.
Dockyard Festival – Edgar Davids
La faccia più temuta, quella più grezza. I docks di Amsterdam Noord sono un posto dove non si finisce per sbaglio, sono il luogo dove solo i più temerari hanno deciso di spingersi durante la (freddissima e piovosa) giornata di sabato per ballare instancabilmente fino a sera, rimbalzando da un tendone affollato all’altro, masticando hamburger mezzi crudi e allo stesso tempo camminando per non perdersi neanche un minuto del prossimo dj in scaletta sul proprio programma personale. Un festival, il Dockyard, che ti chiedi come faccia ad essere preso sul serio con quella combinazione di clima da tundra e desolazione post-apocalittica ad ammantarlo. Un po’ come disse Billy Costacurta di Davids prima che venisse cacciato dal Milan definendolo una mela marcia. Ma spesso è proprio sotto lo strato scuro e poco invitante (il gorgonzola ci ha costruito sopra una carriera) che si possono annidare le più grandi sorprese. E come il giovane Edgar ha saputo ritagliarsi il ruolo di pedina insostituibile nel centrocampo della Juventus e dell’Olanda, il Dockyard ha saputo stupire e coinvolgere tutti con la sua atmosfera bollente ed i tanti artisti in serata di grazia (per citarne alcuni: Truncate, Drumcell, Paul Ritch, The Advent e Julian Jeweil, che si sono particolarmente distinti per qualità e quantità della loro proposta musicale).
Jeff Mills – Clarence Seedorf
Semplicemente, due che se li mettessi a fare qualsiasi lavoro stai certo che presto o tardi imparerebbero a farlo comunque meglio degli altri. Hanno avuto entrambi la capacità di vincere e convincere in ogni terreno abbiano solcato. Hanno saputo valorizzare al meglio la loro esperienza di vita, applicandola poi in tutte le maniere possibili a ciò che sapevano fare meglio. Raramente, nel calcio come nella musica, si scomoda la parola “Leggenda”, ma crediamo che per entrambi i citati il termine sia tutt’altro che inflazionato. Il prode Jeff in questo ADE ha fatto praticamente tutto: ha prodotto musica in diretta streaming dallo studio originale di Rembrandt, ha risposto alle domande dei presenti al SoundLAB su temi passati e attuali ed ha offerto ai tanti (ma tanti) presenti al Warehouse 22 un venerdì notte all’interno della sua illimitata fantasia musicale tramite il viaggio nel tempo di Time Tunnel. Se non lo avessimo visto in carne ed ossa penseremmo davvero che sia venuto da un altro pianeta.
Dave Clarke – Johan Neeskens
Il termine “Box to Box” per descrivere un calciatore viene solitamente utilizzato quando lo stesso riesce ad essere talmente padrone dei propri mezzi tecnici ed atletici da poter salvare un tiro sulla propria linea di porta in difesa e sul contropiede battere a rete nel giro di pochi secondi. E se Johan Neeskens, nettamente il secondo violino dell’Olanda del 1974 e campione di una bellezza (calcistica e non) sconvolgente, era un perfetto esempio di questo concetto, Dave Clarke ne è da anni la degna trasposizione applicata all’ADE. Lo si trova a suo agio senza problemi tanto sui divani del Felix Meritis quanto nella sua (ormai storica) serata del venerdì al Melkweg, passando per i fornelli dell’ADE Cook Off e dal dibattito di apertura del martedì sera. E’ semplicemente ovunque e la sua è una presenza mai banale; del resto di banale non c’è mai stato nulla nella sua carriera. Letteralmente onnipresente.
Lo stato di salute della techno – Arjen Robben
Da sempre la techno è stata la musica meno soggetta alla luce dei riflettori. Anzi, nei lustri passati chi diceva di esserne un adepto era sovente considerato alla stregua di un folle (o peggio ancora, di un drogato da rave) senza nessuna possibilità di replica. Un po’ come coloro che, quando Arjen Robben sbagliava il gol nella finale del Mondiale, o il rigore decisivo contro il Chelsea o il Borussia Dortmund, cercavano di ricordare ai tanti detrattori che se a quel punto ci si era arrivati era anche e soprattutto per merito suo. Eppure veniva comunque etichettato come perdente. Poi però sono arrivati i gol decisivi, i trofei hanno cominciato a fioccare e le luci della ribalta si sono posate come d’incanto sul ragazzo della Groninga. In un certo senso quanto successo alla techno negli ultimi anni non è molto differente; e ci siamo ritrovati a parlarne insieme a molti dei nomi che hanno contribuito a crearne il nome ed a coltivarne l’espansione, che si sono divisi fra coloro i quali credono nell’importanza del mantenere lo status elitario a cui la techno ha sempre appartenuto (Dave Clarke, Steve Rachmad e gli Octave One) e chi invece (su tutti Chris Liebing) vede nella rivincita della techno un’occasione per raggiungere più appassionati possibile e togliersi di dosso inutili stereotipi. Ovviamente senza che si perdano i valori originali del movimento.
Awakenings – Johan Cruyff
Scendono in campo i pezzi da novanta. L’attuale campione dei pesi massimi della club culture olandese e colui che è stato votato giocatore europeo più forte di tutti i tempi. Entrambi hanno saputo sfruttare le proprie qualità ed il credito ottenuto in anni di grandi prestazioni per gestirsi come un’azienda in grado di muovere cifre davvero esorbitanti. Ed a un certo punto della carriera hanno deciso di varcare la famigerata “pozza” aka l’Oceano Atlantico: Cruyff giocando (per diverse squadre, per altro con poco successo) nella neonata MLS ed Awakenings diventando proprietà del colosso SFX Entertainment (già padrone di ID&T ed altri marchi simili) che oggi pare stia veleggiando in acque poco tranquille, come già vi avevamo raccontato. Negli ultimi anni Awakenings ha un po’ standardizzato (soprattutto nelle clubnight) la sua proposta musicale, appoggiandosi a brand di facile richiamo come Drumcode, Electric Deluxe, Carl Cox, Enter, eccetera eccetera, perdendo in parte il fascino della sperimentazione musicale che alcune serate passate avevano saputo regalare. Durante l’ADE abbiamo visitato due volte il Gashouder, rispettivamente nella prima e nell’ultima serata, e non possiamo di certo nascondere che per quanto non si troverà niente che non si sia già visto o sentito da quelle parti, la meraviglia nel vedere ogni volta una struttura ed un impianto simili lascia tutto il resto in secondo piano. Ed in fin dei conti, sentire Adam Beyer e Speedy J anche alla centesima volte regala sempre discreti attimi di gioia.
Four Tet – Dennis Bergkamp
Il talento cristallino, quello di chi non ti fa mai capire cosa ha in mente. Questa è da sempre croce e delizia di tanti fra coloro che hanno lasciato un segno nella storia. I due citati sono fra i massimi esponenti di questo concetto e sono soliti danzare sopra ad una lama di rasoio, posta esattamente a metà fra l’amore e l’odio delle rispettive platee. Dennis Bergkamp era capace di non toccare un pallone per 90 minuti e poi di fare gol come quello all’Argentina a Francia ’98 o all’Arsenal, con una piroetta degna della prima ballerina del Bolshoi. Allo stesso modo Four Tet ha saputo spesso, nel corso della sua carriera, distribuire alla stessa maniera sbadigli ed urla di gioia, con un range musicale talmente ampio da renderlo sempre e comunque imprevedibile. Ma nella serata Dekmantel di giovedì notte, nell’ex MC Theatre (oggi Westergastheater), le uniche bocche spalancate erano quelle di chi era rimasto senza parole per la carica ed allo stesso modo la raffinatezza dei 120 minuti che ha avuto a disposizione. Monumentale, semplicemente monumentale.
KiNK – Ruud Van Nistelrooy
Il vero cannoniere di questo ADE è stato però il bulgaro Strahil Velchev, che ha saputo insaccare (come il prode Ruud ha fatto per tutto il corso della carriera) ogni palla vagante sia passata dalle sue parti, come il migliore dei centravanti vecchia scuola. Opportunista di razza e con la giusta dose di follia, ha saputo appassionare sia coloro che l’hanno raggiunto nella mattina di giovedì nel suo panel dimostrativo per Roland al Compagnietheater, sia nelle clubnight in cui è stato coinvolto. Su tutte quella ZeeZout del venerdì all’Undercurrent (scaldata a dovere da Prosumer e Tama Sumo) dove, ad un orario tardo e non semplicissimo da approcciare, ha saputo resuscitare anche chi come noi (in giro da quasi 24 ore fra conferenze e party) era già mentalmente sulla via del materasso.
Masters At Work – Marco Van Basten
Una ragazza sabato sera mi ha chiesto qual è stata la rilevanza dei MAW nella storia della musica house. Ero indeciso tra Gesù per i Cristiani e Marco Van Basten per il calcio. Ed in fin dei conti non si va nemmeno troppo lontani. Quando pensiamo a questi due nomi, il primo tarlo che insistentemente si fa largo fra i nostri pensieri è: “Pensa cosa avrebbero potuto fare se solo avessero avuto più tempo”. Perchè sfido chiunque sia appassionato di pallone a dire che vedere quel giro di campo, con la giacca di renna in una mite sera di mezz’estate, non gli abbia strappato fuori qualche lacrimuccia. Perché in quel momento perdevamo tutti, perdeva il calcio. Lo stesso discorso è perfettamente applicabile ai Masters At Work, che pur mantenendo uno stile ed una tecnica assolutamente inoppugnabili, dopo la reunion sembrano davvero due separati in casa. E fa male, tanto. Abbiamo avuto occasione di ascoltarli (insieme a Todd Terry, Dimitri Kneppers e Remy) nell’ormai rinomato OWAP, party celebrativo del periodo dell’acid house, organizzato con buona costanza nella città dei canali e senza ombra di dubbio non solo il miglior evento (a parer nostro) di questo ADE, ma anche una delle migliori feste organizzate nei Paesi Bassi di recente. E sentire Kenny e Louie mettere tutti i classici che li hanno resi immortali ha lasciato allo stesso tempo senzazioni contrastanti; estasi ma anche e soprattutto amarezza per non aver vissuto a pieno il loro periodo d’oro. Un po’ come il gol di testa in tuffo sotto la Sud di Marco all’addio al calcio di Demetrio Albertini. Uno in grado di fare una cosa del genere oggi, pensa cosa doveva essere ieri. Ma ci si deve accontentare di spellarsi le mani, ringraziare e asciugarsi gli occhi lucidi. Grazie ragazzi.